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Storie d'altri tempi
Storie d'altri tempi
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Storie d'altri tempi

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About this ebook

Antonio è lo specchio della società contadina di quel tempo, a cavallo tra fine ottocento e novecento; fatta di duro lavoro, poca istruzione e molta ignoranza, specialmente riguardo alla sfera sessuale. Quella poca istruzione tramandata oralmente era costituita da alcune massime,Quali: "Non so niente non ho visto niente e non voglio sapere niente". Oppure: "Occhio che non vede cuore che non duole" e inoltre: L'amore si fa dove si trova. Questo era quello che cercava Antonio quel caldo pomeriggio d'estate, nella fattoria con la giovane cameriera. Soddisfatta la passione ecco i consigli dei così detti saggi:Attenzione alla donna facile,perché, dopo ci sono le corna. Allora Antonio scappa per non ritornare più dalla ragazza, incurante delle conseguenze per la povera giovane. Lui dopo la morte della prima moglie si risposa e nel tempo la moglie gli regala quattro figli, l'ultimo Roberto. Il bimbo arriva in questo mondo pochi anni prima dello scoppio della seconda guerra mondiale,in una società che nonostante il passare di tanti anni si trova in una condizione più disagiata d'allora e senz'altro aggravata dalla guerra, e quando il genitore di Alberto viene arrestato la famiglia viene a trovarsi nella più dura povertà. Anche se come dirà Roberto in seguito, la tragedia del padre fu la sua fortuna perché altrimenti il ragazzo secondo la tradizione sarebbe stato avviato al lavoro dei campi e dopo la terza elementare avrebbe condotto la misera vita del bracciante. La triste situazione.... continua.
LanguageItaliano
Release dateOct 19, 2015
ISBN9788893061933
Storie d'altri tempi

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    Storie d'altri tempi - Diego Licata

    carceri.

    Storie d’Altri

    Il libro è composto di tre racconti.

    Nel primo si narra, come la storia si ripete apparentemente sempre uguale, chi perde e chi vince, ma in realtà si è tutti perdenti, solo c’è chi paga di più e chi meno.

    Il secondo racconta il rimpatrio di un emigrato ma il rientro è rovinato da alcuni malviventi locali con tragiche conseguenze.

    Il terzo racconto narra di un trafficante poco scrupoloso che per non perdere la faccia, s’imbarca in una truffa che diventa sempre più ingarbugliata, ma alla fine si arrende a un senso generoso di paternità.

    Prologo

    Era passato quasi mezzo secolo da quando Garibaldi con la spedizione dei mille era riuscito a debellare i Borboni e concludendo la sua opera rispondeva Obbedisco.

    L’unità d’Italia aveva portato parecchi cambiamenti nella società del regno delle due Sicilie, ma per la povera gente tutto era rimasto come prima se non addirittura peggio e la miseria la faceva da padrona.

    La scuola allora era un privilegio dei ricchi, i figli dei contadini e dei braccianti erano fortunati se arrivavano alla seconda o al massimo alla terza elementare e incominciavano a lavorare aiutando nella campagna i genitori o come garzoni nelle masserie e qualcuno più sfortunato per un misero ’anticipo ai suoi genitori finiva a lavorare in miniera alle dipendenze di qualche picconatore.

    Antonio voleva sesso, Lella sperava in qualcosa di più, quando si capiscono la loro via si separa, poi s’intromette uno sconosciuto e Antonio paga. Condannato insieme al figlio per un crimine che non hanno commesso. Per lui la vendetta rimane solo un pio desiderio.

    Sfocia virulenta con Alberto che sembrava il meno prono a questa

    Angelo è la vittima di un crudele destino.

    Eccellenza è un cinico trafficante che per non perdere la faccia s’imbarca in una truffa che diventa sempre più ingarbugliata. Alla fine si arrende ad un generoso sentimento di paternità per un trovatello sconosciuto.

    Giorgio è il personaggio più fortunato, nonostante la sua fanciullezza sia stata piuttosto movimentata, l’incontro con la giovane Dorotea fa della sua vita il paradiso che ogni uomo sogna.

