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I morti non fanno festa
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I morti non fanno festa

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Seppellire il passato non è mai facile. Neanche per il liberto Lart, l’imbalsamatore di cadaveri già protagonista dell’avventura Quel che è di Cesare, ambientata nell’antica Roma. Una lettera disperata da parte del suo ex padrone Giusto lo costringe infatti a ritornare in Etruria e a riaprire ferite mai rimarginate del tutto. La morte del piccolo figlio Corvino, che vent’anni prima aveva spinto l’ex schiavo a trasferirsi a Roma nel tentativo di dimenticare un così grande dolore, non è accidentale come sembrava. E nel frattempo l’assassino ha ripreso a uccidere, quasi per onorare con un macabro rituale i Parentalia, la festa dedicata ai defunti iniziata da poco. Lart si trova, suo malgrado, coinvolto in una inquietante catena di delitti; per spezzarla dovrà fare luce su terribili segreti che riguardano anche la sua storia personale, in modo da concedere finalmente ai morti la pace che meritano.
LanguageItaliano
PublisherAlter Ego
Release dateJan 21, 2019
ISBN9788893331371
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    I morti non fanno festa - Massimo Blasi

    più.

    PROLOGO

    "I Mani esistono: la morte non estingue tutto,

    e la pallida ombra sfugge al vinto rogo".

    (Properzio, Elegie, IV, 7, 1-2)

    Roma,

    Kalendis Februariis 711 Ab Vrbe Condita

    (1 febbraio 43 a.C.)

    Gneo Nummio Giusto

    saluta

    Gneo Nummio Lart Nigidiano

    "Per la verga di Priapo! Sono vent’anni che inventi scuse su scuse, ma ora basta: trascorrerai i Parentalia qui da noi, punto. Servilia dice che non c’è occasione più adatta della festa dei morti per rivedersi e io sono d’accordo con lei, come sempre (d’altra parte, provaci tu a non esserlo con mia moglie!). Così avrai anche modo di festeggiare mio figlio Mallio, si sposa con una tipetta… ma mi dirai quando la vedrai coi tuoi occhi. S’è fatto un giovanotto robusto come lo ero io e bello come sua madre. Tu pensa, però: mi è diventato un topo di biblioteca! In questo somiglia a te… non è che, tanto tanto, hai giocato all’auriga con la mia dolce metà, eh? Per il ciondolone di Zeus!

    C’è poi, caro mio, una questione della massima delicatezza, ma preferirei parlartene di persona, a bassa voce e lontano da sguardi indiscreti: questa villa ha occhi di aquila e orecchie di volpe…

    Quel che invece posso dirti fin d’ora è che sto morendo. Proprio così. Da diverse settimane mi trovo a letto spossato e dolente, altro che i reumatismi di cui si lagna Servilia!, e, come se non bastasse, la malinconia mi sta letteralmente divorando. C’è poco da dire: mi preparo a salpare per l’ultimo viaggio. Non rattristarti. Ho vissuto, sono vecchio. Chiedo solo di morire sereno. Ma per questo ho bisogno del tuo aiuto… come t’ho scritto, ne parleremo una volta che sarai arrivato. Inutile fare quella faccia, mi sa proprio che ti toccherà. E non alzare gli occhi al cielo, ché ti ci caga dentro un fringuello! Sono sicuro, d’altra parte, che preferirai aiutare il tuo ex padrone piuttosto che presentarti in tribunale per omissione di soccorso… Dico bene?

    Porgi i miei saluti alla Signora e muovi il culo!".

    Lart fece per alzare al cielo gli occhi azzurri e lievemente cerchiati, quando ripensò al fringuello e si trattenne. Arrotolò l’epistola e rimase a fissarla in silenzio. Era un papiro giallino, ruvido al tatto e dai bordi irregolari, sul quale si intravedevano alcune deboli tracce di cancellatura. Per certi aspetti, somigliava al suo proprietario, un uomo come ce ne sono molti nelle campagne, pragmatico, duro, concentrato solo sul lavoro e sulla produzione, con la pelle graffiata dal sole e dal vento, senza peli sulla lingua e del tutto indifferente alle buone maniere.

