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Il mistero di Virginia Hayley
Il mistero di Virginia Hayley
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Il mistero di Virginia Hayley

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About this ebook

Londra. Autunno 1892.
Una serie di efferati delitti a sfondo rituale sconvolge la città e l’opinione pubblica.
Un investigatore oppiomane, un’elegante dama straniera, un americano dai modi spicci e un vecchio cacciatore aristocratico si ritrovano a indagare sull’omicidio della giovane Virginia Hayley, che Scotland Yard cerca pervicacemente di nascondere.

In una corsa contro il tempo, tra bassifondi degradati, sontuose sale da ballo e magioni infestate da antiche presenze, i quattro riluttanti compagni si ritroveranno invischiati loro malgrado in un inquietante complotto interno all’Impero Britannico, cercando al contempo di scongiurare il Crepuscolo di Ra e l’avvento del caos.

Qualunque organo governativo rappresentiate realmente, di qualunque società segreta o circolo facciate parte, dimenticate gli accadimenti connessi a Virginia Hayley. Inseguirli, e badate che questa non è una minaccia, vi distruggerà.
Il mondo, dicono, è un luogo oscuro e crudele. Credetemi, non volete sapere quanto in realtà sia ancora più oscuro e crudele.

 
LanguageItaliano
PublisherNPS Edizioni
Release dateMar 1, 2019
ISBN9788831910125
Il mistero di Virginia Hayley

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    Il mistero di Virginia Hayley - Alessio Filisdeo

    casuale.

    PROLOGO

    Dal detective Allan DeWitt, dell’Agenzia Investigativa Pinkerton, all’ispettore capo Theakstone di Scotland Yard.

    Londra, 28 settembre 1892

    Signore,

    con la presente, notifico la conclusione della mia indagine svolta per vostro conto. Troverete allegato alla missiva un nutrito rapporto che sono certo reputerete più che esauriente.

    Mi sono dato pena, e tengo a precisare che l’iniziativa è stata del tutto autonoma, di informare della nostra collaborazione gli individui coinvolti loro malgrado in tale faccenda. Il perché è presto detto: sarò anche un americano, ma non sono uno stupido come credete voi altri.

    Nell’ultimo mese ho assistito ad accadimenti a cui, Iddio mi sia testimone, nessun essere umano dovrebbe mai anelare a diventare spettatore. Miracoli, orrori oltre ogni immaginazione, tradimenti, cospirazioni. Ed è solo la punta della piramide, di quell’infido e sdrucciolevole mausoleo che voi chiamate Londra, e che nondimeno ha messo a dura prova i miei istinti, la mia sanità mentale e la mia stessa vita. Ma che non si venga a dire che la Pinkerton assume dei codardi, o degli spergiuri!

    Ciò che leggerete è il vero, arrangiato da me medesimo dopo aver raccolto, direttamente o indirettamente, le testimonianze di coloro che hanno svolto un ruolo di primaria importanza nel mistero di Virginia Hayley.

    Figure comuni di un mondo ordinario, non troppo diverse da ciò che io stesso ero prima che voi richiedeste i miei servigi, potrebbero liquidare il racconto che seguirà come il vaneggiamento di un folle. Voi no, signore, ne sono assolutamente convinto. E dato che nel momento stesso in cui questa lettera vi sarà affidata, io mi troverò già mille miglia lontano dalla vostra città e, spero, dal vostro continente, parlerò con estrema schiettezza: riguardo che, alla luce dell’accaduto, non meritereste.

    Sono stato ingannato, usato nell’accezione più spregevole del termine, adoperato alla stregua di un criminale da strada, di un mastino sciolto. Ebbene vi sorprenderà sapere che la mia notevole massa muscolare non pregiudica affatto le mie capacità deduttive.

    Il rapporto che stringete tra le mani è, per quanto possibile, un atto di buona volontà da parte mia. Sono mosso non solo dall’interesse, ma dalla reale speranza che ciò che andrete a leggere riconduca voi e gli uomini tali a voi alla ragione.

    Qualunque organo governativo rappresentiate realmente, di qualunque società segreta o circolo facciate parte, dimenticate gli accadimenti connessi a Virginia Hayley. Inseguirli, e badate che questa non è una minaccia, vi distruggerà.

    Il mondo, dicono, è un luogo oscuro e crudele. Credetemi, non volete sapere quanto in realtà sia ancora più oscuro e crudele.

    Allan DeWitt

    CAPITOLO I

    VIRGINIA HAYLEY

    Whitechapel: la tomba della rettitudine, il simbolo stesso della depravazione e della corruzione di Londra, patria di puttane, tagliagole ed ebrei.

