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Il valzer sull'orlo del pozzo
Il valzer sull'orlo del pozzo
Il valzer sull'orlo del pozzo
Ebook246 pages3 hours

Il valzer sull'orlo del pozzo

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About this ebook

Il libro è un romanzo di formazione, narrato tra il 1971 e il 1995. Il nome del protagonista è Cesare. La sua nascita coincide con quella di un pozzo all'interno del quale sono nascoste metaforicamente le sue paure, ma anche i sogni, le debolezze, le fragilità. Il pozzo che il protagonista chiamerà Merlino, non è altro che l'amico immaginario, il suo alter ego, l'anello di congiunzione tra il passato e il presente. La maturazione del protagonista è lenta, e neanche definitiva, la vita è un continuo libro work in progress dove i capitoli si scrivono giornalmente. Non troverà una certezza al suo domani ma saprà che potrà affrontarlo e che la vera forza è nel saper voltare pagina e guardare altrove. E provare a scrivere un altro capitolo.
LanguageItaliano
PublisherGAEditori
Release dateFeb 11, 2019
ISBN9788832514582
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    Book preview

    Il valzer sull'orlo del pozzo - Rosario de Meo

    Note

    Finalista al Premio Cumani Quasimodo 2018

    Intro

    Abbiamo ricevuto in eredità dall’Ottocento i grandi romanzi di formazione, nei quali il protagonista, attraverso una serie di tappe ed esperienze, giunge a una nuova consapevolezza di sé. Lo scontro con la civiltà, la società e le sue regole sono il terreno di una battaglia in cui si esce vincitori solo immergendosi nel fondo del proprio sé per emergere nuovi e maturi. Ma se questa maturità tarda ad arrivare, se questa ricerca di sé coincide col mito della propria infanzia, con la sensazione di magia e di felicità che il paese «mai scordato» ha impresso per sempre nel protagonista, allora il destino di Cesare, la voce narrante di questa storia, sarà una testarda volontà di rimanere bambino, o di tornare a quel pozzo del suo paese nel quale s’immergono e si nascondono i desideri più profondi di vita e di felicità, per ritrovarli sempre vivi, seppure in forme nuove segnate dal dolore. Lo scontro con la vita che il protagonista sembra affrontare senza armi, come in una perpetua impreparazione alla battaglia, produrrà la ferita del distacco, il bisogno continuo di una ricerca d’identità e di risposte che spingeranno Cesare fino all’estremo limite dell’esperienza umana, a quel confine labile tra sanità e follia in cui resta sospeso il suo taciuto grido: per quale via è possibile ritornare bambini? O ritrovare quel segreto perduto nel grande pozzo delle infinite possibilità che la vita sembra offrire nel suo momento sorgivo? Come far sgorgare per sempre l’acqua da quel pozzo? Come quell’acqua viva che la donna di Samaria, seduta al pozzo di Giacobbe, chiede al misterioso profeta di Nazareth di donarle: perché lei, che ha avuto «cinque mariti» e una vita con cui non ha saputo fare i conti, attinge un’acqua che appaga solo momentaneamente, e negli occhi di quell’uomo intravede la possibilità di un’altra acqua, un’acqua capace di estinguere la sete insoddisfatta dell’essere umano.

    Per Cesare questi profeti sono i suoi nonni, le figure dell’infanzia: ancora una volta, egli vorrebbe definirsi come colui che torna ostinatamente alla favola e a un sogno capaci di tracciare il cammino, di condurlo a un lieto fine, che coincida con la bellezza dell’inizio. Cesare imparerà la disillusione e il disgusto, ma non rinuncerà a questa sete. Imparerà – come direbbe Pasolini – di essere «pieno di una domanda a cui non sa rispondere». E che in questa vuota pienezza risiede la dignità del suo essere uomo, del viaggio che continuamente cambia orizzonte senza rinunciare alla speranza di un ritorno al proprio centro più vero.

    Giovanni Ricciardi

    A mia madre Dora, che con la mente vola verso mondi lontani, e a mio padre Vincenzo, che con un retino cerca disperatamente di riportarla indietro. In qualche modo, in questa vita, strampalati ballerini di valzer.

    Ma poi

    Chissà la gente che ne sa

    Chissà la gente che ne sa

    Dei suo pensieri sul

    cuscino che ne sa

    Della sua luna in fondo al pozzo,

    che ne sa

    dei suoi segreti e del suo mondo.

    ( Il ragazzo, 1973 - Francesco De Gregori)

    Prologo

    Piove inesorabilmente da giorni. Le strade allagate sono percorse da macchine con tergicristalli impazziti e gli autobus, con passeggeri schiacciati come sardine, sono incastrati nel traffico.