    Antonio

    Gli occhi stentavano a rimanere aperti sotto il sole che picchiava durissimo nell’afa quasi insopportabile di un pomeriggio di luglio; in lontananza, la luce produceva un riverbero che sull’asfalto dava l’effetto di bagnato. Il giovane, uscito dal pagliaio posto all’estremità nord-ovest del suo orto, camminando sulla terra arida e spaccata, si diresse verso il sentiero che costeggiava il lato est del suo campicello e seguendolo, arrivato all’incrocio con la carrabile che portava alla vicina casa colonica, voltò a sinistra e s’incamminò verso l’ampio ingresso del cortile della fattoria, distante poco meno di trecento metri. Qui volutamente rallentò il passo.

    Voleva essere visto dalla ragazza che a quell’ora, ne era certo, si affaccendava nella cucina della casa colonica, una costruzione di pietra ricoperta all’esterno da uno strato, bianco in origine ma ora diventato una patina grigiastra che denota incuria.

    Un imponente cancello di ferro dava accesso a un grande spiazzo tutto recintato che d’inverno, nonostante l’attacco della ruggine, precludeva l’ingresso agli estranei, mentre d’estate rimaneva sempre aperto perché i padroni vi abitavano e perché in quel periodo i lavori si svolgevano a tutte le ore a secondo delle necessità.

    Opposto al cancello, molto più in dentro, c’era un grande portone di legno che immetteva in un cortile interno dove si trovavano gli alloggi dei padroni al primo piano, al quale si accedeva da destra o da sinistra per un’ampia scala; insieme al largo corridoio, il piano assumeva l’aspetto di un ferro di cavallo.

    Dirimpetto a questa scalinata se ne apriva un’altra identica, e lì sopra si trovavano due sale; una, dove i padroni pranzavano abitualmente e un’altra molto più ampia per ricevimenti e altre grandi occasioni. Al centro fra le due, proprio sopra il portone di legno, si trovava la cucina.

    Antonio osservò le galline razzolanti nell’aia, volse lo sguardo verso le stalle e si accertò che tutto fosse tranquillo e poi intravide la figura della ragazza affacciarsi un istante alla finestra. Sicuro d’essere stato visto, proseguì il suo cammino seguendo un altro sentiero che si apriva alla sua sinistra. Quel viottolo era costeggiato a destra da un limitare di pietra a secco, quasi coperto dal fitto sommacco, e a sinistra da una vigna.

    Dopo duecento metri di discesa, il sentiero girava ad angolo retto; lì alla sua destra, interamente coperta dal sommacco, si apriva l’entrata di una grotta.

    Antonio, un giovane basso ma dalla corporatura robusta e dal viso abbronzato, entrò; dopo alcuni secondi, adattatosi alla scarsa luce, si portò verso il fondo del covo, dove c’era una panca in pietra, prese un po’ della paglia che era ammonticchiata in un angolo e fece un giaciglio.

    Si distese e aspettò Lella. Lella? Come si chiama? Sì! Questo è il suo nome; ma non ne era poi così sicuro. Lei, al servizio dei padroni, era arrivata con loro a Grotta Rossa alcuni giorni prima per passare l’estate in campagna. Si erano incontrati il mattino del giorno prima.

    Lui puliva le stalle, lei era andata a dare il mangime ai polli ma si erano capiti a metà.

    «Vieni nella grotta domani pomeriggio quando i padroni dormono» aveva detto lui con un secondo fine. Lei fece una smorfietta e si allontanò senza accettare o rifiutare.

    Antonio, che dall’alba era al lavoro, aveva portato le bestie a bere. Poi, lasciatele al pascolo, era tornato a pulire le stalle, aveva raccolto i pomodori per i padroni e aveva anche preparato il calesse perché questi potessero andare in paese. Finalmente, dopo aver riportato di nuovo verso mezzogiorno la mandria a bere, era entrato nel pagliaio e aveva mangiato un tozzo di pane con alcuni pomodori: verso le due, quando l’arsura del giorno era al massimo, era in quella grotta così fresca che sembrava un paradiso.

    Avvertì il fruscio di qualche ramo smosso all’entrata e poi la vide.

    «Sei qui?» domandò timida con gli occhi ancora offuscati dalla penombra. Lui le prese la mano e la attirò a sé con dolcezza sulla paglia.

    La ragazza, ancora accaldata, si adagiò accanto ad Antonio. Una morettina con una leggera peluria sul labbro e un po’ più accentuata sulle braccia scure. La scollatura della camicetta attirò la sua attenzione, l’istinto diresse le sue mani mentre le loro bocche si erano incollate in un bacio lungo e appassionato.