    Se quella notte fosse stata simile alle altre, per i suoi sudici vicoli vi si sarebbe potuta ammirare la più rivoltante assemblea di scarti sociali. Bestie, non uomini. Animali consumati dalla febbre della lussuria, dall’ebrezza dell’alcol, desiderosi di dimenticare pure per un solo attimo quella miserabile vita fatta di stenti e di violenza.

    Ma quella non era una notte come le altre, e laddove il vizio nella sua forma più abietta avrebbe dimorato sovrano, esso aveva altresì lasciato spazio ad altro: morte.

    Alla macabra scoperta del corpo senza vita di una giovane donna, i fischietti della ronda notturna riecheggiarono senza sosta, accompagnati dal clangore sordo dei manganelli.

    Prima due gendarmi, poi quattro, sei, e infine un’intera pattuglia della Polizia Metropolitana accorse, seguita di gran carriera dall’immancabile frotta di curiosi.

    Oso dire senza riserve che gli accadimenti dell’anno 1888 erano ancora ben radicati nelle memorie degli inglesi, dunque non sorprenderà il terrore, e la rabbia, che tanto la folla quanto gli ufficiali investigativi esternarono alla vista dello scempio.

    «Jack è tornato!» si alzò un grido, un’unica esclamazione che prima generò un silenzio assordante, e poi un coro di ingiurie, bestemmie e recriminazioni, ora contro l’incapacità delle forze dell’ordine, ora contro i peccati della società moderna.

    Fu ordinato un cordone di contenimento mentre tutt’attorno le luci al di là delle finestre opache presero a brillare.

    I palazzoni si ridestarono. I volti paonazzi e frastornati dei loro abitanti nuovamente sconvolti dall’efferato operato dello Squartatore, più sensazionale che mai.

    Immagino, a quel punto, che nella parte borghese della città furono suonati campanelli, bussati portoni e chieste udienze. Nel giro di appena mezz’ora, l’East End fu percorso da carrozze, gentiluomini ben vestiti del governo e giornalisti più agguerriti di quei selvaggi indiani d’America.

    «Buon Dio…» esordì il sergente Godfrey avvicinandosi al cadavere, deglutendo a fatica una consistente dose di bile. «Testimoni?» domandò al cereo agente alle sue spalle.

    «Fin troppi, signore».

    «Intendevo testimoni diretti dell’omicidio».

    «Nossignore».

    Il sergente Godfrey sbuffò, passandosi una mano sul viso sbarbato di fretta, cercando per quanto possibile di evitare ancora per qualche secondo la mattanza cui si trovava di fronte.

    «Qualcosa non va, signore?»

    «Sei un idiota o cosa? Sparisci dalla mia vista, e corri a prendere un lenzuolo per coprire questa… cosa».

    «Subito, signore».

    Non era quello il modo di cominciare una giornata di onesto lavoro, pensò il sergente Godfrey tergendosi con un fazzoletto il sudore gelido sulla fronte. Poi, finalmente, abbracciò con lo sguardo la vittima.

    La prima cosa che incontrarono i suoi occhi, stanchi e rassegnati, furono quelli di lei, vitrei e spenti, spalancati.

    Una giovane donna di venticinque anni, forse meno: carnagione lattea, lineamenti fini e capelli scuri. La gola, squarciata da un orecchio all’altro con più forza del necessario, faceva pensare a una decapitazione prim’ancora che a uno sgozzamento. Se non fosse stato per un lembo di carne dietro la nuca, la testa sarebbe apparsa completamente recisa.

    Era chiaro dall’oscena quantità di sangue, un sangue denso, nero come la pece sotto l’insana luce dei lampioni a gas, che la vittima era stata assassinata sul luogo: esso era dappertutto, dilagante, simile per dimensione e forma a un pantano circolare, capace di inghiottire non solo buona parte del corpo, ma pure la sconnessa pavimentazione sottostante.

    Il peggio, tuttavia, doveva ancora palesarsi.

    Il corsetto strappato si apriva sul petto nudo della donna. Il seno destro, immobile, nulla aveva a che fare col cratere di viscere in vece del sinistro. Qualcosa, a giudicare dalla profondità della lacerazione, era stato asportato. Un organo.

    «Cosa sono quei segni?» mormorò il sergente Godfrey, estraendo nuovamente il fazzoletto dal taschino e spostando appena di qualche pollice gli avambracci della vittima. «Sembrano quasi…»

    «Morsi, signore» soggiunse l’agente di prima reggendo il lenzuolo bianco. «Forse dei cani randagi in zona».

    «Cristo…» bofonchiò allontanandosi. Attirato all’ultimo secondo da un bagliore, raccolse cautamente col fazzoletto una moneta.