    Anche quell’anno era arrivata una sua lettera, puntuale come l’ultima ora. Andava avanti così da quando s’erano detti addio una ventina d’anni prima nel silenzio del cubicolo, spezzato solo dal crepitio del fuoco e dalla pioggia che picchiettava sul tetto. Si erano fissati a lungo e ciascuno aveva riconosciuto sul volto dell’altro i segni del disfacimento che Fato imprimeva a chi amava torturare. Ma bisognava voltare pagina. Era quanto Lart si proponeva di fare da molto tempo. Eppure quella singola pagina sembrava pesare davvero troppo per le sue fragili dita.

    Era abituato a ricevere notizie dall’ex padrone e in genere se la cavava con la solita epistola di circostanza nella quale lo ringraziava del pensiero e accampava una scusa per non andare, una qualunque, purché fosse abbastanza buona da risultare credibile. Stavolta, però, Giusto lo aveva messo con le spalle al muro, insistendo come mai prima di allora. E a Roma la legge è legge. Scappare non si poteva, soprattutto se Giusto era davvero in fin di vita.

    Il solo pensiero angosciava Lart. L’ex padrone era una di quelle persone che si è portati a credere immortali o quanto meno che si immagina a letto, circondate da figli e nipoti, mentre sulla soglia dei cent’anni si abbandonano all’ultimo sonno. Ma Giusto non aveva raggiunto il secolo. Era ancora presto per lui.

    In più, c’era quell’altra cosa, alla quale il vecchio aveva solamente accennato:

    C’è poi, caro mio, una questione della massima delicatezza, ma preferirei parlartene di persona, a bassa voce e lontano da sguardi indiscreti: questa villa ha occhi di aquila e orecchie di volpe….

    Di cosa poteva mai trattarsi? La vita era talmente calma, laggiù, che l’unico rischio era morire di noia. Tirò un lungo sospiro e sbuffò: era tutto così complicato da qualche tempo.

    «Caro, che dice?». Licinia era riuscita a seguire l’alternarsi delle espressioni sul volto del marito senza smettere di pestare al mortaio le erbe per le polpette all’omento. Di tanto in tanto si fermava e domava col dorso della mano una ciocca ribelle che le ricadeva sugli occhi. È bella, pensava Lart ogni volta che la vedeva. Anche se aveva superato la quarantina, Licinia rimaneva una gran bella matrona, le curve morbide del corpo, i seni generosi, le gambe snelle e il viso impreziosito da grandi occhi scuri e labbra carnose, sulle quali l’uomo amava soffermarsi con lunghi, lenti baci.

    «La solita lettera di Giusto».

    «Solita? Non mi pare proprio. Ti sei visto?».

    Lart le porse il rotolo di mala voglia e Licinia fece scorrere gli occhi sui bei tratti vergati al calamo, senz’altro opera di Servilia. Quando ebbe terminato, riprese a cucinare come se niente fosse, versando il battuto in una coppa con pepe e pinoli. Il marito rimase in attesa di una risposta. Poi sbuffò e chiese:

    «Allora?».

    «Allora cosa?».

    «Allora che ne pensi».

    «C’è poco da pensare. Lo farai. Niente ma, niente se! Il tuo ex padrone sta morendo e devi andare. Non puoi rischiare una denuncia. Ci manca solo quella, con tutte le spese che abbiamo! Mi passi il sale?».

    Lart si alzò di scatto, spingendo indietro la sedia: «Come il letto nuovo che hai voluto, rifinito in legno e imbottito?».

    «Mi pare che ci dormi anche tu, e pure benone. Sentissi come russi! E poi, scusa, ma che altro vorresti fare? Sta morendo, Lart. Mi occorrono altri pinoli, mannaggia».