    Tutt’e due erano inesperti, ma tutto veniva naturale; i loro corpi sani non avevano bisogno di lezioni. Lui si diede a lei con tutto lo slancio dei suoi sedici anni, lei l’accettò soffrendo silenziosa.

    Per lui la forza di una passione incontenibile, per lei (nello stesso momento che si consumava l’amoroso amplesso) quasi un presagio delle dolorose conseguenze.

    Sbollita la passione Antonio si alza, si riveste in fretta e quasi scappa dalla grotta che ha visto consumare il loro sensuale abbraccio. Non vuole esser visto e desidera che rimanga un segreto; non tornerà più nella grotta con lei, perché se continua, dovrà sposarla e non è questo che vuole.

    Lella si alza e si morde le labbra per il dolore, per l’orgoglio ferito e per qualcosa che non riesce ancora a capire; nel vederlo fuggire, si dice che qualunque cosa succeda lei non lo cercherà più. Lui non tornò più, neanche quando nacque la sua bambina.

    Lella, ostinata, rimase silenziosa nonostante l’insistenza dei suoi che volevano sapere chi fosse il padre per costringerlo a sposarla. Lasciò i suoi e il paese, sola, poi con la sua bambina, continuò la sua dolorosa strada tra gli stenti, senza mai chiedere nulla ai suoi e ad Antonio.

    L’unica novità per Antonio a quel tempo fu quella di lavorare a giornata come bracciante e non più come garzone. Un lavoro duro che iniziava dalle prime luci dell’alba e finiva con gli ultimi barlumi di luce al tramonto con il sole che picchiava sulla schiena, o mietendo con la falce i cereali, o zappando la terra insieme con altri, o con il padrone in testa che cercava di andare avanti il più presto possibile, senza un momento di pausa.

    Se poi la natura chiamava, bisognava sbrigarsi a riportare il proprio solco pari agli altri se non si voleva rischiare il licenziamento.

    Una breve pausa a mezzogiorno per un tozzo di pane, spesso duro, qualche volta con poche olive o una briciola di formaggio.

    Era una grande occasione quando insieme al pane c’era una sardina salata; ma il più delle volte era pane e cipolla. Poi si riprendeva a lavorare con il sole che avrebbe cotto un uovo sopra una pietra, o con una pioggerella lenta che inzuppava fino alle ossa; seguiva a sera la lunga marcia a piedi per arrivare in paese e poi a casa.

    Se invece qualche volta pioveva forte, si aspettava che cessasse la pioggia e poi succedevano due cose: o ricominciavano a lavorare, e il tempo di attesa non era pagato, o ritornavano a casa perdendo completamente la giornata.

    La situazione cambiava un po’ nei pochi giorni di trebbiatura quando il padrone alla sera portava da mangiare e del vino; in cambio pernottavano in campagna, e se durante la notte soffiava il vento si alzavano per spagliare il grano.

    Antonio fece il militare nonostante sapesse appena firmare, ma quando nel quattordici cominciarono a tuonare i cannoni, si prospettò la possibilità che a ventinove anni fosse richiamato; gli suggerirono di mettere qualcosa negli occhi e di chiedere la dispensa alle armi; ma gli valse poco, perché fu vicino a perdere l’occhio sinistro, a cui rimase un leggero difetto alla pupilla, e fu richiamato; per sua fortuna venne incorporato alle salmerie.

    Finita la guerra, sposò una donna del suo paese che dopo alcuni anni lo lasciò vedovo.

    Nel ventitré sposò invece una graziosa ragazza un po’ più alta di lui. Una brunetta magra e di quasi tredici anni più giovane, che nel ventiquattro gli diede un bel maschietto, che chiamarono Benedetto.

    Cominciò per Antonio il più bel periodo della sua vita, riuscì a prendere in gabella un pezzo di terra; finirono le mattinate, era lui il padrone e poteva decidere come e quando lavorare. Doveva pagare la gabella. Che i campi producessero una salma di frumento o dieci, la metà era dei proprietari; lui doveva pagare gli operai e le sementi.