    Un cane abbandonato annusa la gente cercando il suo padrone, mentre un gruppo di bambini raccolti in cerchio, con ombrelli macchiati di figure disneyane, canta in coro: Piove! Piove! Acqua di limone! Si accende la candela e si dice buonasera!.

    Nella stanza accanto qualcuno sta ascoltando No More I Love You's di Annie Lennox. È uno dei tormentoni di questo 1995.

    Vedo la pioggia scendere dall’unica finestra presente in questa camera. Mi sembra di tornare indietro nel tempo, al racconto di mia nonna sul giorno in cui venni alla luce.

    Il grande diluvio , così nonna Ada lo chiamava.

    Quel giorno mia madre fu assistita dalla nonna e dalla femminella.

    1

    Nel 1971 molte donne partorivano ancora in casa, soprattutto in un paese piccolo come il mio, aiutate da una femminella che portava la sua esperienza acquisita tra vacche, scrofe e vicine di casa.

    Mio padre e mio nonno erano chiusi in cucina in attesa di quel pianto che rompesse il silenzio. In quegli anni non esistevano ancora ecografie o qualcosa che accertasse con un certo margine di sicurezza la salute del nascituro. L’ignoranza, le superstizioni, le dicerie popolari erano all’ordine del giorno. Le vecchie del paese ammonivano sempre le donne in attesa di un figlio con raccomandazioni e consigli:

    " Nn ti mett nescuna clln quando aspet a creatr, altrimenti alla nascita si strozz cu cordn umbellicl!" . [¹]

    " Nn magnà mai i fragl o u creatr nasc cu cor mallt!" . [²]

    " Nn mett u zocchr int o caffè o u creatr sarà mezzafemmn!" . [³]

    La maggiore preoccupazione di mio padre e di mio nonno era quella che nascessi storpio o comunque non sano. Negli ultimi anni nel paese c’erano stati alcuni casi di bambini malati. Il figlio di un nostro vicino di casa, un anno prima della mia nascita, aveva creato un certo stupore per i tratti somatici del viso simili a quelli delle popolazioni asiatiche orientali. In principio la femminella aveva sparso la voce che la partoriente, la signora Silvana, durante uno strano viaggio, aveva tradito il marito con un cinese. Erano in pochi a conoscere la sindrome di Down. Soprattutto in quegli anni e in quel paese sperduto nel sud. Quando qualcuno chiedeva notizie del figlio di Silvana, la risposta veniva sempre sussurrata: È mongolide!. Quella parola veniva immediatamente seguita dal segno della croce, come se quel gesto potesse cancellare la possibilità che un evento del genere potesse capitare alla propria famiglia.

    Ci fu anche il caso della famiglia Bramati la cui figlia nacque con una malformazione a un braccio. Quando si presentavano questi casi alcune femminelle suggerivano alle mamme di non dare da mangiare ai bambini. In questo modo non avrebbero avuto una vita di sofferenze. Come se la malformazione avesse già sedimentato nel loro futuro un alto grado d’infelicità. Chissà forse questo è capitato al figlio dei signori Vertillo, che morì pochi giorni dopo la nascita. Un bambino che nessuno ha mai visto.

    Ma nessuna femminella avrebbe mai convinto mia madre a lasciarmi morire di fame qualora non fossi nato perfetto.

    La nonna mi raccontava sempre che il mistero fu il protagonista di quel giorno e ogni volta aggiungeva sempre nuovi dettagli al suo racconto. Non ho mai capito se con il tempo riaffiorassero ricordi e, puntualmente, li aggiungesse alla storia della mia nascita o le piacesse abbellire una storia importante della sua vita: la nascita del suo unico nipote.

    La pioggia che scendeva greve e intensa aveva intimorito la gente del paese. Una tempesta così violenta non si era mai verificata, per questo quel giorno restò molto impresso nell’immaginario dei miei compaesani. Alcuni addirittura ipotizzavano improbabili teorie sulla fine del mondo. Parole che si sarebbero ripetute negli anni successivi, tutte le volte che nel cielo si presentavano nuvole gravide di pioggia.

    Il mio pianto invase la luce e annusai l’odore di quella casa impregnata di miseria, sudore e onestà. Mi acquietai solamente quando un asciugamano tiepido fu avvolto intorno al mio corpicino.

    La nonna per alcuni era matta, un personaggio eccentrico, uno sgorbio incompreso di Matisse dipinto su una tela di vita; per altri abitanti del paese, per la verità molto pochi, lei era una chiaroveggente. E tra quei pochi che lo sostenevano vi erano alcuni uomini che appagavano i loro sensi con una bottiglia di whisky piuttosto che con le loro mogli. Per me era solo mia nonna. Una nonna che non era in grado di dosare la giusta quantità di peperoncini nei funghi, che non aveva peli sulla lingua se doveva contraddire il prete del paese quando definiva peccato ciò che per lei era un piacere, una nonna capace di vestirsi in modo eccentrico sentendosi contemporaneamente un’educanda.

