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La lettera di don Josè
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La lettera di don Josè

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Ademaro Tenuti, docente di Sociologia, per sua natura ha sempre ricercato qualcosa: la verità storica, il confronto delle fonti all’insegna dell’interesse incontenibile per le sue passioni filosofiche. Attraverso di esse e grazie a quello che i più chiamerebbero il caso approfondisce e indaga sulla sua esistenza, intreccio impensabile ma reale.
Con scrittura avvincente e ammaliante, con una costruzione di fabula intensa e ricca, fatta di contemporaneità e ricordi del passato, Francesco Garreffa ci conduce in una sequenza di belle pagine, ambientando sapientemente la storia in contesti paralleli inaspettati e mai scontati.
È sempre importante giungere alla verità, ma a volte potrebbe non essere necessario rivelarla: lo spirito elabora e si appaga della voglia di conoscenza, al di là di tutto.
LanguageItaliano
Release dateFeb 20, 2019
ISBN9788868227708
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    La lettera di don Josè - Francesco Garreffa

    FRANCESCO GARREFFA

    La lettera di don José

    Questo romanzo è frutto della fantasia, anche se sono citati personaggi celebri o esistenti e nomi simili a quelli d’individui viventi o vissuti; pertanto, ogni riferimento a fatti e persone, è da ritenersi puramente casuale.

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore – Cosenza – Italy

    Stampato in Italia nel mese di febbraio 2019 per conto di Pellegrini Editore

    Via Camposano, 41 (ex via De Rada) – 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 – Fax (0984) 792672

    Sito internet: www. pellegrinieditore. com – www. pellegrinilibri. it

    E-mail: info@pellegrinieditore. it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    La conclusione di tutte le nostre ricerche

    sarà di arrivare dove eravamo partiti

    e di conoscere il posto per la prima volta.

    Thomas Stearns Eliot

    La lettera di don José

    Stamattina, ai due ragazzi rumeni che sono venuti a prendersi la vecchia poltrona amaranto, ho avuto voglia di chiedere «Sapete quante volte Giulio Bosetti si è seduto lì sopra?», come dissi ad Ademaro Tenuti, la prima volta che venne a trovarmi, tutto intento a guardarsi in giro e, ne sono sicuro, a meravigliarsi del disordine e delle decine di giornali vecchi sparsi in questa stanza che chiamo lo studio.

    Non ho il coraggio di buttarli, perché in ognuno c’è qualcosa che mi propongo di leggere con calma – non lo faccio mai –, e allora le copie si accumulano fino a quando trovare un posacenere diventa una caccia al tesoro.

    Non ho detto niente ai ragazzi. Avrebbero pensato Che va dicendo questo rimbambito?, e poi a loro sarebbe importato assai poco delle mie parole; hanno già tanto da fare e da ingegnarsi per stare in vita in questa città.

    Ademaro Tenuti, il pomeriggio di giugno che venne qua, tutto bagnato per un temporale d’inizio estate che lo aveva sorpreso nelle poche decine di metri che ci sono dalla metropolitana di Piazzale Flaminio, ebbe quasi un sobbalzo e si chiuse un bottone della camicia inzuppata di pioggia, come se dovesse essere ricevuto da una qualche autorità.

    Era il tempo in cui stavo prendendo coscienza della mia condizione di vedovo senza figli e dissi ad Ademaro che mia moglie lavorava per la Rai, alla produzione degli sceneggiati le fiction come si chiamano adesso e molti attori venivano a parlare con lei e tutti si sedevano sulla poltrona amaranto che oggi ho dato via e dove hai fatto in tempo a sederti anche tu.

    Appena si accomodò, gli chiesi se voleva una birra bella fredda. La danese che avevo era davvero molto speciale, ma si affrettò a farmi sapere che da un po’ di tempo a questa parte l’alcool gli scatenava, disse proprio così, dei forti attacchi di cefalea a grappolo, e che sarebbe stato meglio di no.

    «La cefalea a grappolo colpisce coloro che pensano troppo!» cercai di rassicurarlo. La pensavo davvero così. Nei miei lunghi anni di neurologo non avevo mai dato molta importanza a questa malattia. Poi, quando ho iniziato a fare lo psicoterapeuta, lo strizzacervelli, gliene ho dato ancora meno. Già il fatto che il dolore si presenta a orari fissi, per me, è stata sempre la prova che la persona, dopo aver passato ore e ore a rivedere nella mente pensieri cattivi, a pensare di tutto, fa sì che la testa sia costretta a prendersi un bel dolore da parto.

    All’epoca Ademaro era ancora un ricercatore presso la Facoltà di Sociologia, uno di quelli che consideravo sognatori, che avevano una risposta a tutto, sempre alla ricerca di qualcosa, di una verità. Io avevo invece scorso in lui i segni inconfondibili di un livido sull’anima: quelle malattie che non vogliono mai andare via.