    Il marito lasciò correre lo sguardo fuori dalla finestra della cucina: i campi d’inverno, gli alberi spogli e uno stormo di uccelli sembravano chiamarlo. Doveva uscire, restare lì dentro gli era diventato insopportabile. Era una sensazione che lo assaliva sempre più spesso da quando aveva rivisto Ramtha l’anno prima. Al pensiero dell’amica, calda e morbida fra le sue braccia, gli parve di scorgerla: camminava lontana fra i salici, nella fredda campagna… era davvero lì? Avvertì un tuffo al cuore e si stropicciò gli occhi, ma la donna già non c’era più e di lei non restava che un solitario turbine di foglie secche. Doveva smetterla di sognare a occhi aperti, si rimproverò. Anzi, di sognarla. Lo sguardo si posò sulla villetta della suocera e gli venne un’idea. Avrebbe sempre potuto scrivere a Giusto che la vecchia Lelia stava male, molto male. In fondo, sarebbe stata solo una mezza bugia. Lelia, la vipera come la chiamava, sembrava parecchio giù di corda da qualche tempo. Si sarebbe detto che soffriva di tristezza e sotto sotto gli dispiaceva non vederla cattiva e pungente come al solito.

    «Mamma non si tocca» lo ammonì Licinia con entrambe le mani sui fianchi. «A meno che tu non stia pensando di darle una bella riverniciata alla casa, ma ne dubito fortemente, data la faccia che hai…».

    «Che faccia?» le domandò Lart, cercando di controllarsi nel riflesso di una bacinella d’acqua.

    «Sinistra».

    Pizzicato, tornò a sedersi e prese a giocherellare con la saliera.

    «Tesoro, ascoltami» continuò Licinia, togliendogliela dolcemente di mano e stando bene attenta a non rovesciarne il contenuto, «credo che questa volta dovresti andare e non, bada bene, per la minaccia di Giusto né, se posso, perché potrebbe essere l’ultima occasione che hai di rivederlo, ma per un’altra questione. Non mi riferisco a quella di cui scrive lui, ma a tuo figlio. Lo so, lo so, è una storia che non ami raccontare, ma… ma sta lì, dentro di te, da troppi anni per poterla continuare a ignorare. Dovresti affrontarla e questo invito potrebbe costituire l’occasione per…».

    In un attimo Lart imboccò la porta e uscì. Non aveva voglia di parlare di quella storia, di riposare gli occhi su quella maledetta pagina della sua vita che non riusciva a voltare.

    Fortunatamente una volta in strada venne subito inghiottito dal chiasso dell’Aurelia. Lo stridere dei carri e le voci dei contadini diretti ai mercati della Capitale o di ritorno alle loro case gli riempirono le orecchie. Parlavano tutti delle solite cose, di come il raccolto ogni anno desse meno e la crisi costringesse ad abbassare i prezzi, ma con quell’allegria degli uomini di campagna che con una coppa di vino e una scrollata di spalle possono far fronte a qualsiasi problema. Avrebbe dovuto prendere esempio da loro, si disse, ma sapeva di essere fatto di un’altra pasta, purtroppo per lui. Svoltò quindi per un orto con cespugli di verdura ordinatamente disposti lungo stretti filari. C’era solo una persona che aveva voglia di vedere e sperò di trovarla in casa. Bussò.

    «Becchino!» esclamò l’amico nell’aprirgli la porta.

    «Api, Lart è un libitinario. E non abbracciarlo così forte o lo stritolerai!».

    «Sacre parole, Agathe» mormorò Lart, rosso in volto e senza fiato, mentre Apiciccio allentava la stretta.

    «Mica è un mingherlino, eh! Eccoti del mulsum, buono solo come puoi trovarlo da me» gli annunciò l’omone, trionfante.

    Agathe si avvicinò per versargliene una coppa. Era una donna ancora bella, malgrado il peso degli anni. Il viso delicato era incastonato in una chioma nervosa dai riflessi corvini.

    «Ma dai, ci penso da me, sta’ comoda».

    «Hai forse dimenticato dove lavoro, Lart?».

    Certo che no, pensò lui. Come dimenticare il Par Impar, il thermopolium migliore di Roma, dove con un lancio ai dadi si ritrovava il sorriso anche nei giorni più bui?

    «Questa casa ha finalmente quello che le mancava: il tocco di una donna» rispose facendole l’occhiolino e indicando un’anforetta traboccante di fiori di campo essiccati.

    Apiciccio scoppiò in una fragorosa risata: «Che spirito d’osservazione il nostro amico, eh!» e ingollò un fico in salamoia.

