Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Non ne sapevo niente - Serbia 1995, Danube Mission le rivelazioni di un Basco Blu: Serbia 1995, Danube Mission le rivelazioni di un Basco Blu
Non ne sapevo niente - Serbia 1995, Danube Mission le rivelazioni di un Basco Blu: Serbia 1995, Danube Mission le rivelazioni di un Basco Blu
Non ne sapevo niente - Serbia 1995, Danube Mission le rivelazioni di un Basco Blu: Serbia 1995, Danube Mission le rivelazioni di un Basco Blu
Ebook288 pages3 hours

Non ne sapevo niente - Serbia 1995, Danube Mission le rivelazioni di un Basco Blu: Serbia 1995, Danube Mission le rivelazioni di un Basco Blu

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Era il 1995. Con pusher e navi, sul Danubio si tentava ancora di violare l’embargo contro l’ex Jugoslavia in guerra. Gli unici controlli erano fatti dai Baschi Blu della UEO. Ed Ernesto Berretti era uno di loro. E, come racconta, non sapeva niente della guerra nei Balcani, al pari di altri suoi commilitoni. La base della Missione era a Calafat, a sudovest della Romania appena uscita dalla dittatura di Ceausescu. Lì si viveva a ritmi slabbrati come elastici di vecchie mutande. Se Calafat fosse stato un pugile, sarebbe stato stretto alle corde (il Danubio) dal suo avversario (i Rom); sarebbe finito al tappeto malamente; e l’arbitro (lo Stato) non avrebbe iniziato la conta. Solo i secondi al suo angolo (i soldati della Missione) avrebbero potuto salvarlo, gettando la spugna. Calafat era destinato a vivere una vita senza vittorie. Come Dana, Adrian, Florin, Agatha, Magda e Whiter: vite senza vittorie, le cui figure sono ben tratteggiate dalla penna dell’autore, che ben s’immerge, con grande forza e resa emotiva nella situazione del tempo, così anche raccontando la vita, il lavoro, i rischi dei soldati in missione all’estero, lontano da casa. Lo fa a tutti noi, che non ne sappiamo niente. 
LanguageItaliano
Release dateFeb 8, 2019
ISBN9788899932398
Non ne sapevo niente - Serbia 1995, Danube Mission le rivelazioni di un Basco Blu: Serbia 1995, Danube Mission le rivelazioni di un Basco Blu

Related to Non ne sapevo niente - Serbia 1995, Danube Mission le rivelazioni di un Basco Blu

Titles in the series (10)

View More

Related ebooks

General Fiction For You

View More

Related articles

Reviews for Non ne sapevo niente - Serbia 1995, Danube Mission le rivelazioni di un Basco Blu

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Non ne sapevo niente - Serbia 1995, Danube Mission le rivelazioni di un Basco Blu - Ernesto Berretti

    COLOPHON

    Tutti i diritti riservati

    Copyright ©2018 Oltre edizioni

    http://www.oltre.it

    ISBN 9788899932398

    Collana *edeia - letture del mondo

    Titolo originale dell’opera:

    Non ne sapevo niente

    Serbia 1995, Danube Mission le rivelazioni di un Basco Blu

    di Ernesto Berretti

    Ernesto Berretti

    Ernesto Berretti è nato a Catania nel 1968.

    Da maggio a dicembre del ’95 con la Guardia di Finanza è stato Basco blu nella UEO Danube Mission, a Calafat. L’operazione di polizia doganale fu istituita per favorire la pacificazione nei territori dell’ex Jugoslavia, con l’incessante controllo del traffico fluviale sul Danubio in attuazione dell’embargo disposto dall’ONU.

    Alcuni suoi racconti completano raccolte edite da case editrici, enti pubblici e associazioni culturali. Oggi vive e lavora a Civitavecchia e, per giocare sulla routine familiare ha pubblicato l’e-book Marie’, se stanotte russo….

    Questo è il suo primo romanzo.

