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I Dialoghi della nuova morale: Religione e società. Sessualità e moda.
I Dialoghi della nuova morale: Religione e società. Sessualità e moda.
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I Dialoghi della nuova morale: Religione e società. Sessualità e moda.

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Frutto delle riflessioni di una vita, e dell’appassionata osservazione dei costumi e dell’evoluzione psichica della specie umana nel corso dei secoli, la collana di saggi offerta alla vostra lettura apre un ciclo detto del “PapaVero”, essenzialmente per la pretesa, mai celata né sottintesa da parte dell’autore, di rinforzare (e in taluni casi rinnovare) un messaggio cristiano sempre più fiacco e inadatto alle generazioni del prossimo futuro.
PapaVero, quindi, come l’umile fiore che adorna le nostre campagne in estate. Ma PapaVero è anche il “papa vero”, il vecchio saggio universale che reindirizza il corso dell’etica occidentale in un ambizioso processo di rifioritura del pensiero umano. Il lettore troverà qui riformulati, in maniera più accattivante e coinvolgente data la forma dialogica dei quindici saggi, i capisaldi della filosofia dell’Isolato, nonché la strutturazione della nuova religiosità dell’umanità futura.
L’opera si apre con una prima parte a più diretto approccio filosofico, con contributi e incursioni dialettiche nel sociale e nella politica nazionale. Segue la seconda parte, intitolata “Sessualità e Moda”, in cui per la prima volta l’autore pubblica le sue riflessioni sull’identità di genere, e sulla rivoluzione sessista che negli ultimi anni ha segnato una tappa epocale nella civiltà dei Paesi occidentali, nonché nella tradizionale, abusata dicotomia tra i principi mascolino e femminino.

Laureato in lingue e culture internazionali, Raffaele Isolato applica le sue ricerche in campo etico ed epistemico a novelle e romanzi che spaziano dal fantasy al noir, al filone avventuristico, alcuni dei quali già pubblicati in rete e cartaceo. In attesa di pubblicazione sono altre raccolte di saggi e i più significativi esperimenti poetici. Tra i titoli pubblicati su Amazon: Attacco al potere (La Saga dei Perfetti e degli Imperfetti vol.I), Chi vuole andare in TV?, Viaggio a Nord, Dall’altra parte del nulla, Lineamenti di religione universale, Inferno XXI (poema didascalico-allegorico in trenta canti), Il nulla imperfetto, Nati alla luna nuova, Viaggio a Lost City, L’angelo dalle ali di carta, La pietra e lo scandalo (raccolta di novelle d’argomento erotico), Il Presidente (tragedia in cinque atti in versi sciolti).
 
LanguageItaliano
PublisherPasserino
Release dateFeb 7, 2019
ISBN9788893457606
I Dialoghi della nuova morale: Religione e società. Sessualità e moda.

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    I Dialoghi della nuova morale - Raffaele Isolato

    Universale.

    DIALOGHI DI RELIGIONE E SOCIETÀ

    Dialogo I

    Spinto dalle opposte correnti della religione e della fede, entrambe in contrasto e soggette ai più incresciosi errori a causa delle reciproche, dannose ingerenze, il fondatore della Religione Universale, culto dei millenni a venire e ultima religione del pianeta, scelse di iniziare il suo percorso di predicazione per le più vetuste ed altere città della Terra, e nei più remoti borghi del suo Paese natio. Godendo già di una certa fama e di un discreto seguito, s’installò al centro d’una metropoli d’Italia, in una modesta piazza del centro storico adiacente a quella da cui il vicario di Cristo s’appellava ai popoli durante i suoi roboanti o dimessi inviti all’amore e alla fratellanza planetaria.

    Affranto per l’inutilità dei moniti papali, e per la derisione di cui erano oggetto gli esponenti delle altre maggiori religioni della Terra, il maestro si rinchiuse in un cubo di vetro, interamente esposto all’andirivieni dei passanti. Soltanto una breve porzione del settore inferiore della costruzione era oscurata per permettergli il disbrigo degli impulsi corporali: la maggior parte del giorno e della notte egli la trascorreva sotto gli occhi di chi volesse, per dare udienza a tutti quelli che avessero domande da porgli, astrusi concetti da dipanargli, problemi da sottoporre alla sua invidiabile sapienza.

    Per suo stesso suggerimento, i ragazzi che per brevi tappe gli venivano dietro si riferivano a lui chiamandolo il PapaVero, nome che stava ad indicare l’umiltà della sua indole, appropriata anche al fiore così detto: comune, delicato e presente quasi ovunque in quelle zone a primavera. In più, l’appellativo conteneva una critica velata all’altro e più famoso papa, che da secoli vedeva il suo trono vacillare per gli attacchi secolari della ragione, del bel mondo, del progresso e di una civilizzazione che sempre meno spazio riservava alle esigenze religiose dell’individuo.