    «Il pagamento per i suoi servizi».

    «Una corona d’oro per una puttana di Whitechapel? Se è questo il meglio delle tue supposizioni, figliolo, capisco il perché del tuo tedioso rango» lo allontanò il sergente con un gesto della mano, notando qualcos’altro con la coda dell’occhio.

    V’erano lacerazioni assai curiose sotto il tessuto inamidato che a stento celava il ventre della giovane, incisioni che egli non fece in tempo ad approfondire che dovette scattare in piedi, messo sull’attenti dal sopraggiungere di un uomo particolarmente imperioso. «Signore?»

    «Sergente Godfrey» esordì il vegliardo vagando con occhi inquisitori dalla scena del crimine al suo sottoposto. «Approntate il tutto per il trasferimento alle cure del medico legale e ripulite la zona».

    «Ma signore, non ho ancora finito di esaminare le prove. Potrebbero esserci altri…»

    «È un ordine, sergente Godfrey. Non diamo a questo circo più risonanza di quanta ne meriti. Registrate ciò che avete raccolto sinora e richiamate in servizio l’ispettore Wincott. È reintegrato con effetto immediato. Affido il caso alle sue competenze».

    «Con tutto il rispetto, signore, Wincott non è in grado di…» Il sergente Godfrey si morse la lingua, fulminato dall’espressione arida del gentiluomo. «Andrò a informarlo personalmente».

    «Con discrezione, vi pregherei».

    «Certamente, signore».

    Ciò detto, con la medesima espressione seccata e ostile d’insieme, l’anziano figuro prese congedo svanendo in una calca di agenti governativi, ben distinguibili grazie ai loro completi signorili da trenta sterline.

    Il sergente Godfrey l’osservò allontanarsi prima di sputare in terra e trasmettere gli ordini. «Avete sentito Sir Haversham! Datevi una mossa!» Rivolgendosi all’agente che non molto tempo prima aveva scoperto il cadavere, chiese: «Si sa qualcosa sull’identità della sgualdrina?»

    «Il suo nome era Virginia Hayley» soggiunse una voce alle spalle dei due. «E non era una sgualdrina».

    A parlare era stata una donna, una donna aristocratica dalla punta degli stivaletti di vernice sino alla veletta del copricapo che le celava il viso. Nel bel mezzo dell’East End, una figura del genere spiccava non meno di un cigno al centro di una palude.

    «Conoscevate la vittima? Chi siete?»

    Gli interrogativi del sergente Godfrey non trovarono mai risposta. Il lampo di un apparecchio fotografico immortalò la scena del crimine con sciagurato tempismo, accecando i presenti per un battito di ciglia.

    Quando le tenebre tornarono ad assumere la propria consistenza, la nobildonna era svanita, volatilizzata nel nulla, proprio come uno spettro.

    CAPITOLO II

    L’OMBRA DANZANTE

    Il nuovo, efferato delitto commesso a Whitechapel continuava a far parlare di sé, mentre chi ne discuteva provava al contempo profondo orrore e morbosa curiosità.

    L’omicidio, più di qualunque disgrazia, infervorava l’animo cristiano dell’alta società inglese, ispirando quell’artificiosa pietà a cui il buongusto, se non la morale, era tenuto a sottostare, almeno in pubblico.

    Così, da morta, Virginia Hayley, la povera sventurata prematuramente passata a miglior vita, godeva ora della notorietà e della macabra attrattiva che Iddio le aveva negato da viva.

    Ironicamente, e crudelmente, dato il contesto, l’ombra della defunta era calata su una seconda creatura, una che avrebbe avuto tutti i motivi dei suoi ridenti diciassette anni per scansare la tragedia, quella tragedia che non poteva essere più lontana dalla sua realtà quotidiana e, a dirla tutta, pure dal suo interesse.

    Nondimeno, nonostante le più che legittime pretese di Miss Knightley, quello che avrebbe dovuto essere il suo sfolgorante debutto nel bel mondo s’era lestamente trasformato in una noiosa, verbosa e inappropriata celebrazione della sfortunata giovane trapassata.

    Calici di champagne, buffet imbanditi, pianoforti per gli ospiti, la stessa orchestra da camera: nulla era servito allo scopo, al solo e unico di quell’evento attentamente pianificato per mesi e fantasiosamente immaginato, e idealizzato, per anni.

    Quale profonda ingiustizia, ebbe a rimuginare Miss Knightley con una punta di livore, che quella donnaccia fosse morta proprio in concomitanza col suo gran ballo! Quanto poteva essere spietato il destino quando lo desiderava!