    Non avrei mai immaginato che sarebbe venuto a trovarmi solo tre giorni dopo esserci conosciuti, ma la cosa mi fece piacere; mi era simpatico e, appena conosciuto, mi ero scoperto a dargli subito del tu, forse perché appartengo a una generazione che a quelli molto più giovani si rivolge così o forse perché ero incuriosito: stringendomi la mano, aveva detto che mi conosceva di fama ed era ansioso di incontrarmi. È stata forse questa la ragione; ecco un altro modo in cui era fatto Ademaro: ansioso!

    C’eravamo conosciuti al Palazzo delle Esposizioni, una sera che con alcuni miei amici ero andato a vedere Complotto di famiglia, in una rassegna organizzata per far rivedere i film di Hitchcock su uno schermo da cinematografo. Io li avevo visti quasi tutti al cinema nel momento in cui erano stati immessi nel nostro circuito. Forse il primo l’ho visto quando ero liceale, subito dopo la guerra, non ricordo più se era Notorius o un altro.

    Quando uno dei miei amici mi presentò Ademaro non capii bene il suo nome, ma mi colpì il leggero velo di tristezza sul suo viso.

    Mi fece venire in mente una vicina di casa di quando ero ragazzo, non ricordo più se si chiamava Santina o Sarina. Era una persona che, quando incontrava mio padre, gli rivolgeva mille domande sulla Russia, sui comunisti, su come fare per prendere un apparecchio, come chiamava gli aerei, e andare da quei comunisti là a ritrovare il figlio che si era perso durante la guerra.

    Alla fine del film qualcuno propose di andare in pizzeria. Era da qualche tempo che non ci andavo. Forse l’ultima volta era stato con mia moglie. La verità è che mi ero stancato di mangiare la pizza. Da molti anni, fin dai tempi giovanili, non era passata settimana che non ci fossi andato, poi una sera, una pizza mangiata dalle parti di Piazza Cola di Rienzo, mi fece passare una notte di dolori addominali; inoltre non avevo molta voglia di carboidrati. A mezzogiorno mi ero ingozzato di bucatini all’amatriciana in compagnia di una vecchia amica, una di cui avevo seguito il figlio schizofrenico e che ora, povero ragazzo, passava le sue giornate in silenzio su una panchina del parchetto di una comunità dove io stesso lo avevo mandato.

    Dissi che preferivo tornarmene a casa. Ero stanco. Salutai tutti e mi avviai lungo via Nazionale, per andare a prendere la macchina.

    «Posso accompagnarla, professore?» mi chiese Ademaro. Senza attendere risposta mi raggiunse e insieme cominciammo a risalire la strada. Arrivammo a Piazza Esedra, nel cui piccolo parcheggio avevo lasciato l’auto, sotto alcuni pioppi bassi a ricoprirsi di escrementi di storni, e parlammo del film.

    «A me ha colpito molto la vecchia che vuole ritrovare il nipote» disse «Mi ha ricordato Ladri di biciclette; cos’è, in fondo, se non la storia di uno che deve ritrovare a ogni costo qualcosa, la sua bicicletta?»

    Ero d’accordo con lui. Anch’io, di mestiere, aiutavo tante persone (e lo faccio ancora a questa età) a ritrovare qualcosa: se stessi. Notai le unghie delle mani mangiucchiate e gli feci, senza volerlo, la prima diagnosi dell’ansia.

    Mi parlò del suo lavoro, tradendo un accento che conoscevo bene, perché mio fratello aveva trascorso alcuni anni nella sua regione. Aveva lì trovato moglie, tanto che pure io, vi trascorrevo le vacanze estive. Ricordo che, nei primi giorni del mio rientro a casa mi capitava, per esempio, di ringraziare il giornalaio con un’espressione diffusa da quelle parti: «Gentilissimo!», dicevo.

    Notai anche un piccolo accenno di balbuzie. Gli rivolsi le solite domande che si fanno a chi viene da fuori: da quant’è che sei qui, dove abiti.

    «Sposato?» gli chiesi anche. Mi rispose con una vecchia proverbiale battuta di Alberto Sordi che conoscevo benissimo:

    «E non posso certo mettermi un’estranea in casa!»

    Ademaro mi disse anche, sempre a proposito del suo lavoro, che tempo prima gli era andato male un concorso per professore associato; ma non si lasciò andare ai piagnistei che fanno tutti, sulle raccomandazioni, sulla lottizzazione politica dell’Università e su tutte le banalità che si sparano per giustificare gli insuccessi.

    «Mi basta guadagnare uno stipendio ogni mese, per la carriera c’è tempo!»

    In quel periodo, mi raccontò, era impegnato con gli esami, ma durante l’anno aveva tenuto un seminario su José Ortega y Gasset, che era uno degli autori che stava approfondendo e su cui progettava di scrivere un libro sul pensiero politico.

    «Lo sa che don José, come lo chiamavano i suoi contemporanei, già nel 1914, per la sua Spagna, aveva auspicato la creazione di un servizio sanitario nazionale?», mi disse. «Per lui la salute di un uomo era un vero e proprio attrezzo di lavoro», aggiunse. «Lo sa perché volevo conoscerla?» mi chiese ancora.

    «Ora sì!» risposi. «Nella casa che ora è mia, ha abitato per qualche anno Maria Zambrano con la sorella Aracoeli» aggiunsi.