    Non mi sento un papa, e neppure aspiro a prendere il posto di quello in San Pietro, ripeteva ai provocatori che si divertivano a stuzzicarlo attraverso la lastra di vetro. Invidio soltanto la posizione di lui, e l’opportunità mancata che ha tuttora di aprire il mondo alla conoscenza del vero Dio che è in ogni dove.

    Della natura di questo Dio e dei modi che aveva l’uomo di raggiungerlo, trattarono proprio i primi dialoghi che il PapaVero ebbe all’inizio del suo pellegrinaggio per le varie contrade d’Italia. Le autorità cittadine furono magnanime al punto da permettergli uno stazionamento di qualche giorno perché portasse a termine i suoi compiti di neo-evangelizzazione, non pensando in verità che potessero essi recare onta o molestia al cristianesimo imperante per l’intera penisola.

    Pressoché sconosciuti erano a quell’epoca di dettami della Religione Universale, e confusi tra l’infinità di culti esoterici che quasi quotidianamente vedevano la luce da un continente all’altro. Quel che distingueva la predicazione del PapaVero da tutte le altre era innanzitutto l’assenza di pretese del suo maestro: egli non voleva contrapporsi alle altre grandi religioni storiche dell’umanità. Semplicemente desiderava che si evolvessero, e fossero pronte a saziare la fame di Dio che sempre più frequentemente si faceva sentire tra le popolazioni del mondo d’oggi. A questo proposito, uno dei primi dialoghi del PapaVero riguardò il rapporto secolare tra fede e ragione: suo interlocutore fu un devoto cristiano, arrivato al Cubo per interrogare il PapaVero sul nuovo culto.

    ***

    DEVOTO: Ma questa differenza tra il vedere ciò che solo sembra, e credere a quel che si sente dentro, nel profondo, voi non la chiamate tensione tra opposti, eterno e insoluto scontro tra la ragione che bada ai sensi, e la fede che tende a un principio superiore all’umano, situato oltre il tempo e lo spazio?

    PAPAVERO: Tutto sta in quel che s’intende per superiore all’umano, amico mio. E se ti dicessi che la ragione non è che una branca della religione, una figlia obbediente che col passar dei secoli si è scavata una nicchia tutta sua in seno alla madre, popolandola di minuzie e giochi del pensiero?

    DEVOTO: Direi che è una posizione ben originale, la vostra. Che io sappia, è dal Medioevo che non si levava un giudizio così lusinghiero sulla supremazia della religione sul saper profano…

    PAPAVERO: E dal Medioevo questo mio giudizio non potrebbe essere più lontano.

    DEVOTO: Per via della vostra religione personale, giusto?

    PAPAVERO: Una religione che è la religione. Essa contiene il vostro Cristianesimo, e ogni altra forma di culto conservataci dalla storia. Potrebbe anzi intendersi come il culto primario dell’umanità al risveglio dal sonno della ragione, allorquando, smarrita essa tra i meandri di un Eden alieno, cercava disperatamente di ricongiungersi con l’Assoluto da cui era stata appena spinta fuori.

    DEVOTO: Per sua colpa.

    PAPAVERO: Per colpa del pensiero che rende ad ogni istante l’uomo consapevole del suo stato. Non mi riferisco al peccato religioso, per cui il figlio prediletto del Creatore si rende colpevole di un imprecisato atto di superbia nei Suoi confronti. Il peccato è proprio il riconoscersi uomo, e quindi altro da Dio.

    DEVOTO: Ma in nessun caso siamo Dio, mi pare.

    PAPAVERO: Potremmo e dovremmo esserlo, se non intervenisse il pensiero imperfetto a ritagliarci uno spazio in questo immenso, e a popolarlo di particolari, minuzie, eccitazioni sensoriali, illusioni proprie di una fantomatica razza eletta. Secondo ragione siamo uomini e abbiamo una nostra dignità esistenziale; secondo religione, questa dignità è un incidente di percorso che richiede una soluzione immediata.

    DEVOTO: Ecco quindi l’insolubile contrasto che cercavate di negare.

    PAPAVERO: Nient’affatto. La religione riconosce uno stato d’innaturalezza dell’Assoluto, e lo stesso fa la ragione. In seno alla religione, quest’ultima si accontenta di dar spago al pensiero che concepisce l’uomo così com’è, e come un cancro moltiplica le sue deduzioni, le illusioni, le tecniche di costruzione di edifici che vogliono innalzarsi fino alle stelle.

