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GRANATA: UNA STORIA DI RESISTENZA
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Ebook103 pages1 hour

GRANATA: UNA STORIA DI RESISTENZA

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About this ebook

Una serie di vicende umane si svolgono in un paese dell’astigiano nel 1944. Una squadra di calcio in maglia granata trascina un campionato provinciale nel contesto dalla guerra che ha coinvolto anche l’Italia. Amicizie, amori, partite di calcio, resistenza antifascista. Fatti e personaggi inventati ma con riferimento ad un’epoca significativa della storia italiana.
LanguageItaliano
PublisherEzio Boero
Release dateMar 17, 2019
ISBN9788832543124
GRANATA: UNA STORIA DI RESISTENZA

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    GRANATA - Ezio Boero

    fatti.

    CAPITOLO UNO

    Il soldato in piazza teneva la mano libera dal fucile levata verso l’alto, come a proteggersi dal sole.

    Stava immobile, forgiato nel bronzo.

    Monumento alla battaglia del Piave e ai suoi morti, pudicamente chiamati caduti.

    Un elenco di cognomi ricorrenti, forse fratelli o cugini, le cui lettere, impresse sul basamento di granito, stavano sbiadendo come il ricordo di quella guerra.

    Chiedevano làpidi altri morti, di una guerra attuale che si combatteva ovunque.

    Il corpo l’aveva trovato il postino. All’alba, nello spiazzo dietro la chiesa.

    Immobile come il monumento ai caduti, l’espressione attonita di chi s’è addormentato all’improvviso.

    I pantaloni impolverati e un buco in mezzo alla fronte.

    Faceva il macellaio, Artemio Botti, ma non era questa la sua principale attività. Con Mussolini fin dagli inizi del fascismo, fatta la scampagnata a Roma s’era dato un gran daffare per indirizzare agli obiettivi le squadracce che venivano dalla città.

    Setacciando un dopo l’altro i paesi del piano e dei bricchi alla ricerca dei rossi, a forza di botte e di olio di ricino finì che la mano andò giù pesante e lasciò a terra due morti, di fronte alla Cooperativa di un paese oltre Tanaro.

    -Poco male- disse allora Botti -Tanto ormai avrebbero potuto vendere solo assi bruciate!-.

    Così non avrebbero tramato per far tornare l’anarchia.

    Non sarebbe venuto loro in mente d’imbrattare la scritta VINCERE sul muro della chiesa.

    Non avrebbero percorso i boschi la notte colle armi.

    Un colpo sordo rompeva di tanto in tanto il silenzio del tramonto.

    Proveniva dal lungo muro al fondo della piazza che cintava il terreno della parrocchia, dedicato a Domenico Savio e al gioco del calcio.

    Lungo il perimetro, a ridosso delle case incombenti, correvano una decina di maglie granata.

    Uno solo s’allenava a parte. Sulla schiena, stampato in bianco, il numero nove.

    La palla al piede, l’occhio rivolto alla porta senza rete dove concentrava le traiettorie dei suoi tiri, facendo rimbombare il muro di fondo.

    Bruno Viarigi faceva il centravanti, quello che segnava le reti e faceva sobbalzare il cuore delle fanciulle abbarbicate al portone di ferro del campo.

    Come gli altri della squadra di calcio, lavorava ad Asti in una fabbrica che produceva motori per aerei.

    Un mestiere di primario interesse nazionale che esentava dalla leva.

    -Allora, quante reti segni domenica?-

    -Don Piero, le vie del Signore sono infinite. Ma le porte sono strette!-

    -Non bestemmiare, Bruno! E vieni a messa la domenica!-

    -Lo sa che non mi piacciono le messe-

    -Dovresti mettere la testa a partito. Ormai hai 25 anni-

    L’ultima frase Bruno non la sentì: stava già scherzando con le ragazze che stazionavano al cancello.

    Pure il prete uscì dal campo.

    Diede un ultimo sguardo al terreno spelacchiato, due giri di chiave alla serratura arrugginita e si diresse verso la piccola casa bianca di fronte al monumento ai caduti.