    INDICE

    Autore

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    9

    10

    11

    12

    13

    14

    15

    16

    17

    18

    19

    20

    21

    22

    23

    24

    25

    26

    27

    28

    29

    30

    31

    32

    33

    34

    35

    36

    APPENDICE

    L’Unione Europea Occidentale (UEO)

    Operazione Weu Danube nel contesto del conflitto jugoslavo 1992/1996

    Determinazione N. 245 del 07/06/93 sull’approvazione del Memorandum d’intesa tra la Romania e l’Unione dell’Europa occidentale sull’assistenza nell’applicazione delle sanzioni sul Danubio, firmato a Roma il 20.05.1993

    Allegato 1 – Memorandum Of Intelligence tra la Romania e l’Unione Europea occidentale sull’assistenza nell’applicazione delle sanzioni sul Danubio

    Relazione della tavola rotonda di Copenaghen sulle sanzioni delle Nazioni Unite nel caso dell’ex Iugoslavia Copenaghen 24-25 giugno 1996, 24 settembre 1996

    Relazione della tavola rotonda di Copenaghen sulle sanzioni delle Nazioni Unite

    Postfazione

    Ringraziamenti

    1

    «Danube Mission. Mi serve un sì o un no. Ma subito, perché ho Roma sull’altro telefono. C’è da sostituire il prima possibile un radiotelegrafista che ha avuto un problema.»

    Già da tempo la guerra dei Balcani occupava le pagine degli esteri e se ci fosse stata una sola possibilità di dare un contributo alla risoluzione del conflitto, io ero pronto. La missione, per noi della Guardia di Finanza, iniziò nel giugno del ’93, quasi due anni prima. Quando ricevetti la chiamata ero pieno di ideali, lavoravo in una sala operativa e, a ventisette anni, avevo voglia di azione e di essere protagonista. Quello era proprio uno dei treni che avrei dovuto prendere al volo, perché magari non sarebbe passato una seconda volta. Non potevo lasciarmelo scappare: non volevo, più che altro. Volevo andare in Missione manco fosse un viaggio premio in una località turistica, ma sapevo che erano moltissime le segnalazioni in giro per l’Italia, perciò, di primo acchito, quella telefonata mi sembrava lo scherzo di qualche collega.

    Invece era il comandante in persona.

    Dalla mia iniziale incredulità al marziale passò appena il tempo di capire che era tutto vero e che il non farmi perdere tempo, per favore del capitano non dovevo interpretarlo come una frase di cortesia, ma come la possibilità di fargli fare bella figura davanti all’ufficiale del Comando Generale che lo aveva interpellato. Lui me ne sarebbe stato grato e io avrei soddisfatto il mio ego. Insomma, in quella situazione il no sarebbe stata la variante peggiore che mi avrebbe castrato per il resto della lunga carriera che avevo davanti. «E quando sarebbe la partenza?».

    «Te l’ho detto: il prima possibile. Prima del nono contingente. Ti mando le carte da far firmare a tua moglie. E domattina passa da me.»

    Non ci fu tempo di condividere la decisione con Rossella. Eravamo sposati da un paio d’anni, tutto era bello, anche dopo il trasferimento a Cagliari, distante per entrambi dalle nostre famiglie d’origine. Quando nacque il nostro primo figlio giocammo a fare i genitori, confortandoci e confrontandoci con le esperienze dei nostri amici con cui ben presto si crearono legami fortissimi.

    L’impegno per la missione in area balcanica prevedeva un periodo minimo di tre mesi. «Solo tre mesi. Neanche cento giorni», su questo giocai per convincere Rossella che, in un primo momento, prese la notizia della mia partenza come un sorteggio negativo agli ottavi della Champions: «Proprio a te dovevano chiamare?».

    «Tre mesi passano in fretta. Lo stipendio sarà maggiorato, ci darà una bella mano.»

    «E con lui? Come faccio da sola?» mi chiese indicando Stefano nella culla.

    «Vi porto dai tuoi genitori. Ma devo andare. Se dico di no adesso non mi capita più un’occasione del genere....»