    DEVOTO: Tutto questo in seno alla religione?

    PAPAVERO: In seno a essa perché per prima la religione riconosce lo stato d’infelicità di un uomo solo di fronte al bisogno di Dio. Essa suggerisce un insieme di pratiche per attenuare questo dolore, mentre la ragione tergiversa e si racconta favole per giustificarne l’innaturalezza conclamata. Oggi, il compito della maggior parte delle religioni storiche è disatteso perché esse stesse, madri snaturate, si sono convertite ai dettami del saper profano, alle seduzioni della scienza, ai prodigi della tecnica. Si sono fatte un’idea di Dio che è più vicina all’umano di quel che sarebbe stata secondo i primi impulsi metafisici del pensiero, e di conseguenza hanno materializzato quel che mai avrebbe dovuto appartenere al dominio sensoriale della conoscenza.

    DEVOTO: Umanizzare Dio? Ma il Figlio non è che un’emanazione del Padre…

    PAPAVERO: E il Padre stesso, cos’è se non un’insignificante emanazione del Dio del nulla e del tutto, del cosmo prima dell’infezione del concreto, del silenzio antecedente all’esplosione del primo pensiero?

    DEVOTO: Abbiate pazienza, maestro. Un dio che è personificazione del nulla non è più dio…

    PAPAVERO: Se per dio intendi l’idolo a cui ti rivolgi nelle preghiere, il monarca celeste di un qualche popolo eletto, o il vecchio saggio residente sulle nuvole, allora hai tutte le ragioni. Proprio questo dio particolare si presta a un’infinità di attributi che lo rendono distinto in ciascuno delle centinaia, forse migliaia di culti sorti nel corso della nostra storia.

    DEVOTO: Ma la sua particolarità, come la chiamate voi, è pur necessaria a stabilire un legame con la mente dell’adorante…

    PAPAVERO: O a confonderla, a illuderla che oltre questa vita ce ne sia un’altra, che oltre questa eterna sofferenza del vivere ci sia un opposto fatto di gioia e di ricompense, che in qualche modo giustifichi l’assurdità del nostro sopravvivere? Il vero Dio, o meglio l’oggetto della tensione dell’umano a superar se stesso, è innominabile, inimmaginabile e inarrivabile, almeno sin quando tenterà di concepirlo la mente dell’adorante.

    DEVOTO: Tanto vale esser atei, allora. Se pure lassù c’è un dio che non ci ascolta e che non possiamo concepire…

    PAPAVERO: Concepirlo in quanto uomini, ovviamente no. Il mistero della divinità universale è proprio questo: per intenderla occorre diventare simili a lei, uscire dalla prigione sensoriale a cui sta legata la nostra percezione e rifiutare il mondo come creazione spuria della ragione.

    DEVOTO: Un mondo che tuttavia in alcuni casi porta il segno della Sua presenza.

    PAPAVERO: Se lo porterebbe, non sarebbe più mondo. Le immagini, i suoni, i gusti e le sensazioni con cui cerchiamo di dargli un nome, e adorarlo, e difenderci dalla sua ira non sono altro che elaborazioni di una ragione cancerogena e tossica, principale fonte di sussistenza del dolore esistenziale.

    DEVOTO: Perdonate, non tutti gli aspetti dell’esistenza mi paiono soggetti a questo dolore che voi chiamate universale.

    PAPAVERO: Vivere significa soffrire, lo ribadisco. E non intendo una sofferenza materiale, data dai piccoli intoppi, o dalle cocenti disillusioni della ragione: il dolore è proprio nel nostro sentirci vivi, lontani dal compimento della nostra vera natura, e soggetti a tutte le catene del pensiero che ormai ci avviluppa nella sua rete di sensazioni. Prima di scadere in questo impulso creativo del pensiero profano, la religione aveva appunto il compito di trascinare via l’uomo da se stesso, e di riappacificarlo con la sua coscienza impersonale. Via dalla materia, dall’inganno della vita e dall’illusione di concepirsi in un corpo perituro, la mente del credente si perdeva nell’abisso dell’increato, all’origine del suo peccato creativo e pronta per ripiombare nell’incoscienza pre-adamitica.

    DEVOTO: Pensiero creativo? Dunque lei chiamerebbe peccato lo stesso paradiso creato dal Signore!