    «Be’, modestamente ho risolto io il mistero del fantasma di Cesare» ribatté Lart, ma si morse subito la lingua. Sapeva quanto l’amica soffrisse per quello che era accaduto l’anno prima. Malgrado il corpo del figlio non fosse mai stato ritrovato – chissà dove lo aveva nascosto il Fantasma! – la donna non nutriva dubbi sul fatto che fosse morto e aveva trascorso mesi immersa in una disperazione che soltanto adesso sembrava cominciare ad attenuarsi.

    «E… Licinia come sta?» chiese Agathe, con un sorriso che doveva esserle costato uno sforzo non indifferente.

    «Lei benone. Sono io che non la reggo più. Sta organizzando una cena tutti insieme da noi». Apiciccio grugnì di gioia. Il gigante dal viso rubizzo e i tratti bovini conservava ancora quell’innocenza propria dei bambini. «Comunque, solo dopo la festa dei morti...» continuò Lart. Festa dei morti… Aveva pronunciato quelle parole con lentezza eccessiva.

    «Qualcosa non va?» gli domandò Agathe, sedendoglisi accanto e prendendogli una mano fra le sue. Negli occhi le si leggeva la dolcezza di chi conosce il dolore.

    Mannaggia a me che ci sono pure venuto, si rimproverò Lart mentre percorreva a passo svelto la carraia, di ritorno verso casa. «Dovresti andare» l’aveva esortato Agathe. C’era poco di cui stupirsi: adorava la sua ex padrona, lei. E Apiciccio, pur di non contrariarla, si era limitato a farfugliare qualche parola indistinta, simile al borbottio della pentola che stava sul fuoco.

    «Avrei fatto meglio a non aprire quella maledetta lettera!» esplose il liberto, quando un cavallo lanciato al galoppo per poco non lo travolse. Era diretto a nord e, a giudicare dalla veste del messo che lo cavalcava, doveva trattarsi di un corriere del Senato inviato a Mutina dai consoli Irzio e Pansa. La guerra contro Marco Antonio era scoppiata da appena un mese e già gli eserciti della Repubblica e dei ribelli si affrontavano nelle nebbiose pianure della Gallia Cisalpina.

    Confondendosi con il lento fiume di gente, si sentì uno sciocco e la cosa non poté che irritarlo, lui che ci era poco abituato: davanti a una guerra che importanza poteva avere la lettera di Giusto? C’erano persone che morivano lassù, giovani che non avrebbero mai più goduto del calore di un abbraccio e che Ade attendeva con la sua notte senza fine. E lui si lagnava del consiglio di Agathe? Era davvero uno sciocco, allora.

    Si sforzò di sorridere, nel tentativo di convincersi che i problemi, quelli veri, fossero altri. L’effetto, una subitanea illusione di felicità, s’involò con la stessa rapidità con cui si era posato sul suo capo e presto Lart si ritrovò scontento come prima, se non di più. Non c’era niente da fare, era nella natura umana essere infelici. Come Lelia, pensò nello scorgerla seduta sulla panchina del loro giardino e intabarrata in una spessa mantella di lana.

    C’era qualcosa in lei, però, che faceva intuire come la sua infelicità fosse più profonda. Era come se la suocera, diversamente da lui, avesse rinunciato a combattere, a reagire. La schiena curva, le labbra ai lati piegate all’ingiù, l’immobilità la rendevano più simile a un ricordo che a una persona in carne e ossa. Nelle interminabili serate trascorse a intagliare il legno alla luce del focolare, Lart aveva finito col giungere a una spiegazione: la vipera soffriva di nostalgia. Nostalgia per il suo vecchio appartamentino dietro la Basilica Emilia e per quel lavoro che tanto amava e che era stata costretta ad abbandonare, quando la figlia e il genero l’avevano portata con loro nel Suburbio.

    Al tempo in cui viveva nel cuore di Roma, Lelia si divertiva come una matta nella trattoria di un giovane cuoco, poco più di un ragazzino, tanto gentile quanto inesperto, che vedendo in lei una preziosa alleata, le lasciava sperimentare piatti che di certo, adesso, non potevano essere preparati nel modesto angolo cottura della villetta che una volta era appartenuta a Rufo e a sua moglie, due cari vicini. Benché Lart apprezzasse quell’insolita tregua – di battutine sul suo lavoro ne aveva le tasche piene, e non solo le tasche! – in fondo vederla così lo rattristava.

    «Vi godete l’aria del mattino?».