    E pensare che era tutto così perfetto: la musica, le danze, i marmi abbacinanti, gli stucchi intinti nell’oro, il frusciare degli abiti, il tintinnio dell’argenteria. L’immenso salone illuminato a giorno quasi minacciava d’implodere tanta era la folla.

    Decine, centinaia di gentiluomini coi loro baffi curati, i farfallini appuntati e le lunghe code di rondine. Ad accompagnarli, le dame più incantevoli, coi gioielli più splendenti e le risate più cristalline.

    Quale amabile conversazione ne sarebbe nata, quale ammirazione, se non amicizia, se solo tutti loro si fossero degnati pure per un solo attimo di non discorrere di quella maledetta Virginia Hayley!

    Miss Knightley, nemmeno fosse l’ultima delle serve, o peggio ancora delle distrazioni, doveva invece elemosinare quel poco di attenzione che le circostanze erano disposte a concederle.

    Ben presto l’inadeguatezza la colse, il senso di amaro fallimento la soverchiò rafforzando l’iniquo rammarico per la sorte di una serata che non avrebbe mai più avuto a ripetersi, una serata che avrebbe dovuto essere la più lieta della sua gioventù, e che invece era divenuta un memoriale in onore di una sconosciuta.

    «In tali occasioni, tutto ci pare sbagliato. Noi stesse, le nostre idee, il nostro apparire, i nostri desideri. Ciò che avevamo giudicato nobile a una prima occhiata appassisce nella superficialità a una seconda. Ciò che avevamo reputato brillante si rivela opaco, e ciò che ci aveva colpito nella sua favolosa concezione si dimostra null’altro che un’illusione dei nostri sensi.

    Le note riecheggiano sgraziate. Il ciarlare convulso serpeggia guastando l’umore. La triviale condiscendenza del sesso opposto insulta apertamente quel briciolo di amor proprio che la società, coi suoi ipocriti insegnamenti, ancora non è riuscita a estirparci. Così, questa cupola che sino a non molto tempo fa ci era sembrata dorata e idilliaca, si rivela finalmente ai nostri occhi per quello che realmente è».

    Col fiato sospeso, Miss Knightley, esiliatasi in disparte ai margini della sfavillante scalinata che l’aveva introdotta alla platea appena poche ore prima, udì tali parole. Completamente conquistata da quel dire, amaro ma non meno veritiero, ella si riscoprì a contemplare la fonte di tanta saggezza con una venerazione che mai le era capitata.

    «E cosa…» esitò per un momento, premurandosi che nessun altro fosse a portata di orecchio, e che fosse davvero lei la prescelta a custodire segreti di tale portata. «Cosa questa cupola dorata realmente è?»

    La donna senza nome, sino ad allora con lo sguardo fisso, perduto sull’assemblea innanzi a sé, finalmente si volse a lei, e sorridendole appena, con costernata gravità, rispose.

    «Un delirante spettacolo di marionette, i cui fili invisibili sono mossi dal conformismo e dalla doppiezza, poiché la menzogna è la più sopportabile, e confortevole, delle realtà». E con la stessa dissacrante eloquenza dimostrata sino ad allora, aggiunse: «Congratulazioni per il vostro debutto in società, Miss Knightley. Il mio nome è Laura».

    La nobile fanciulla rimase per quanto possibile ancor più folgorata dalla singolare interlocutrice, così profondamente suggestionata dalla cadenza della sua voce armoniosa e malinconica che ebbe bisogno di alcuni istanti per recuperare la lucidità, e la parola.

    E pure allora non riuscì a pronunciare una sillaba, come se tutti i suoi pensieri avessero già trovato forma grazie alla lingua, e alle labbra, della donna, e in maniera assai più compiuta di quanto lei stessa avrebbe potuto sperare.

    Pareva quasi che le avesse letto la mente.

    In breve, la simpatia fu immediata.

    Laura: la salvatrice giunta nel momento di massimo sconforto. Apparsa dal nulla per grazia divina. Stranamente non possedeva un accompagnatore. Al contrario, reggeva tra le dita affusolate un cannello di argento smaltato, tirando di tanto in tanto dalla sigaretta una boccata di fumo.

    I poeti, se mai ve ne fossero stati, avrebbero definito la sua come una bellezza diafana, sì pallida e delicata da ispirare fragilità. Doveva possedere venti, forse venticinque anni, e in piena contraddizione all’incarnato virginale, il taffetà le aderiva indosso mettendo in risalto le slanciate forme di silfide, creando un contrasto da mozzare il fiato nei confronti della chioma: una cascata corvina raccolta dietro la nuca.

    Per quanto Miss Knightley si fosse sempre considerata una fanciulla piacente coi suoi setosi capelli biondo grano e quelle deliziose lentiggini sulle gote che

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