    PAPAVERO: E ciascuna delle sue creature. Cos’è infatti creare, se non aumentare il numero delle sensazioni che ci fanno coscienti di essere uomini, e soggetti a decadenza, livore, tristezza, eccitazione? La creazione non è affatto un atto divino, amico mio: al contrario, esso è uno dei più infamanti peccati della coscienza mortale. Una delle caratteristiche primarie della divinità è il fatto di essere increata, e quindi inesistente secondo i canoni umani. A che pro, quindi, sforzarci di vederla, sentirla, concepirla? Essa è la tensione al sovrumano, o inumano, che il più delle volte è sepolta sotto il bailamme di materia in cui ci intrappoliamo volontariamente.

    DEVOTO: Se Dio non ci vuole uomini, quindi, perché avrebbe permesso la nostra esistenza?

    PAPAVERO: Lo vedi? Continui a riferirti a lui come un’entità personale. Egli è la soluzione all’umano, non la sua causa. Per indicare il non-uomo dovremmo infatti usare una parola nuova, che la mia religione chiama universalità. Quest’ultima non include soltanto il mondo che concepiamo, ma tutto l’anti-mondo che non sospettiamo, e l’unione dei due, e il successivo dissolvimento di entrambi.

    DEVOTO: Sarebbe ben triste pensare che siamo soli, e che per di più viviamo in uno stato innaturale, correggibile soltanto dimenticandoci di essere uomini, e vivi.

    PAPAVERO: Ma perdonami, triste è proprio questo mondo. La strada che ci indica l’universalità risolve proprio l’inganno pensante. Dio non può essere concepito, come appunto fa il Cristianesimo, come Signore della vita: esso è piuttosto Signore della dissoluzione, del silenzio, della pace cosmica. La più grande rivoluzione operata dalla Religione Universale si pone proprio nei riguardi di questo particolare stato della materia che noi chiamiamo vita. Prima di tutto, essa non è un concetto definibile secondo ragione.

    DEVOTO: Ma al contrario, definibilissima!

    PAPAVERO: Mi sapresti forse elencare le ragioni per cui un uomo vive e un sasso no?

    DEVOTO: Ma mi pare ovvio…

    PAPAVERO: Forse che un semplice pezzo di pietra, se studiato secondo le più sofisticate elucubrazioni scientifiche, filosofiche, tecnologiche, non rivelerebbe un suo ciclo di respirazione, uno di riproduzione, uno di alimentazione?

    DEVOTO: Maestro, ora mi sembra che esageriate…

    PAPAVERO: A livello particellare tutto è possibile, amico mio. Non si son scoperte forse qualità insospettabili della materia subatomica, e stati fino a ieri inconcepibili al di sotto di questa, che ribalterebbero le leggi comunemente accertate dalla fisica?

    DEVOTO: Di qui a concludere che un sasso respiri…

    PAPAVERO: A suo modo, perché non dovrebbe? Viviamo in un’epoca in cui la relatività ha spazzato via le basi più solide del sapere umano: si son corrose le etichette, confusi gli insiemi, ribaltati i cardini che tenevano ordinati gli stadi del sapere. Vive la terra che ci sta sotto i piedi, vive il cielo con tutti i suoi complicati cicli atmosferici… scenderemmo forse a complicarci inutilmente la questione, supponendo una forma esistenziale esclusiva che più ci apparenterebbe al vivo tra i vivi?

    DEVOTO: Il Dio della vita, appunto. So bene dove volete arrivare.

    PAPAVERO: Voglio arrivare a farti ammettere che lo status di creatura vivente non è un criterio di selezione per arrivare a una piramide delle esistenze. L’illusione che ci fa credere vivi in un cimitero di morti, o razionali in un manicomio di intelligenze inferiori, è quella che più ha maledetto la nostra razza già così segnata. Credimi, non c’è alcun motivo per crederci esseri superiori o più degni di considerazione (da parte di un fantomatico principio creatore) nell’intero universo. La scienza stessa lascia il tempo che trova, essendo solo una particolare, relativissima interpretazione della materia da parte di una mente auto-referenziale, sconosciuta o magari dileggiata dall’ultimo degli insetti.

    DEVOTO: Voler ora mettere su di uno stesso piano l’uomo e l’insetto…

    PAPAVERO: Ma di peggio, mio caro! Di peggio! Mettiamo l’uomo e il sasso, su questo piano. Il secondo potrebbe avere una sua scienza a noi insospettata, e godere di una sua personalissima scala di valori che vedrebbe esso stesso, l’umile pietra, al suo vertice.

    DEVOTO: Ammissibile, ma inutile alla nostra discussione.

