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Ventuno rebirth
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Ventuno rebirth

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About this ebook

Ventuno è una raccolta di racconti.

Ci ho messo dentro pezzetti di vita, per come la intendo io.

Credo che i concetti abbiano bisogno di storie, per essere capiti e condivisi.

C'è un perdono che arriva appena in tempo.

Una bambina che nasce da due fantasie.

Un mago per finta. Che alla fine è un mago vero.

C'è Modigliani, Virginia Woolf e William Yeats.

Ventuno perché durante l'Aumkara il mantra Om viene intonato ventuno volte esatte (e un motivo dovrà necessariamente esserci)

Ho provato a metterci l'amore, la paura, la compassione ma anche il divertimento e la follia.

Queste sono storie nate in momenti diversi della mia vita, e messe insieme qui.

Spero si facciano compagnia, pur nella loro diversità.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateApr 8, 2019
ISBN9788831614597
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    Ventuno rebirth - Simone Delos

    633/1941.

    Scordarella

    All’inizio pensai che fosse uno scherzo.

    Era divertente, quasi facile pensarla così.

    Dopo una vita trascorsa a immaginarla tua moglie, seduto a una scrivania a inserire dati, a guardarti ogni giorno le spalle pronto a schivare le coltellate della gente che, negli uffici, passa il tempo a cercare il punto dove la carne è più tenera, e tornare la sera troppo distrutto per viverlo davvero il tuo matrimonio, non poteva essere che uno scherzo, un indovinello del destino. Qualcosa del tipo: ti va di giocare un po’ a un gioco nuovo?

    Questo pensai, all’inizio.

    Il primo mese da pensionato decisi di trascorrerlo in viaggio.

    Prenotammo una crociera nel Mediterraneo: qualcosa di rilassante ed emozionante al tempo stesso.

    Non avevamo figli perché non ne avevamo mai avuto il tempo.

    Da giovane Maria aveva sofferto per questa cosa. Mi diceva che sapeva che sarebbe stata madre di tre bambini: due maschi e una femmina, nel mezzo. Ne era certa, l’aveva sognato.

    Io sapevo già che i sogni a volte sono i film di quello che non avrai mai, ma un po’ lo speravo anch’io. Di averli, intendo.

    Non andò così e col tempo perfino lei si arrese all’idea che il suo desiderio di maternità sarebbe rimasto nel cesto di quelli inesauditi. Un cesto pieno, perché quelli che si esaudiscono sono davvero pochi.

    Dicevo della crociera: fu lì che iniziò.

    Cabina spaziosa. Balcone sul mare.

    Io rilassato, felice. Lei che mi abbracciava, la sera, prima di dormire. Io, che non ero stanco, rispondevo all’abbraccio. Ho sempre pensato che per sposare una persona devi amare i suoi abbracci. Prima del resto devi amare i suoi abbracci. E ci abbracciavamo, su quella nave, come forse non l’avevamo mai fatto.

    Visitammo Corfù, con i suoi castelli di pietra a picco sul mare. Poi Mykonos e Maria carezzò Petros, il pellicano che girava per le vie come una star.

    Vedemmo tanti porti e poi tornavamo in nave e ballavamo spesso fino a notte inoltrata.

    Ridevamo spesso. Come da ragazzi.

    Una mattina mi svegliai mentre Maria era già in bagno. Quel giorno la nave attraccava a Spalato. Era l’ultimo giorno di crociera, poi saremmo tornati a Venezia. Accesi una sigaretta sul balcone. Mi piaceva farlo lì, affacciato sul mare. Mi dava una bella sensazione.

    «Posso venire in bagno amore?»

    «Sì, tesoro, vieni: mi sto preparando.»

    Maria aveva ancora capelli bellissimi e lunghi fino alla schiena. Spesso si svegliava presto per il piacevole rito di lavarli e poi spazzolarli con cura.

    Quando entrai, era seduta sullo sgabello, davanti allo specchio.

    Non me ne accorsi subito.

    Vedere quei movimenti lenti ed esatti delle braccia. Il collo, ancora giovane e liscio, inclinarsi appena per assecondare la direzione delle ciocche. Mi incantava.