    Ademaro confermò. Perciò voleva conoscermi, e lo invitai a venire a trovarmi per vedere la casa; gli diedi il numero di telefono e tre giorni dopo venne qui, senza che potessi immaginare che lo stavo aiutando a rivoltare la sua vita.

    * * *

    Questa casa l’ho acquistata alla fine degli anni Sessanta, poco prima del mio matrimonio, tardivo per uno della mia generazione. Ricordo ancora che caddi nella trappola tesami da quel po’ di superstizione che mi portavo dietro dalla mia origine meridionale; a tutti quelli che mi chiedevano della casa o mi facevano gli auguri, dicevo subito che era stata un’occasione, così, per tenere lontana l’invidia, come si faceva nel mondo rurale di una volta, senza pensare mai che spesso le persone con cui parlavo della casa nuova fossero straricche e non avevano niente da invidiare. Il proprietario precedente, un vecchio docente della Facoltà di Filosofia che era amico di mio padre, la mattina che mi accompagnò a vedere l’appartamento, mentre girava la chiave mi disse, con grande orgoglio, che qualche anno prima l’aveva dato in affitto a Maria Zambrano e alla sorella. Dovette leggere sulla mia faccia che non la conoscevo, tanto che subito si affrettò a dire:

    «La grande filosofa spagnola! L’allieva prediletta di Ortega y Gasset, uno dei più grandi filosofi del nostro secolo! È stata per più di dieci anni da noi in esilio per via del franchismo!»

    Feci un cenno di assenso molto svogliato, ma poi volli documentarmi su Ortega y Gasset, anzi mia moglie, allora era ancora la mia fidanzata, ne sapeva molto di questo filosofo e qualche mese dopo, incontrando il vecchio padrone di casa, feci di tutto per portare il discorso su Ortega, per cercare di rimediare alla figura che avevo fatto la volta che ero andato a vedere la casa.

    «E ti dirò di più. Nei primissimi anni Trenta, per qualche mese, nella tua casa ha soggiornato anche Robert Musil, e proprio lì ha scritto buona parte de L’uomo senza qualità. Ti ho venduto una casa importante, ragazzo!»

    Quel ragazzo se lo poteva risparmiare, davanti alla mia fidanzata, anche perché avevo già compiuto quarant’anni.

    All’epoca ero felice e vi ho vissuto con felicità, insieme a mia moglie, per quasi ventisei anni. Stamattina ho dato via l’unica cosa che restava dal primo giorno di un quarto di secolo d’amore, quella poltrona color amaranto che, mentre i ragazzi portavano via, mi ha fatto tornare in mente Ademaro Tenuti. È stato l’unico ricordo, anche se la poltrona, se avesse potuto parlare, mi avrebbe richiamato alla mente chissà quante cose.

    A dire il vero, tre giorni dopo la serata di cinema, tutto intento a pensare alle mie cose, avevo dimenticato Ademaro. Pensai a lui quando mi telefonò per chiedermi se poteva passare da casa a vedere dove aveva abitato Maria Zambrano perché, disse, gli stessi ambienti dove erano state le persone che ammirava gliele facevano sentire vicine.

    «Ti piace il pallone?» gli chiesi. Rispose di sì e allora gli dissi che avremmo visto insieme la partita del tardo pomeriggio. Veder giocare le squadre di due nazioni che fino a poco prima se le erano date di santa ragione, nella guerra più inutile di sempre, ne valeva la pena. Non immaginavo che quella sera avremmo assistito anche alla beffa calcistica più famosa della storia: Maradona si prende gioco di tutti con un gol che, videro benissimo, era fatto con la mano e, poco dopo, da spettatori gustare quello che gli intenditori, e non solo, hanno sempre considerato il gol più bello mai visto.

    Mentre gli facevo strada fino a questa stanza, invitandolo ad accomodarsi sulla poltrona amaranto, gli dissi che gli avrei dato un asciugamano, giacché l’acquazzone se l’era preso tutto e dal bagno gli gridai:

    «Qui ha anche abitato Musil!» Non aveva capito e glielo ripetei.

    «Questa casa dovrebbe essere visitata dalle scolaresche!» affermò.

    La nostra attenzione fu per la partita e a un certo punto gli dissi che, terminata, gli avrei fatto vedere la casa, la mia stanza da letto dove avevano dormito Maria Zambrano e la sorella e anche la stanzetta vicino alla porta d’ingresso dove la filosofa scriveva e Musil aveva creato tante pagine del suo grande romanzo.

    «Farei volentieri delle foto, ma non ho la macchina!» disse.

    Mentre guardavamo concentrati il tiro di un calcio d’angolo della partita o una punizione, non ricordo, Ademaro mi si rivolse perentorio e senza guardarmi:

    «Se vi dicessi che non ho mai avuto una donna?»

    Mi meravigliai più del fatto che mi aveva dato del voi, questa volta, e non per la domanda in sé. Mi fece ricordare il mio professore di Fisiologia, che forse era delle sue parti, il quale una volta si rivolse a un suo conterraneo proponendogli di

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