    PAPAVERO: Non direi, visto che proprio da questo errore d’autovalutazione è nata la nostra proiezione antropomorfica della divinità. Quest’ultima è un super-uomo che proietta la nostra disperata volontà di assimilare l’intero creato dentro di noi, governandolo e risolvendolo in noi: attraverso il nostro dio personale noi ci vendichiamo della nostra sofferenza (ingiustificata secondo i criteri dell’umana superbia), e instauriamo un rapporto privilegiato (anche personale, attraverso la preghiera) con questo fantasma di noi stessi. Attraverso dio noi puniamo chi ci fa soffrire, ci amiamo incondizionatamente, tuteliamo le nostre debolezze, premiamo le giuste sofferenze, puniamo gli eccessi corporali che più ci fanno danno. Dimmi tu se questo non è lo sforzo inutile di una religione falsata, creata per l’uomo e nell’uomo seppellita e risolta!

    DEVOTO: Ma se è proprio la religione a elevare l’uomo dalla sua miseria e a renderlo più solidale con i suoi simili, più giusto nella comunità…

    PAPAVERO: Anche ammettendo che sia vero (e non lo garantisco), crederesti tu che il compito di qualsiasi culto sia quello di regolamentare la vita sociale dei suoi fedeli? Ma a questo scopo esiste la giustizia umana, perfettamente in grado di sostituirsi a quella di un legislatore invisibile e ispirato dalle visioni dei presunti profeti!

    DEVOTO: Ammetterete almeno che senza la fede in Dio anche la giustizia più rigorosa mancherebbe della sua giustificazione ultima…

    PAPAVERO: Illusioni, amico mio. Illusioni di un pensiero che vuol figurarsi un fantoccio tanto più grosso e temibile del suo giudice in toga, quanto più elevata e superba è l’idea che di se stesso si fa il trasgressore.

    DEVOTO: Sia data allora una giustizia senza dio, in un mondo senza dio, e pure un’umanità che non ha più alcuna salvezza da sperare nel corso della sua storia. Voi volete spingerci all’estremo dell’insensatezza, e poi costringerci ad ammettere che sarebbe meglio non sentirci neppur vivi. Dovremmo forse esservi grati, maestro, di averci aperto gli occhi? Non sarebbe forse mille volte meglio saperci nelle mani onnipotenti del Signore, guidati dalla Sua santa volontà, e coscienti un giorno di estinguere le nostre fatiche nel fulgore della Sua gloria? Siano pure imperfette e ridicole le nostre mortali rappresentazioni del principio divino: non servono esse forse a tenerci a mente che siamo destinati ad altro, a risolvere questo nostro dolore, come lo chiamate voi, nella pace dell’Assoluto?

    PAPAVERO: Oh, ma questa è un’esposizione esemplare delle lusinghe della vostra religione, caro mio. Non ci troverei nulla da ridire, se non fosse per l’errore del tempo, e il perdurare in esso della sofferenza. Vedi, in tal modo credere in un dio che vegli su di noi, o nel denaro che ci preserva dalla povertà, o nel genitore che ci assiste e tutela, è praticamente lo stesso. Si tratta di scuse al prolungamento della sofferenza esistenziale, e attesa di poter esserne ricompensati in qualche modo.

    DEVOTO: Giacché si è uomini e non sassi…

    PAPAVERO: Il nocciolo della questione è sempre il compito della religione, che non dovrebbe tutelare l’uomo e giustificare il suo dolore, come si è detto fin qui, ma risolverlo. E permettimi, non lungo l’asse temporale, ma qui ed ora.

    DEVOTO: Lei non sembrerebbe indicare nient’altro che il termine della vita, per risolvere con essa il dolore, maestro.

    PAPAVERO: E terminare la vita significherebbe morte, per te?

    DEVOTO: Morte o incoscienza…

    PAPAVERO: Non è forse invece il culmine di un processo di spersonalizzazione che ci vedrebbe meno uomini, e più vicini alla libertà dai legacci del pensiero? Qui i dolori, le malattie, le angustie della vecchiaia non trovano alcuna ragione d’essere; tantomeno le palpitazioni e le terribili sofferenze morali legate all’ipotesi di suicidio. La sconfitta del cancro vitale è un percorso anche istantaneo per la mente del saggio universale, che può annegare nell’estasi universale la nozione dell’Io, per sentirsi finalmente libero dalla sua prigione materiale.

    DEVOTO: Sembrano più belle parole, che una soluzione sensata alla cessazione della sofferenza.

    PAPAVERO: La liberazione dall’umano è il compito ultimo di ogni religione autentica: la natura può assisterla negli ultimi istanti di questa dissociazione, attraverso i mezzi meno invasivi e più dolci di cessazione della coscienza.

    DEVOTO: Eutanasia, quindi?