    Negli anni a venire ha continuato a raccontare la storia della mia nascita, sostenendo che il cielo e sua figlia partorirono insieme e non ebbe più dubbi su questo perché quando smisi di piangere, il temporale cessò. Chissà quanta fantasia e quanta realtà c’erano in quel racconto. Chissà se davvero il giorno della mia nascita nasconde un segreto.

    Non lo so. Posso solo dire che da piccolo adoravo sentire la nonna favoleggiare sul mio passato.

    Quando mio padre entrò in camera, io mi stavo nutrendo degli odori della mamma. Nel guardarmi proferì il mio nome: Cesare.

    Un nome così insolito e quasi improbabile per un piccolo paese del sud, dove la tradizione di chiamare i figli con i nomi dei nonni era considerato da molti l’undicesimo comandamento. I miei nonni paterni volevano chiamarmi Giuseppe, proprio come mio nonno.

    Così si trova stesso nome e stesso cognome mio e la famiglia viene tramandata di un’altra generazione. Diceva insistentemente nonno Giuseppe.

    I miei nonni materni volevano darmi il nome di Cesare. Perché era un nome che in paese non aveva nessuno e loro volevano un nipote originale. Della tradizione che i figli dovessero avere il nome dei nonni a loro non importava nulla o quasi.

    In fondo diceva il padre di mia madre alla fine non avrebbe mai il mio cognome.

    I miei genitori invece non avevano possibilità di scelta. Entrambi sapevano che decidere sarebbe stato duro, ma qualcuno doveva farlo. Tutti i miei nonni erano pronti a combattere contro tutto e tutti pur di vincere sulla battaglia del nome. Ci voleva un arbitro esterno, con un giudizio insindacabile e mia madre come arbitro scelse il fato. I due nomi furono scritti su dei bigliettini, e una settimana prima che partorisse, estrasse quello con cui mi avrebbero chiamato.

    Poco dopo la mia nascita mio padre e mio nonno materno andarono a festeggiare l’evento nel bar del paese. Nessuno dei due si era lasciato intimorire dai lampi e dai tuoni, da quella pioggia severa e scrosciante. Quando uscirono non si resero nemmeno conto di un piccolo cambiamento che era avvenuto a pochi metri da casa nostra. Se ne sarebbero accorti qualche giorno più tardi.

    Fin da piccolo la mia immaginazione mi portava a cancellare i confini della realtà, a deformare tutto ciò che non mi piaceva. Una peculiarità caratteriale che ho continuato a trascinarmi per anni. Vedevo negli sciami d’insetti microscopici alieni pronti a divorare il bucato, che mamma sciorinava nei giorni assolati; cercavo nei baccelli di fagioli denti d’oro da racimolare, per costruire una dentiera al nonno materno; nel mite zufolare del vento immaginavo un bambino zuzzurellone con un piccolo flauto che, nascosto in luoghi lontani, lasciava al vento stesso trasportare le note della sua melodia. Mi nascondevo in un mondo che era mio, dove nessuno possedeva la chiave per poterci entrare. Lì ero libero di fare tutto ciò che era proibito a un bambino.

    Anche il piccolo giardino che circondava casa ai miei occhi appariva un immenso prato, mentre in realtà non era altro che un fazzoletto di terra, con un orto, otto metri per otto, e un po’ di praticello che abbelliva, soprattutto in primavera, una casa dall’aspetto fatiscente. Fu acquistata in passato dal padre di mia madre, ma fu poi abbandonata per quarant’anni, fino al matrimonio dei miei genitori. Solo allora la casa cominciò lentamente a vivere dei passi pacati e silenziosi di mio padre; a saziarsi dell’odore di borotalco che mamma strofinava sotto le sue tette; ad annusare le perle di naftalina nascoste negli armadi e nei cassetti; ad udire il martellante tic-tac dell’orologio a pendolo fissato tra le crepe della parete nella camera da pranzo.

    Fuori invece c’era un pozzo scavato nel terreno di nostra proprietà, internamente murato, fornito alla superficie di un parapetto esterno, con un arco di pietre e una carrucola arrugginita che permetteva di tirare più agevolmente l’acqua, che allora non c’era più. Mi piaceva immaginare che quel pozzo fosse l’eredità di un’era passata, forse medievale, dove cavalieri e paladini con usberghi e spade duellavano all’ultimo sangue nel credo delle loro battaglie e si dissetavano con la sua acqua.