    «Ho quasi finito Giulio. La nave sta per arrivare al porto, vero?»

    Non riuscii a risponderle. Come se avessi la gola chiusa da un cappio: si stava pettinando, ma senza avere la spazzola in mano.

    Credo sia la capacità della nostra mente di interpretare, o meglio, di trovare i significati che preferisce, rispetto alle cose che vediamo, che sentiamo a renderci diversi dagli altri esseri del pianeta. Un modo per proteggerci, credo. Per camuffare il dolore.

    Questo tradusse la mia mente, un istante dopo la paura perché, si sa, la paura viene sempre per prima.

    «Amore», dissi sorridendo, «stanotte forse la nave ha ondeggiato troppo?»

    Maria si girò con espressione interrogativa.

    «Da quando ti spazzoli i capelli senza la spazzola?»

    Lei si guardò le mani. Un attimo. Forse ebbe la stessa paura, o una paura ancora più grande. Poi sorrise anche lei. «Ahahaha sì! Devo essere un po’ rimbambita stamattina.»

    Poi prese la spazzola e iniziò a pettinarsi davvero. «Ci metto pochissimo, prometto.»

    Io uscii dal bagno. Accesi un’altra sigaretta e andai sul balcone.

    Il mare sembrava aver cambiato colore.

    Era diventato nero.

    Scendemmo a Spalato e iniziò il giro di souvenir e bancarelle, poi pranzammo in un ristorante italiano da dove si vedeva la nave attraccata poco al largo.

    Quella sera Maria disse che era un po’ stanca e andammo a dormire presto.

    Quando mi svegliai, eravamo a Venezia.

    Lei era già in piedi. Le valigie piene. Rovistava tra i fogli. «Buongiorno tesoro», mi disse. Era agitata. «Non riesco a trovare i documenti, li tenevi tu?»

    Mi presi un minuto per registrare la cosa e decidere la risposta.

    Eravamo sposati da vent’anni. Più altri sei di convivenza prima del matrimonio, e mai, mai aveva lasciato che mi occupassi dei documenti o cose del genere. Sbadato com’ero. Lei sempre precisa, ordinata, scrupolosa.

    Poi scelsi, e quella scelta fu la decisione più importante della mia vita. Quella che rispettai con la maggiore coerenza. «Sì, Maria», dissi, «li ho io, tranquilla, vai a cambiarti che tra poco scendiamo.»

    Lei sembrò sollevata.

    Quando rimasi solo nella cabina presi a rovistare ovunque cercando quei documenti. Mia moglie nasconde le cose in modo perfetto. Lo raccontavo spesso in ufficio e tutti ridevano. Alla fine li trovai in fondo al suo trolley, in un sacchetto di stoffa chiuso con un nastro viola.

    A Venezia prendemmo il treno che ci riportò a Roma, poi il taxi, fino a casa.

    Il telefono squillò quasi subito, Maria aveva già iniziato a disfare le valigie.

    «Rispondo io!», le dissi

    Lei aveva due sorelle più grandi. Elvira era già nonna.

    Avevamo tre nipoti e un pronipote di quasi un anno.

    «Zio ciao! Siete tornati?», era Gaia, la figlia di Paola, la sorella maggiore.

    «Ciao Paola», la salutai. «Siamo rientrati giusto una mezz’ora fa.»

    «E zia?»

    «Secondo te?»

    «Sta svuotando le valigie.»

    «Ahahah vedi che la conosci bene? Ora te la passo.»

    «Ok zione, ciao!»

    «Maria!», chiamai.

    «Sì?»

    «Vieni! C’è Paola al telefono!» «Arrivo!»

    C’era un tacito accordo tra di loro, Maria e le sorelle, quasi una promessa fatta senza parlare. Mia moglie era l’unica a non aver avuto figli. Per questo i figli delle altre l’avrebbero dovuta considerare qualcosa di più che una zia. Un’altra madre, quando sarebbe stato possibile. E per Paola lo era davvero.

    Mentre erano al telefono, andai in camera: eravamo entrambi stanchi, del viaggio in treno, volevo dare una mano a sistemare. Le valigie erano vuote, sul letto. Aveva già fatto tutto lei. Le mie camicie erano appese così come i pantaloni in un ordine perfetto e immacolato. Per lei teneva una parte piccola della cabina armadio.