    PAPAVERO: Qualsiasi mezzo per rendere definitiva l’interruzione del pensiero. Non un rinnegare la propria umanità, ma soltanto la risoluzione di un fraintendimento della nostra presenza (illusoria) nel mondo.

    DEVOTO: Ma siete pure cosciente, maestro, che il vostro è un modo di pensare all’uomo da cui l’uomo stesso potrebbe dissentire. Ci sono anche quelli che amano la propria vita, e che, atei o credenti, la considerano un dono da ricevere e da donare ai propri figli…

    PAPAVERO: Potrei darti ragione, amico mio, se per amare tu intendessi accettare. Ci si può rassegnare alla propria esistenza fino a illudersi di amarla, pena la follia o la disperazione suicida. Quanto poi alla tentazione di ricrearla nei propri figli, anche questo è un tentativo di esorcizzarne l’estremo dolore che sarebbe la morte. Ma qual è il senso? Che significa amare la vita, se non amare la speranza che essa sia quel che vorremmo che fosse, e cioè un contenitore di gioie, serenità, eccitazioni sensoriali che stordendoci ci distraggono dalla loro vera natura? In realtà non esiste alcuna costrizione al dolore: inventarci un idolo che ci obblighi a sopportare per poi forse ricompensarci è il più assurdo dei credo inventati dalla nostra razza di disperati cronici. Sovraccaricare il nostro stato vitale di sollecitazioni sensoriali può servire a distrarci dall’inevitabilità del dolore, ma esso prima o poi rispunterà fuori, più cocente e insopportabile di prima. Spogliare la vita di materia, di sensazioni, di giustificazioni, servirebbe invece a rendercela meno gravosa, e forse assai più vicina alla risoluzione.

    DEVOTO: Certo, se continuiamo a vederla come qualcosa da risolvere, invece che a uno stato in cui esistere il più degnamente e giustamente possibile…

    PAPAVERO: Beh, se non altro ci spiegheremmo perché così tanti al mondo si danno un gran da fare per renderla insopportabile a se stessi e agli altri, quasi che il far soffrire fosse l’unico modo per non soffrire in prima persona.

    DEVOTO: Ma è quello che stavo cercando di dirvi, maestro. Gli esempi che portate non sono un modo di vivere la propria esistenza secondo giustizia!

    PAPAVERO: Seguire i vostri comandamenti lo sarebbe, invece?

    DEVOTO: Vedeteli come esempi di moralità, responsabilità, solidarietà tra simili.

    PAPAVERO: Se esistesse davvero questa solidarietà, amico mio. Ogni uomo, sin da quando ha coscienza di sé, è solo di fronte al mondo e a se stesso: dagli altri non cerca altro che rassicurazioni su questo invincibile esilio, e protezione perché non gli paia troppo grave il fardello che si porta sulle spalle. Se venisse meno lo scudo che offre la società alla loro stessa viltà, sta’ pur sicuro che gli uomini si sbranerebbero gli uni gli altri, in un deviato tentativo di risolvere la loro incomprensibile diversità.

    DEVOTO: Ma scusate, voi sembrate ignorare ogni naturalissimo impulso alla pietà, alla cura del più debole!

    PAPAVERO: Particolarità, caro mio. Parzialità che possiamo avere per un figlio, o un amico che vediamo come giustificazione del nostro potere, o solletico alla nostra vana superbia. In più, sarebbe mai possibile prendersi cura di milioni, miliardi di persone insoddisfatte e infelici? Se di questo si nutre la vita, se di dolore in dolore, di sofferenza in sofferenza ci spingiamo verso la risoluzione dei dilemmi che questa ci pone, già troppo fatichiamo per giustificare la nostra propria esistenza in tanta angoscia. L’istinto al suicidio, o tutt’al più a un catastrofismo catartico, è sempre dietro l’angolo.

    DEVOTO: E quello al sostegno mutuale, allora? L’ha appena confermato: è una seconda strada…

    PAPAVERO: Apparentemente un’alternativa, ma inutile. In assenza del percorso del saggio verso la spersonalizzazione e la rinuncia all’Io, l’uomo all’altro uomo è sempre un ostacolo, un mezzo o un fine che serve l’egoismo.

    DEVOTO: Dunque, non ci sarebbe altra soluzione a tutta questa infelicità che rinunciare al proprio Io? Spersonalizzarsi, vivere come un vegetale e lasciarsi morire?

    PAPAVERO: Questo, o letteralmente darsi all’odio attivo per il mondo: far soffrire, uccidere, uccidersi violentemente.

    DEVOTO: Il che mi pare sia una soluzione adottata anche da certi integralismi religiosi.