    Mi sentivo una merda a pensare che il mio assenso era arrivato al Comando Generale già da almeno dieci ore. Inoltre, avendo un figlio minorenne, la firma del coniuge era indispensabile. Perciò feci leva sulla possibilità che durante quei mesi avrebbe potuto vivere a casa dei suoi. Soprattutto feci leva sul gruzzolo che a fine missione avremmo potuto dare come anticipo per l’acquisto di un appartamento tutto nostro. Capirai: come gran parte della nostra generazione avere un posto fisso e una casa di proprietà erano veri e propri status symbol, obiettivi da raggiungere; sogni da realizzare. Desideri da esprimere la notte di san Lorenzo. Comunque, non la tiro per le lunghe, ero pronto a fare leva su qualsiasi cosa, pur di andare. Intanto, quella notte facemmo l’amore – immagino – con lo stesso pathos dell’ultimo desiderio di un condannato a morte: già entravo nella parte dell’eroe chiamato per andare a risolvere la guerra nei Balcani. Già, ci mancavo solo io per completare lo schieramento dei Baschi Blu sul Danubio. Peccato che non fumavo, altrimenti alla fine ci stava tutta una sigaretta, con Rossella appoggiata sul mio petto e io che, abbracciandola, fissavo il lampadario, pensieroso. Tenebroso, anzi.

    Sta di fatto che la mattina seguente, sorseggiando il caffè, raccolsi l’incartamento necessario, firmato e pronto per essere consegnato per avviare le pratiche burocratiche.

    Da quel momento ogni giorno ero impegnato tra profilassi sanitaria, ufficio vestiario e servizi per il passaggio di consegne al mio sostituto; e anche con acquisti di papere di terracotta, tartarughe di legno e vestitini e sonagli per Stefano e ogni altra cosa potesse alleggerire il pensiero della partenza. Chi non lo avrebbe fatto al posto mio?

    Soprattutto ponevo molta cura per organizzare al meglio il loro spostamento, almeno per i prossimi tre mesi. «Siamo sicuri che sono solo tre mesi, vero?» diceva ogni tanto mia moglie quando non riuscivo a distrarla in altro modo. «Tre mesi. Non un giorno in più. La gente fa di tutto per rimanere, figurati… quando sapranno che non darò il consenso alla rafferma, sarò il migliore amico per tutti!».

    Sapevo che sarei stato uno dei 34 sottufficiali italiani alla base di Calafat, in Romania: nell’estrema periferia della Romania, a sud-ovest, nell’estrema periferia dell’Olteniţa – parte dell’antica Valacchia – del distretto di Dolj. Oltre, solo il Danubio: il confine con la Bulgaria e, pochi chilometri a nord, con la Serbia. La base di Calafat era una delle tre sedi che componevano il Nucleo UEO Danubio assieme a Mohàcs (in Ungheria) e Ruse (in Bulgaria).

    Le uniche cose che sapevo sulla missione le avevo letto sommariamente su Il Finanziere – l’house organ della Guardia di Finanza – e al mio reparto non si avevano notizie sull’attività da svolgere, così, per sapere qualcosa in più, parlavo con chi era già tornato da lì. Roberto più che un collega era, ed è ancora, un amico. Durante la pausa pranzo mi raccontava della sua esperienza.