    Aprii le ante.

    Ormai avevo scelto di sorridere e avrei sorriso sempre.

    Qualunque cosa fosse accaduta.

    La mia parte dell’armadio era ordinata. Perfetta, ma non c’erano le mie di cose. C’erano i suoi vestiti.

    I giorni passarono svelti, come se il tempo avesse deciso di ingranare la quinta, dopo sessantatre anni in quarta.

    Una mattina decisi di andare dal medico. Mi parlò di Ippocampo, acetilcolina e farmaci antiamiloide ed io non capii quasi nulla tranne che dovevo far fare a mia moglie una risonanza magnetica ad alta definizione al più presto.

    Mi feci rilasciare la prescrizione.

    «Dottore?»

    «Sì?»

    «Potrebbe farmi un favore?»

    «Certo, mi dica»

    «Forse le sembrerà una cosa stupida.» «Non lo sarà, mi dica.» «Le va di sorridere?»

    «Adesso?»

    «Sì, per cortesia.»

    Sorrise.

    A Maria dissi che ogni tanto era bene fare dei controlli: in fin dei conti, non eravamo più dei ragazzini. La risonanza confermò la malattia.

    E si trattava solo di aspettare perché dall’Alzheimer non si guarisce mai. Si attende, come alla fermata di un autobus, sperando che passi il più tardi possibile.

    Allora pensai di aver fatto la scelta giusta, quel giorno, sulla nave e che sarebbe stato un gioco. Tutto soltanto un gioco.

    Con le sue sorelle e i nipoti parlai al telefono. Si presero un po’ di tempo perché le lacrime devono scorrere. Non puoi rimandarle indietro o ti pungeranno come aghi.

    Poi giorni dopo mi vollero vedere, da solo, per dirmi che sì, sarebbe stato un gioco.

    Credo che Maria avesse già capito ma, per paura o perché la malattia stava già degenerando, si comportava come se nulla fosse.

    Iniziammo a chiamarci Scordarello e Scordarella.

    Così quando lei cercava disperatamente l’orologio che aveva al polso, io fingevo di dimenticarmi il nome di mia madre.

    «Scordarella?»

    «Scordarello?»

    E giù a ridere.

    Un sabato la vidi annodarsi al collo una delle mie cravatte. Le andai dietro con le braccia incrociate e l’aria perplessa. Lei mi vide dallo specchio. «Cosa c’e’?»

    «Nulla signor Mario, le feci. Che bella cravatta!»

    Lei si guardò. Io scoppiai a ridere subito. A lei ci volle un po’ di più.

    Ci fu una mattina in cui non ci riuscii neanche io, a ridere; ero uscito a prendere il giornale, avevo fatto la colazione al bar e due chiacchiere con i vicini di quartiere. Davanti al portone mi accorsi di non aver preso le chiavi di casa e citofonai.

    «Chi è?»

    «Amore sono io, ho dimenticato le chiavi.» «Scusi chi è lei?»

    «Amore sono Giulio…», c’era panico nella mia voce. «Giulio chi?»

    Rimasi qualche minuto davanti all’ingresso, poi andai al parco vicino casa, su una panchina. Aprii il giornale e ci piansi dentro. Forte. Fortissimo. Fino a urlare.

    «Paola.»

    «Dimmi zio.»

    «Puoi venire a casa nostra con le chiavi?» «Che è successo?»

    «Maria non mi riconosce più…»

    Arrivò il momento degli infermieri e delle cure a casa. Arrivò il momento dell’imboccare per farla mangiare e del lavarla.

    Arrivò il momento delle urla, della rabbia improvvisa e delle risate isteriche.

    Io ridevo.

    Ridevo e cercavo di farla ridere mentre le portavo il cucchiaio alla bocca. Mentre le lavavo la schiena. Ridevo anche se lei non rideva più e mi diceva che avrebbe chiamato la polizia se non me ne fossi andato immediatamente. Allora uscivo un attimo. Suonavo il campanello e dicevo che ero della polizia, che poteva stare tranquilla, e lei mi diceva: «Posso offrirle un caffè agente?»

    «Perché no, signora, lei è molto gentile.»