    PAPAVERO: Terroristi. Esplicita pure il termine, non averne timore. Sono anche loro nostro specchio, e anche loro meritano comprensione.

    DEVOTO: Comprensione? Io li tratterei più da folli. Superstiziosi che si illudono di meritare il favore di Dio quando anticipano di propria mano le torture dell’inferno per loro e i loro affiliati!

    PAPAVERO: Eppure uomini. Sempre uomini, con una parte di noi stessi in loro. Da dove credi che derivi tutta la loro angustia, tutta la loro rabbia nei confronti dei cosiddetti infedeli, e l’invincibile esigenza di sterminarne quanti più possibile in un colpo solo?

    DEVOTO: Dai dettami, fraintesi, della loro religione.

    PAPAVERO: Più da certi insegnamenti della religione primigenia, quella pura a cui si rifà la Religione Universale. Mi guardi meravigliato? Tu pensa che il primo approccio alla divinità da parte dell’umanità deviata richiede un completo perdersi in essa, e la risoluzione totale delle anomalie del pensiero creatore. Ti stupisce che in un mondo completamente perso dietro il delirio formativo del pensiero, gli aneliti all’Assoluto del culto universale si perdano nella ricerca di morte collettiva?

    DEVOTO: E questo sarebbe un atto conforme alla ricerca del saggio? Voi mi prendete in giro!

    PAPAVERO: Un atto senza dubbio comprensibile all’origine, ma completamente errato nella risoluzione finale. Io posso avvertire una voce dal di dentro che mi piega all’adorazione dell’Universale, e al desiderio insopprimibile di unità dei fedeli di fronte a questo dio del nulla e del tutto, del pensiero primo e Uno… ma come conciliarlo, nella mia ignoranza, con la moltitudine irrisolta da cui sono circondato? Se continuo a percepirmi come un Io irrisolto, ecco che per non impazzire sono costretto alla violenza su me stesso e sugli altri, nel tentativo di sanare questa frattura che la religione (quella vera) mette in risalto.

    DEVOTO: E il Cristianesimo, allora? Non è per lei una religione valida, tanto più nobile in quanto rifugge da simili pericolosissimi estremi?

    PAPAVERO: Valida sì, ma ormai troppo lontana dai dettami delle origini. Una religione integralista, violenta, disperata, è quella che, nostro malgrado, più si avvicina alla tensione primigenia tra l’uomo e la sua divinità. L’uomo deve sentirsi solo, abbandonato, in cerca di una soluzione al suo dolore, altrimenti qualsiasi forma di culto resta una vuota attesa del prossimo dolore, fino alla risoluzione della morte (dolore dei dolori). In questa lotta con se stessi e col mondo per arrivare al vero principio increato, scompare il tempo, scompaiono i riti dispersivi di adorazione, scompare anche la falsa speranza di un aldilà che ricompensi della passività in vita. Al loro posto, conta soltanto il riavvicinamento immediato all’Unità, l’ansia di risolvere l’onta anti-religiosa del mondo con un suicidio collettivo.

    DEVOTO: Quanto più sensato sarebbe un solo suicidio, allora. Meno sangue versato, e soltanto quello colpevole.

    PAPAVERO: Ma è proprio questo il punto. Se io, a un passo dalla Verità, continuo a percepire il cancerogeno suddividersi del pensiero corrotto, non avrebbe senso tentare di spegnere me stesso, un frammento perduto in questo inferno, per far trionfare il regno di dio sulla Terra. Più senso avrebbe anzi falciare una parte di questa corruzione e attenderne la dovuta ricompensa: così, se tutti gli integralisti si unissero alla ricerca dell’Uno oltre l’infamante diversità, sarebbe forse ristabilito il regno dell’Uno nell’universo.

    DEVOTO: Obiettivo quanto mai assurdo, per giunta ricercato tramite il male e la violenza.

    PAPAVERO: Deviato senza dubbio, ma per il solo fatto che all’assenza di coscienza dell’Io si dovrebbe arrivare spegnendo gradualmente ogni impulso alla sofferenza dei sensi e all’istinto di vita. Paradossalmente, se attento alla mia vita o a quella di un altro, scateno una reazione spropositata da parte di quella stessa forma esistenziale che sto attaccando. Il cielo, la terra, il mio stesso sangue mi si rivoltano contro, spaventati e angustiati da quell’improvviso tentativo di risoluzione azzardata. Non è questa, la via giusta per cancellare il peccato dell’umano dal vuoto universale!