    «Fa freddo» rispose l’altra, con voce da sepolcro.

    «E già… è febbraio. Sentite, che ne direste di una gita fuori porta?».

    La vecchia, il viso tondo e rugoso, fece secca: «Siamo già fuori porta, mi pare».

    Decisamente il problema era il trasloco in campagna. Ma l’appartamento in città costava caro e soldi per pagarlo non ce n’erano.

    «Intendevo un viaggetto. Siamo stati invitati a trascorrere i Parentalia a casa del mio ex padrone».

    Stavolta la vipera si voltò: «Fammi capire, chiami viaggetto passare la festa dei morti a casa di una persona che non conosco, per piangere defunti che non so neppure chi siano? Annamo bene, annamo!».

    Il genero arrossì. In effetti, per una donna giù di corda non era proprio l’ideale. Si schiarì la voce e riafferrò il timone, anche se la nave andava per i fatti suoi e il mare era chiaramente in tempesta. Come sempre, con Lelia.

    «La tenuta è magnifica e ci sono persone nuove che Licinia e io crediamo possa farvi piacere incontrare…».

    Alla menzione della figlia, Lelia si ammansì: «E verrà anche quel fesso del tuo schiavo?».

    Silvius. L’intesa fra loro era qualcosa d’incomprensibile per Lart: confabulavano, se la ridevano e il liberto sospettava che, alle sue spalle, fossero complici. Si affrettò a rassicurarla e Lelia grugnì. Significava che sarebbe venuta. Quindi tornò alla contemplazione della sua amata Roma con lo stesso sguardo che Ulisse doveva avere quando pensava a Itaca.

    «Ero certa che avresti preso la decisione giusta» gli fece Licinia, abbracciandolo e porgendogli una polpettina. «Stai su! Vedrai che andrà bene!». Con le dita gli sollevò i lati della bocca e lo baciò.

    In quel momento Silvius fece capolino dalla stanza accanto: «Qualcuno ha visto il mio pettine? Ah! Scusate, non sapevo che foste in dolce intimità!». Sul viso pienotto si allargò un sorriso asinino e il naso a tubero parve avvampare.

    «Alla dolce intimità abbiamo rinunciato un brutto giorno di tanti anni fa» replicò Lart. «Comunque, il mio pettine» riprese «è al suo posto, dove mi aspettavo di trovarlo anche ieri e ieri l’altro. Faresti meglio a portarlo, perché stiamo andando in un posto molto ventoso».

    «Baia? Capua?».

    «In Etruria. A casa dei miei vecchi padroni. Passeremo insieme la festa dei morti. Pioverà, piove sempre lassù. Portati anche un mantello bello caldo e inizia a preparare i bagagli. Poi va’ a cercare un carro da prendere in affitto».

    «Cos’è quella faccia? Sorridi, Silvius!» gli fece Licinia, sollevando anche a lui i lati della bocca.

    «’he ’ello, ’ono ’oprio ’on’en’o».

    GIORNO UNO

    viaggio

    "Ci piace riguardare più volte verso l’Urbe

    vicina, e seguire il profilo dei monti

    con la vista che si perde nella lontananza".

    (Rutilio Namaziano, Il ritorno, 189-191)

    Roma – Etruria

    Pridie Idus Februarias

    (12 febbraio)

    1. l’uomo che veniva dal passato

    Silvius guardò il padrone e incrociò le braccia: «Sono sicuro sì che sia un carro, che domanda! Ha quattro ruote ed è tirato da due cavalli. Cos’altro dovrebbe essere?».

    Lart girò attorno al veicolo e lo esaminò attentamente. Più l’osservava e più gli ricordava uno di quei pesanti mezzi utilizzati per i cadaveri: basso, massiccio e con una panca posticcia, prova inconfutabile di un suo successivo adattamento al trasporto di persone. Vive.

    «E quanto mi è venuto a costare?».

    «Dieci denari tondi tondi».

    «E meno male che non erano quadrati! Te l’ha rifilato Tullio a Porta Latina, scommetto».

    Silvius abbassò gli occhi.

    «Ma perché ti ostini ad andare da lui?! Ci detesta!».

    «Lo so, è solo che... la figlia è una delizia, una mela rossa, una perla di rugiada da assaporare sulla punta delle labbra, una fonte pura in cui...».