    Partì col primo contingente, quello che dovette allestire la base dal nulla. Lui era uno degli addetti alla Control Area, la sala operativa della Danube Mission. Arrivò a Bucarest in aereo e assieme ad altri colleghi, raggiunse Costanza, sul delta del Danubio, per imbarcare sulle navi da crociera fluviale Olteniţa e Carpaţi: quelle sarebbero state la Base del contingente multinazionale a Calafat. Roberto mi raccontò di come fossero guardati con sospetto dagli equipaggi rumeni e di quando durante la navigazione calò il buio e Concetto, il radarmontatore, si accorse che il radar di bordo non funzionava. Di notte sarebbe stato impossibile navigare nel fiume senza strumentazioni idonee, sicché non senza difficoltà riuscì a individuare l’avaria: «Ci sono valvole e resistenze da sostituire», gli intenti erano buoni, ma quando gli fu risposto bruscamente che non potevano sprecarsi soldi per quelle cose, tutti si rassegnarono al peggio, sentendosi come bambini che avrebbero giocato a moscacieca fino all’alba. E come volevasi dimostrare, avvicinandosi troppo alla riva rimasero incagliati – lievemente grazie al cielo – due o tre volte. Dopo oltre ventiquattro ore dalla partenza da Costanza giunsero a destinazione. Pochi chilometri oltre la Base c’erano le Porte di Ferro, le gole tra Balcani e Carpazi che segnano il confine con la Serbia. La Carpaţi venne ormeggiata a terra e, a sua volta, fornì l’ormeggio all’Olteniţa: la Base del contingente dei Baschi Blu dell’UEO Enforcement c’era. Da quel momento si lavorò per allestire gli impianti radio e radar per la Control Area e il CSC, il Centro di Supporto e Comando cui facevano capo anche le sedi di Mohàcs e Ruse.

    La carovana dei militari addetti al parco auto e alla logistica si mosse da Roma, con gli automezzi che avrebbero assicurato i collegamenti e gli spostamenti sul territorio. Il viaggio del convoglio non fu il più breve perché, a causa del conflitto in corso, si dovette aggirare l’ex Iugoslavia, percorrendo l’Austria e attraversando l’Ungheria, prima di entrare in Romania.

    E gli equipaggi dei guardacoste: quello del Fidone partiva da Civitavecchia; l’altro, del De Alexandris, l’avrebbe atteso a Messina per intraprendere il viaggio fino a Bari. Quelle barche presentavano il comparto navale della Guardia di Finanza oltre i confini, per la prima volta, e da quel momento sarebbero state inseparabili fino al termine della missione, tre anni dopo. A Bari vennero imbracate e alate su grosse selle a bordo del Rubicone, un traghetto che le portò a Costanza. I guardacoste, dopo il varo, superate le ostilità e i sospetti dei militari rumeni – che non li perdevano di vista con i kalashnikov spianati – penetrarono il fiume risalendolo per quasi 450 km.

    Fidone e De Alexandris ormeggiarono alla fiancata dell’Olteniţa.

    Le attività dei primi giorni furono convulse: ogni militare del contingente si dava da fare per creare letteralmente la Base. Non c’erano distinzioni di grado, la gerarchia era solo un riferimento perché lì c’era ancora troppo da fare. Camion da scaricare, magazzini da allestire, antiruggine con cui coprire ogni superficie ferrosa; altri si occupavano di procurare il cibo. Fame. Problemi per la potabilità dell’acqua. E anche l’acqua per l’igiene non era una cosa scontata. La bonifica si rivelò assai più problematica del previsto. Chi cercava di nuovo un cesso libero dove cagare o vomitare iniziò pure a dubitare dell’efficacia della profilassi vaccinale fatta in Italia. Quei finanzieri erano come pionieri alla conquista di una zona isolata e degradata, e Calafat, stretta tra il Danubio e la comunità Rom locale, sarebbe diventata la nostra città, da spartirsi con rumeni diffidenti, zingari liberi e sciami di fastidiose zanzare.

    «Dove andrai tu è una delle zone più povere della Romania» me lo diceva con schiettezza Roberto, per ricordarmi che non sarebbe stata una passeggiata: «Pensa che anche i commercianti locali, che hanno a che fare con i Rom che vivono lì, definiscono quel posto il buco del culo della Romania

    Per quante ne sentivo cominciai a pensare che forse era meglio non sapere, altrimenti ci avrei ripensato. E poi non volevo preoccupare la famiglia.

    «Come se non bastasse il ponte più vicino per collegarsi alla Bulgaria, sulla riva opposta del fiume, si trovava a Ruse, oltre 300 km a est! E allora, c’era un solo ferry-boat: e non effettuava la corsa se non aveva completato i posti sul ponte. Dico davvero! Spesso passavano giorni prima di poter passare dall’altra parte. Perciò, con la bella stagione, c’erano giovani che azzardavano la traversata di quel miglio scarso, nuotando. Secondo me o erano disperati o mezzi matti: si legavano addosso delle taniche vuote – a mo’ di salvagente – e si facevano assicurare da qualcuno a riva, con rotoli di cimette lunghissime quanto logore. Non mi credi? Allora sappi che ogni tanto si sentiva di qualche sventurato che aveva sottovalutato la corrente del Danubio e chissà dov’era stato trascinato.»