    Nel 1927, la famiglia d’Antonio fu allietata dalla nascita di una bimba, Lilla, vispa e paffutella e dai capelli neri come la pece. Erano passati diciotto mesi dalla sua nascita, quando Antonio si prese un grande spavento. Si trovavano a Sant’ Elia, una collina a ovest di Borgomio, e l’aia era colma; durante la giornata, Antonio, un operaio e due muli avevano trebbiato e verso l’imbrunire la moglie era rientrata in paese con la Bambina. Rientrato poi anche l’operaio, rimasero Antonio, Benedetto e il loro cane Leone, un bastardino molto intelligente dal pelo corto e nero.

    La sera padre e figlio, dopo aver cenato, si sistemarono nel pagliaio per dormire mentre Leone si accucciò fuori; verso le due Antonio si svegliò, e accortosi che soffiava il Ponente, lasciò Benedetto addormentato, se ne andò nell’aia e con il tridente cominciò a spagliare il frumento.

    Il piccolo, svegliatosi a sua volta, si guardò intorno e non vedendo il padre uscì dal pagliaio; c’era la luna piena e si vedeva quasi come fosse giorno, ma non riuscì a vedere il padre per colpa della montagna di paglia situata attorno all’aia. Credendo che fosse andato in paese, decise di fare altrettanto.

    Prese il sentiero che portava al torrente (che per nove mesi dell’anno era asciutto) e seguito dal cane si diresse verso Borgomio. Dopo il torrente c’era una casa colonica, i cani cominciarono ad abbaiare e Benedetto a piangere; qualcuno da dentro, al rabbioso latrare, si alzò per vedere cosa stava succedendo e una volta quietati i cani, udì il bambino che piangeva; appena entrato in casa, Benedetto si addormentò.

    Antonio, dopo un paio d’ore e cessato il vento, ritornò al pagliaio e con grande stupore notò che il figlio non c’era; uscì fuori e cominciò a guardare nelle vicinanze, ma non vedendolo cominciò a chiamarlo ad alta voce.

    Fu allora che si accorse di Leone, che sembrava stesse giocando; si avvicinava a lui e abbaiando partiva come una freccia verso il sentiero che portava al paese, per poi tornare a lui nel vederlo immobile. Rivoltosi all’animale, disse forte: «Leone, dov’è Benedetto?». Il cane allora, abbaiando, corse verso il rigagnolo seguito dal padrone. Cominciava ad albeggiare, quando Leone si fermò davanti alla casa colonica a metà collina e ingaggiò con gli altri cani un furioso abbaiare che non poteva essere ignorato dai padroni. I quali una volta usciti, consegnarono il bambino al padre, che tirò un respiro di sollievo.

    La raccolta di quell’anno fu appena sufficiente per pagare le spese. Il peggio fu che nell’anno seguente le piogge arrivarono troppo tardi e il raccolto fu così magro che Antonio rimase nei debiti. La speranza di un buon raccolto nel prossimo anno si rivelò una chimera, le piogge quell’anno non arrivarono per niente.

    Antonio dovette lasciare le terre che aveva a metà e per pagare i debiti fu costretto a trasferirsi con la famiglia in un paese fuori della sua provincia.

    Seguirono anni di stenti e duro lavoro per tutta la famiglia, che ora si era arricchita di un altro membro, Pina, una bimba magrolina arrivata proprio il giorno di Pasqua. Pagati i debiti, una volta che la mamma e la piccina furono in grado di poter viaggiare, ovvero dopo tre anni, la famiglia caricò le poche cose possedute sopra un carretto affittato e prese la via del ritorno per Borgomio.

    Arrivati all’entrata del paese vicino alla stazione ferroviaria, le prime persone che incontrarono furono Giacomo Cirino e Luciano Bertolino, che con una valigia di cartone legata con un filo di spago, il berretto in testa e tristi in volto si avviavano alla stazione per prendere il treno che li avrebbe portati a Palermo e da lì sarebbero salpati per Napoli o Genova e poi per l’America.

    Entrambi erano sposati, ma Giacomo lasciava la moglie e tre figli, due maschietti e una femminuccia. I due conoscevano Antonio fin da ragazzini, Luciano gli disse: «Fortunato te che fai ritorno al paese, noi chissà se lo rivedremo! Chissà se vedrò mai la creatura che mia moglie porta in grembo!». Nessuno dei due aveva voluto essere accompagnato alla stazione dai suoi e aveva preferito abbracciarli un’ultima volta in casa e tenere i sentimenti tra le mura familiari, al riparo da occhi indiscreti.