    «… affogare. Tu sei uno schiavo, lei una libera: non dimenticarlo mai. E in più, il mestiere che fai non ti è certo d’aiuto per ingraziarti uno come Tullio. I becchini non piacciono».

    Il servo assestò un calcio a una ruota e il carrozzone scricchiolò di rimando.

    «Voi e la padrona, però...».

    «Mia moglie è un’eccezione. Pensa piuttosto a sua madre: ti sembra che mi abbia mai accettato? Eppure ne sono passati di anni, eccome».

    Lelia non aveva mai mandato giù il matrimonio della figlia con un libitinario. Lui e Licinia avevano fatto di tutto per non essere scoperti, ma da subito Lelia aveva fiutato la verità, nel vero senso della parola: levando il muso come un segugio e annusando. Era stato l’odore dell’incenso a tradire Lart: a parte rari mercanti che commerciavano con l’Oriente, solo quelli che lavoravano coi cadaveri se lo trascinavano dietro rassegnati.

    «Siamo pronte» annunciò radiosa Licinia, uscendo di casa insieme alla madre, che lanciò uno sguardo perplesso a quel mezzo insolito.

    Certo del fatto che se ne sarebbe tornata a casa se solo avesse sospettato chi erano i passeggeri che per lungo tempo vi avevano viaggiato, il genero fece finta di niente e continuò a combattere con le dispettose cinghie di un baule.

    «Salite che si parte. Cleopatra!».

    La gatta emerse da un cespuglio e balzò sul carro, con somma gioia della vipera che, vedendo nell’animale l’incarnazione della scalogna, si abbandonò a scongiuri di ogni sorta, mentre il piccolo felino, ignaro di tutto e acciambellato tra i bagagli, se ne stava a guardare casa sua farsi sempre più piccola fino a sparire tra gli alberi.

    Lungo l’Aurelia alti querceti, verdi colline e vivaci corsi d’acqua si susseguivano in un fregio continuo che riempiva gli occhi di bellezza. Appena dopo un ponticello di pietra la strada prendeva a salire e a costeggiare il mare increspato di onde bianchissime. Licinia gridò per l’eccitazione, quando scorse una famiglia intenta a fare un’offerta presso un altare. Erano in quattro, stretti in vesti gonfiate dal vento, dritti in piedi contro un cielo venato di nuvole.

    «Caro, possiamo accostare anche noi?».

    «Una cosa veloce, se posso chiederti. Non vorrei tardare e la strada è lunga» la pregò il marito. In realtà, dato che il carro di Tullio non era certo dei più confortevoli, avvertivano tutti un disperato bisogno di sgranchirsi le gambe, anchilosate e dolenti quanto i loro fondoschiena.

    Lart ne approfittò per avvicinarsi a un costone di roccia battuto dai flutti e godersi il mare d’inverno. Diverse decine di piedi più in basso, i cavalloni si inseguivano in una corsa senza vinti né vincitori, schiumando e spargendo all’aria una vaporosa pioggerellina di schizzi.

    «Lodano tanto le province, ma la nostra Italia è proprio un gioiello». A parlare era stato un uomo di mezza età con un’espressione gioviale dipinta sul volto.

    «Lo dico sempre anch’io. Dove siete diretti?» domandò Lart, appoggiandosi al muretto che costeggiava la strada.

    «In Cisalpina. La famiglia di mia moglie vive lì. Ci aspettano per i Parentalia. Non è proprio il momento migliore, con la guerra a Mutina e tutto il resto, ma il dovere chiama. E voi?».

    «Noi ci fermiamo in Etruria, vicino Caere. Stesso motivo».

    L’uomo si strinse nel mantello e guardò lontano: «Ci siamo stati l’anno scorso. Un luogo meraviglioso… Si avverte la presenza di un qualche antico dio assopito fra le colline. Forse Bacco, con tutto il vino che fanno! Oppure, chi lo sa, Charun, il traghettatore dei morti» scherzò. «Sono sua moglie e sua madre le matrone laggiù?».

    «Mia moglie e mia suocera. Mia madre non l’ho mai conosciuta. Sono nato schiavo».

    «Eh, anch’io. Però mi è andata bene,

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