    DEVOTO: Quindi, se ho ben capito l’errore sarebbe nel modo, e non nell’idea stessa di cancellare l’umanità dalla faccia della Terra? Questo troverebbe una strenua opposizione proprio in quell’istinto che lei chiama in causa in favore di tale ricerca dell’Uno. Se l’unico desiderio dell’uomo dacché concepisce se stesso fosse davvero quello di risolversi e scomparire, come spiega l’invincibile tensione a dare il meglio di sé, ad amare, a esser felice con i suoi simili, a fare in modo che il mondo sia un posto sempre migliore per le future generazioni? Voi maestro, uno contro miliardi di miliardi, vorreste scrutare nell’animo di ognuno e vedervi il più oscuro desiderio di morte: ma nel mio, in cui vedo benissimo, c’è al contrario il più libero e disinteressato omaggio alla vita! È pur sempre un dono bellissimo, per chi sa utilizzarlo a fin di bene: qualcosa di meraviglioso se lei tiene in conto tutte le bellezze che ci regala la natura, e gli atti di carità verso il prossimo, e poi il calore che emana da una fede sincera, incorrotta, verso Colui che si ama e che si riconosce come il creatore di tanta gloria.

    PAPAVERO: Di quest’amore incondizionato per la vita e per chi a parer nostro ce l’ha regalata, mi sembra di aver già discusso. Credimi, anche il prigioniero che non vuole ammettere l’esistenza di un mondo libero, finisce per amare la dura pietra del suo giaciglio come la sua stessa pelle: per lui non c’è altro, il dolore diviene un attributo insostituibile dell’esistenza.

    DEVOTO: Ma qui non si parla di dolore!

    PAPAVERO: Dolore, amico mio. Travestito, ma pur sempre dolore. Vorrei che tu riflettessi su tutto il sangue che ci piove addosso dall’alba dei tempi, su tutte le lacrime in cui stiamo immersi da secoli, su quanti fiumi ne scorreranno ancora nei secoli a venire. E i pochi attimi di sospiro tra una disgrazia e l’altra ti sembrano forse abbastanza per giustificare tanto male, tanta disperazione? Se tu analizzassi davvero la natura di quest’armonia, della felicità che ti convince che la vita sia qualcosa di degno d’esser vissuto fino all’ultimo giorno, vi vedresti soltanto un soffrire sordo, forse condito dall’eccitazione dei sensi, ma per il resto soltanto uno scherzo di un’attenzione allentata e stordita dagli aspri picchi d’agonia che la circondano.

    DEVOTO: La somma dei dolori e delle gioie dovrebbe essere pur sempre costante, altrimenti non si spiegherebbe la sopportazione di ogni uomo, ancorché giovane. E la dignità con cui la maggior parte di noi porta innanzi il proprio fardello con un sorriso, nonostante tutto…

    PAPAVERO: In questo caso, permettimi di farne una questione di etichette. Dolori e gioie non sono che due facce di una stessa moneta: sono sensazioni razionali, quindi dettate dai sensi e dalla loro elaborazione, che ora ci presentano un fatto a tinte fosche, minacciose, ora lo illuminano di speranza. E che sarebbe la speranza, se non il desiderio disperato che giunga alcunché a giustificare l’attesa? Poniamoci pure ad analizzare la gioia più comune: la nascita di un bambino. Pensa agli occhi brillanti dei genitori, al cuore gonfio di gratitudine di una madre per quella meraviglia della natura: nei movimenti inoffensivi, vivaci, ingiustificati del pargolo vedresti riflesse soltanto le illusioni della speranza. Il bambino è una vita in nuce, qualcosa che si ripete e che forse libererà i genitori dall’ansia di occuparsi della propria prossima, inevitabile decadenza. Cos’è infatti una famiglia senza bambini, se non attesa della dissoluzione? Non c’è nulla di più tedioso, angoscioso, terribile che aspettare la morte senza essere cosciente della propria vera natura.

    DEVOTO: Ci sarebbe pur sempre la paura dell’ignoto, del lasciar gli affetti, i ricordi di tutti i bei momenti…

    PAPAVERO: Dolori dettati dall’attesa, appunto. Mettiamo pure sotto analisi le gioie dell’amore: contraggo un legame con una persona e immediatamente le giornate mi si ravvivano, mi torna la voglia di fare, progettare, creare (una casa, un figlio, un futuro); ecco che si ravviva l’amore per la vita e per il tempo che mi rimane (voglia il cielo che sia più lungo possibile…). A cosa sto affidando la mia eccitazione sensoriale, adesso? Senza dubbio all’intrattenimento: lungi dal volermi spiegare il senso delle cose che faccio, me ne lascio trascinare e continuo ad operare (pur soffrendo, perché è

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