    Antonio ricominciò a lavorare come bracciante e ben presto in famiglia arrivò un altro figlio cui fu imposto il nome di Alberto.

    .....

    Quel mattino di novembre, i passi della giumenta risuonavano nel silenzio, era ancora buio e soffiava un vento gelido; l’uomo a cavallo, coperto da un ampio mantello il cui cappuccio gli nascondeva il grosso capo e la faccia rozza, accompagnava il movimento ondeggiante della bestia con il suo corpo tozzo tanto da sembrare una cosa sola con l’animale.

    Seguivano a piedi quattro persone, imbacuccate nel loro scialle, per ripararsi dai rigori di un freddo particolarmente intenso a quell’ora del mattino. La luna e le stelle seguivano il cammino del gruppo.

    Don Michele, l’uomo a cavallo, era uscito da casa dalla porta laterale, mentre Rosario, uscendo dalla stalla, gli accostava la giumenta fin sotto gli scalini della porta d’entrata per facilitargli il montare a cavallo. Don Michele issò a fatica il suo corpo tozzo e pesante sulla groppa della giumenta e la avviò, sicuro che gli altri l’avrebbero seguito; prima si era assicurato con le proprie mani che Rosario avesse chiuso per bene le porte. E pensare che era l’operaio di cui a parole diceva di fidarsi di più.

    Sebbene fosse sposato da cinque anni, con una figlia, sua moglie sembrava volerlo rovinare; ogni anno comprava un nuovo vestito che gli costava un tumolo di frumento, poi la moglie, nonostante la figlia fosse una bambina, quanto spendeva per lei spendeva per la piccola e tutte due gli costavano un occhio e poi c’erano gli operai ai quali non bastavano i due chili di pane che già ricevevano.

    Infine c’era quel disgraziato di Rosario; se non gli stava dietro come un cane da caccia, gli avrebbe fatto sparire anche la casa; tutto gentile davanti, ma appena gli voltava le spalle diventava un disgraziato, un cornuto o un figlio di una puttana.

    Ora da qualche giorno aveva quel dubbio,presto ne avrebbe parlato con lo zio avvocato.

    Don Michele, quel mattino, aveva risposto distrattamente al «baciamo le mani» dei suoi braccianti, e una volta a cavallo aveva spronato leggermente la bestia per la ripida viuzza che portava in piazza e si era avviato; il campanile dell’orologio scoccava le sei.

    Attraversata la piazza, costeggiarono la chiesa madre e s’avviarono alla fontana, un tempo molto bella quando ancora nuova oltre i suoi quattro rubinetti, due per ognuna delle piccole fonti ostentava sulla fonte che si trova dirimpetto nell’accedervi lo stemma del duca del paese; alla sua destra vi era l’altra fonte, mentre a sinistra c’era la vasca grande per gli animali, divisa in due da un muretto.

    Il separatorio era fino a tre quarti dell’altezza della vasca e serviva a mantenere il livello dell’acqua. Le intemperie e l’incuria si denotavano dal limo verde depositato in fondo e ai bordi dell’abbeveratoio e dal fango che si accumulava per terra, che dopo il calpestio delle bestie esalava un lezzo quasi insopportabile.

    Don Michele fece bere la giumenta, mentre i suoi uomini riempivano i loro fiaschetti dai rubinetti della fonte principale. Appena la giumenta ebbe finito di dissetarsi il cavaliere, con un brusco strappo alle redini, le fece riprendere la marcia.

    Intanto Rosario, sicuro di non essere sentito da Don Michele, bisbigliava ad Antonio e agli altri braccianti: «Attenzione gioventù il padrone è veramente di mal’umore.

    La strada in terra battuta piena di pozzanghere, a Fontana Amara che era un tre quarti di kilometro più oltre, diventava un acquitrino a causa dell’incostante rigagnolo che scorreva in quel punto, che era il fondo valle tra la collina sopra cui è annidato Borgomio e la collina che gli sta dirimpetto chiamata il Tesoro.

    Una vecchia leggenda racconta che in tempi remoti, non si sa da chi o quando, vi fu seppellita una enorme fortuna, da qui il nome.

    Le bestie avevano scelto quell’acquitrino per fare i loro bisogni. I braccianti, a piedi, cercavano di non infangarsi

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