    Appoggiato all’uscio emergeva tra i fumi di un toscano un uomo d’una cinquantina di primavere che volgevano rapidamente all’autunno. Una pelata incipiente e un bel paio di scarpe lucide e nere.

    -Entri, don Piero, che beviamo un bicchierino di vin chinato-

    -Volentieri, commissario, ho respirato tanta di quella polvere su quel campo!-

    Per innato rispetto dell’autorità si trattenne dal dire: -Tanta quanta ce n’è qui dentro, con tutte queste scartoffie accatastate-

    Liberando una sedia da un ammasso di faldoni, continuò invece, col tono di complicità che gli derivava dalla lunga frequentazione dell’interlocutore: -Beh, si sapeva che Botti non fosse ben visto in paese. Ma che finisse così!-

    -Ho svolto personalmente le prime indagini. Il Prefetto vuole esser informato giornalmente. Hanno sollecitato anche da Roma in argomento!- rispose d’un fiato il commissario Bianco, sentendosi tirato in causa.

    Così dicendo, non mancò di rivolgere uno sguardo deferente al ritratto di Sua Eccellenza che scrutava la scrivania dal muro laterale dell’ufficio ormai in penombra.

    -Qui ci son di mezzo quei banditi. Quelli della cascina-

    Già, la cascina dei Baudrucco, quella che si ergeva isolata appena oltre la valletta delle famiole .

    Dalla morte dell’Armida, l’ultima della famiglia a temprar le ossa stanche all’umido dei boschi di farnie ed acacie, la cascina era abbandonata alle intemperie, in parte diroccata.

    Caduta un’ala del tetto, decine di coppi erano a terra in mezzo alle felci che stavano riconquistando quell’aia dove un tempo i bambini ascoltavano attenti i discorsi sulla mietitura del grano e sul prezzo dei vitelli al mercato boario di Asti.

    La Milizia vi aveva trovato armi leggere e resti di fuochi e di cibo.

    Senza dubbio un covo dei banditi. Dei partigiani della stella rossa, come li chiamavano in paese dal tardo autunno del quarantatre.

    Quando uno di loro, che non era della zona, aveva lasciato vita e berretto stellato in uno scontro a fuoco coi tedeschi

    I tedeschi s'erano insediati da allora nell’asilo sulla via per Monerrato.

    Arrivati in tanti, agguerriti, erano rimasti in cinque, uomini della riserva, quarantenni. Uno di loro mostrava ancor più anni e non s’era dimostrato neanche prepotente.

    Hans andava giornalmente in paese a far la spesa per il presidio.

    Beveva qualche bicchiere di barbera al bancone della piola , ch’era ancora dedicata al Progresso, e tornava all’asilo malfermo sulle gambe.

    Poi per due o tre giorni non si faceva più vivo.

    -Hans, dov’eri finito?-

    E lui: - Nein, nein - , come se volesse dimenticare o non potesse raccontare.

    -Hans, bevi un bicchiere e contaci della Germania-

    - Ja, ja - e iniziava a descrivere una città dove tutto era nero di carbone: le case, le acque del fiume ed anche i polmoni dei bambini.

    Parlava con incedere faticoso un italiano incerto che dapprima raccoglieva qualche lazzo, poi l’attenzione dei vecchi, inchiodati ai tavolini di fronte al quartino.

    -Hans, molla di parlare. Vieni a giocare a carte. Ve ne danno dei soldi?-

    - Nein, nein , no carte-

    -Stai tranquillo, non giochiamo mica pesante come dal conte!-

    -Nein, nein, tornare. Rancio!-

    Era stato operaio, Hans. Lo si capiva dalle mani callose.

    Dal modo in cui portava la divisa. Con uno stile assai diverso da quello del suo comandante.

    Il tenente. Che nome portasse era sconosciuto ai più.

    Di sicuro un nobile d’origine per come fissava tutti con disprezzo coi freddi occhi chiari che parevano senza sosta chiedere cosa ci facesse in quel minuscolo paese uno che sognava di guerra fin da piccolo.

    Un ufficiale di carriera come lui a comandare quei quattro debosciati che non

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