    Continuava a parlare Roberto, convinto di fare la cosa giusta: «La missione doveva essere indipendente da tutto il resto. Nel senso che non potevamo garantire il rispetto dell’embargo se non stavamo sereni. E tu con i boati che ogni tanto sentivamo in lontananza, come ti saresti sentito? Noi ci cagavamo sotto: voleva dire che in Serbia la guerra si faceva eccome. Per ristabilire la pace bisognava cominciare a ottenere risultati veri. E presto.»

    A forza di ascoltare frammenti dell’esperienza di Roberto, mi passò la voglia di fare domande. Addirittura mi convinsi che esagerava con quei dettagli al limite tra lecito e illecito, grottesco e drammatico, finzione e realtà e, in alcuni casi, tra vita e morte. Se avessi dato ascolto ai suoi racconti avrei dovuto preoccuparmi parecchio, magari rinunciare all’incarico. Invece, mano a mano che si avvicinava la partenza ero sempre più entusiasta.

    A mia moglie non dicevo niente di ciò che sentivo, per non preoccuparla. Qualche giorno dopo accompagnai lei e il nostro Stefano, di soli dieci mesi, a casa dei miei suoceri.

    Lì mi chiamarono per dirmi che era arrivato il messaggio dal Comando Generale.

    Dovevo partire.

    Non pensavo ad altro.

    Neanche al fatto che non ne sapevo niente di quello che succedeva nei Balcani. Accettavo passivamente il mio ruolo, da militare modello, pronto a immolarsi per la Patria e per gli ideali. Ideali. Parola enorme per chi non sa. Parola che maschera, che traveste la propria ignoranza con altre parole: eroismo e fedeltà. Già, ma cosa importa di tutto questo a un soldato? In fondo sono i motti solenni che ci legano alle Istituzioni: e il giuramento alla Patria ci rende immortali subito dopo averlo pronunciato. Ma ci rende anche incredibilmente deboli perché, da quel momento, l’obbedienza prevale sulla conoscenza.

    Così stavo partendo per la Danube Mission, senza chiedermi se andavo a schierarmi dalla parte giusta, se davvero avrei contribuito a portare la pace nell’area balcanica, da sempre complessa e complicata, o se, invece, avrei contribuito ad aggravarne la situazione a favore delle potenze egemoni.

    Del perché i Serbi attaccavano, non ne sapevo niente.

    Del perché i Serbi erano attaccati, non ne sapevo niente.

    Del perché la NATO favorisse la frammentazione della ex-Iugoslavia, non ne sapevo niente.

    E non sapevo niente del perché la NATO non volesse la formazione di sole due nazioni (Croazia e Serbia).

    Sentivo parlare di stabilità e instabilità, di mussulmani e ortodossi, di enclavi, di bosniaci-serbi e di bosniaci-croati, di indipendenza e di pulizia etnica. Di peace-enforcement. E di genocidio, talvolta. E di crimini di guerra.

    Sentivo parlare di tutto, ma non ne sapevo niente se non fosse stato per le cose che mi raccontò Roberto, delle quali dubitavo, in verità.

    In Italia si viveva l’onda lunga di Mani Pulite, della Seconda Repubblica, delle stragi mafiose e iniziavano i maxiprocessi che occupavano la cronaca. L’informazione televisiva proponeva solo le notizie più eclatanti, la stampa proponeva versioni imposte dalla linea editoriale e internet non era ancora disponibile per tutti.

    Mi esaltava l’idea di entrare nei libri di storia e mi bastava guadagnare bene da permettermi di arredare casa senza chiedere un prestito. Sapevo che a Calafat c’era povertà, che avrei vissuto a contatto anche con gli zingari e che non avrei visto l’ora di tornare. Che donne e uomini puzzavano di cipolla. Che le zanzare erano grosse come farfalle e che igiene era una parola sconosciuta.