    Nonostante il costo elevato per poter permettere l’apertura di quel pozzo, mio padre aveva contattato alcune ditte allo scopo di poter provare ad attingere dal sottosuolo l’acqua proveniente dalla falda artesiana, ma i lavori non avevano mai fruttato nulla. Vicino al nostro paese vi era un piccolo fiume, forse era più corretto definirlo un rigagnolo per la modesta quantità di acqua che vi scorreva, e s’ipotizzava fosse quello l’anello mancante che avrebbe potuto dare vita al pozzo, come probabilmente aveva fatto in passato, quando qualcuno aveva deciso di costruirlo. La prima ditta non ci riuscì e così le successive. Le quattro ditte contattate per i lavori avevano trivellato nel sottosuolo, come se cercassero petrolio, con l’intento di trovare una vena d’acqua da portare in superficie, ma fallirono. Furono utilizzati macchinari considerati all’avanguardia per quegli anni, anche perché il pozzo era stato già scavato e questo rendeva il lavoro complesso. Avevano cercato di riattivarlo nel suo stesso ventre fatto di pietre. I tecnici avevano spiegato a mio padre che sarebbe stato più facile demolirlo, trivellare e cercare l’acqua ed eventualmente ricostruirlo, ma lui aveva una strana sensazione. Sentiva di non poter demolire quel pozzo. Tutte le ditte interpellate per i lavori confermarono che non vi era nessuna falda utile che potesse permettere la riattivazione del pozzo.

    Quel pozzo non funziona disse a mia madre non sono riusciti a trovare una soluzione.

    Successivamente decise di riempirlo di terra per chiuderlo definitivamente, ed evitare che qualcuno, spinto dalla curiosità, potesse caderci dentro ma un’inspiegabile sensazione gli impediva ogni movimento e rimandava di giorno in giorno il lavoro.

    Quel pozzo era lì da anni, era già presente quando fu costruita la casa e in un certo senso rappresentava l’anima di quel luogo. Non aveva nulla di diabolico, ma era lecito chiedersi, ogni volta che qualcuno vi passava accanto: Ma chi l’ha costruito?. Era circondato da fasci di ortica e da uno strano odore. Un odore che nessuno era in grado di associare a nulla. Qualcuno avrebbe potuto avanzare l’ipotesi che vicino a quel pozzo si annusasse un odore di niente , ma un odore comunque presente .

    Quando mio padre e mio nonno materno andarono a festeggiare al bar la mia nascita, non si resero conto che la vita aveva invaso il pozzo. L’ortica che lo circondava era scomparsa, come se il cielo invece di pioggia avesse pianto acido e al suo posto erano sbocciati piccoli fiori gialli a forma di campana.

    Il pozzo era pieno d’acqua e un nuovo indefinibile odore aleggiava nell’aria. Un odore di qualcosa , non più di niente , ma un odore comunque presente . Cosa fosse quel qualcosa nessuno è mai riuscito a capirlo.

    " Ada pigghi l’asciugmn pult ". [⁴]

    La femminella conosceva bene il suo lavoro. Aveva fatto nascere decine di bambini nel mio paese e altre decine in quelli vicini al nostro.

    " Pes quos tre chil. È verament nu bel pupone". [⁵]

    Queste sono le uniche parole che mia nonna non cambiava mai nel raccontare il giorno in cui venni alla luce. Lei fu l’unica a collegare la mia nascita a quella del pozzo, quel pozzo a cui io cinque anni più tardi diedi il nome di Merlino e che diventò il mio più grande amico.

    Quando in famiglia tutti scoprirono che nel pozzo c’era l’acqua, ci fu una certa perplessità. Mio padre in particolar modo era confuso da quello strano evento, non capiva come fosse stato possibile. Un temporale, per quanta acqua potesse portare, non poteva materialmente riempire quel pozzo. Per pura curiosità decise di ricontattare tutte le ditte che avevano effettuato i lavori per la sua riattivazione e che avevano fallito nel loro intento. Ci furono i dovuti sopralluoghi. I tecnici si ponevano le domande, le valutazioni, le considerazioni del caso, per poter poi dare una risposta su come fosse stato possibile tutto ciò, soprattutto nel constatare che il fiume aveva mantenuto invece lo stesso livello di acqua di sempre. Non ci fu nessuna risposta tecnica o logica da poter essere presa in considerazione. Mio nonno sorridente disse di prenderlo come un regalo del cielo. Tutti sorrisero, anche se il sorriso di mia nonna appariva sfiorato da alcuni pensieri oscuri, lei non lo considerava come un regalo del cielo, lei aveva visto il destino ordire una tela di ragno al mio domani, almeno così mi sembrava di leggere

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