    Allora riuscivamo a stare insieme per qualche ora fino a quando non riconosceva più neppure il poliziotto.

    Diventavo ogni giorno idraulico, pittore, elettricista, falegname. Le sue sorelle erano talvolta suore o un comitato di quartiere o altre cose che si inventavano al momento. I bambini non potevano portarli più.

    D’un tratto non riuscii più a imboccarla. I dottori mi dissero che stava peggiorando rapidamente e non riusciva più a deglutire. Aggiunsero che era meglio ricoverarla.

    Dissero così ed io le presi un letto attrezzato da ospedale e un’infermiera 24 ore su 24.

    Dormivo sul divano, anche se, per dirla tutta, ormai non dormivo più.

    Paola mi telefonò un giorno.

    Le dissi che la zia stava sempre peggio, lei però voleva sapere come stavo io e per la prima volta da quel giorno in crociera, io non seppi rispondere.

    Una notte la sentii urlare.

    L’infermiera si svegliò subito.

    Poi venne da me e mi disse che doveva essere portata subito all’ospedale. Io corsi dietro l’ambulanza come se fossi io a guidarla. La strada e tutto il resto non esistevano più.

    La misero in una stanza e chiusero la porta. Presi un caffè alla macchinetta e chiamai tutti quelli che mi vennero in mente. Arrivarono in molti.

    Poi uscì un dottore.

    «Chi è il marito?«

    Mi alzai.

    «Il sistema nervoso di sua moglie non risponde agli stimoli», disse. «Inoltre ha la polmonite. Stiamo somministrando una cura farmacologica composta da bla bla bla. Crediamo che bla bla bla. Se posso essere sincero non bla bla bla», poi scosse la testa.

    «Che cazzo scuote la testa?»

    «Come scusi?»

    «Le ho chiesto, se non sono troppo indiscreto, cosa cazzo scuote la testa!»

    Arrivò mio fratello che mi prese sottobraccio. «Andiamo a fumare una sigaretta», mi disse in un orecchio. «Dai, forza, andiamo!«

    Fuori mi parlò del destino, degli scherzi che ci facevamo da bambini. O qualcosa del genere.

    Fumai tre sigarette poi dissi che ero calmo ma volevo rientrare.

    Piangevano.

    Elvira, Paola, Patrizia.

    Piangevano.

    Tutti gli altri ad abbracciarle mentre i medici fuori dalla stanza erano indaffarati a dare pacche di conforto sulle spalle. Sentii le braccia di mio fratello attorno al collo: disse che dovevo essere forte adesso.

    Poi mi videro e iniziarono a camminare verso di me. Ma io no, non potevo riuscirci. No. Indietreggiai e loro avanzavano verso di me chiamandomi.

    Dissi: «No!»

    Urlai: «No!»

    Poi corsi via, fuori dall’ospedale e continuai a correre.

    Gli abbracci sulla nave… e continuai a correre.

    L’anello e le cene a lume di candela e Fritz il cagnolino che morì da cucciolo e i baci da fidanzati e le sue gambe tra le mie mentre dormivamo… e continuai a correre.

    Scordarella era morta.

    Ed io ho continuato a correre.

    Libertà

    Manolo e Ilaria vivevano così, per la strada.

    Si erano conosciuti un anno prima, a marzo.

    Ilaria aveva finito l’università da qualche mese ed era in quel periodo in cui ti porti la vita in mano come un coniglietto al quale cerchi una casa per vivere.

    Le piaceva scattare fotografie.

    Aveva uno strano modo di sentire le cose; le classificava in base ai brividi che sentiva sulle braccia quando le vedeva. Se il brivido superava una certa soglia d’intensità, allora doveva fermare quel momento, quell’immagine. Si prendeva tutto il tempo necessario e poi faceva lo scatto.

    Soltanto uno. Poi se ne andava.

    Le chiamava immagini metaforiche riflesse dallo specchio che sono io.

    Così ad esempio il tubo di scappamento di una Punto, che aveva fotografato due giorni prima, diventava l’assassino di un thriller in immagini che aveva intitolato God of Smog. Oppure lo strappo sui pantaloni di un ragazzo era diventato Squarci di pelle

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