    Fatto sta che partivo. Ed ero pieno di me, malgrado tutto.

    E questo sentirmi pieno compensava il vuoto di sapere.

    2

    Il 18 maggio 1995 m’imbarcai da Roma su un bimotore della Tarom, per oltrepassare la dorsale appenninica e iniziare a sorvolare l’Adriatico, sapendo che a breve i piloti, dalla carlinga, avrebbero guardato il sud della penisola balcanica. Anche la rotta aerea per Bucarest era obbligata per via del conflitto.

    L’atterraggio all’aeroporto Otopeni fu il momento in cui scaricai la tensione per un volo poco confortevole, anzi, direi proprio da dimenticare per via dell’assordante rumore dei propulsori e dell’intenso puzzo d’aglio del sacripante seduto alla mia sinistra. Sapevo che sarebbe stato un periodo impegnativo, ma se quello era il mattino, tremavo al pensiero del buon giorno.

    Nell’attesa del bagaglio continuavo ad annusarmi addosso nella convinzione che quelle poche ore in aereo furono più che sufficienti a impregnarmi fino alle ossa di quel tanfo. Quando presi il borsone, profumarmi fu la prima cosa che, senza vergognarmene, feci davanti a tutti: sette, otto, forse dieci spruzzate in faccia e sopra i vestiti, nel tentativo di stordire la puzza che, invece, mi rimase sotto il naso, appiccicata come una figurina Panini. Che cazzo vi guardate tutti?, pensai mentre provavo a individuare altri colleghi con cui proseguire il viaggio fino a Calafat, distante circa trecento chilometri.

    Andavo verso la dogana quando un tipo distinto, in giacca e cravatta, sembrava avermi puntato e, senza perdermi di vista, mi venne incontro.

    «Ciao, sono Massimo» si presentò con grande cortesia ed educazione, «sono addetto all’Ambasciata, il referente per il Nucleo UEO. Benvenuto in Romania» proseguì spiegandomi per sommi capi: «Fai solo quello che ti dico: questi sono strani. Hanno stipendi da fame e non disdegnano di arrotondare con soldi sottobanco e mazzette. Dalla dittatura di Ceausescu ancora non si sono ripresi. C’è povertà. È un popolo che prova a uscire da un regime, dobbiamo capirli. Però non farti impietosire: se ne approfittano.»

    Poche frasi che mi sarebbero rimaste ficcate nel cervello per tutta la missione. Ma lì per lì non avevo compreso il giusto senso di quelle parole.

    Era elegante, Massimo. «Bună seara» si presentò ai doganieri, intrecciando un dialogo naturale e fluente: carismatico. E gesticolava poco, tanto poco da non sembrare romano come dichiarava la sua cadenza.

    «Parli bene» mi complimentai.

    «È un anno e mezzo che sto qui. Vedrai che tra qualche mese impari anche tu.»

    «No, io fra tre mesi finisco.»

    «Dicono tutti così: ma è meglio non sbilanciarsi» mi riconsegnò il documento; «Mulţumesc; la revedere» ringraziò e salutò l’agente. «Andiamo, ti accompagno alla jeep.»

    «In che senso è meglio non sbilanciarsi?», tornai.

    «Meglio non parlare di fine missione.»

    «Perché?».

    «Capirai. Non voglio toglierti il gusto della scoperta» mi disse con evidente ironia, mentre già salutava la sorta di Mangiafuoco verso cui andavamo.

    «Lui è Ennio», poi mi presentò due colleghi arrivati poco prima da Milano: «Viaggerete insieme. Loro domenica proseguiranno per Mohàcs.»

    Con quei baffi enormi a sciabola più che Ennio l’avrei chiamato Abdul: pareva un turco invece era un appuntato dei nostri. Avrebbe guidato il fuoristrada con cui avremmo affrontato il viaggio verso la base, direzione Serbia. Anche lui fu cordiale quando

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1