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Find your wings
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Find your wings

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Lecco, luglio 2013: sono i giorni in cui si inizia a sentire l'afa dopo un giugno climaticamente anomalo, la Trinacria di Acquate cerca di conquistarsi in un sondaggio online la palma di miglior gelateria d'Italia ed Irene, una giovane violinista per certi aspetti un po' eccentrica, ritorna nella città in cui ha vissuto la propria infanzia. E' qui che la sua storia si sdoppierà in quella di Irina e si incrocerà con quella di Mattia, portando a galla numerosi interrogativi sul presente e sul passato: perché il padre la portò a Torino, appena finito l'asilo? Perché il maestro che ha riaperto la scuola abbandonata di San Giovanni ha quell'aria così famigliare? Chi è la terza persona cui ogni sera Irene scrive un messaggio identico a quello che invia al genitore ed al proprio psicologo? Che cos'ha da dirle il giovane sconosciuto dalla risata argentina? Perché la bidella parla con tutti, tranne che con lei? Qual è il motivo per cui, passeggiando tra Rancio e Laorca, non può fare a meno di avvicinarsi a cimiteri e vecchi edifici?
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJan 18, 2019
ISBN9788827866641
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    Find your wings - Linda Spandri

    ali

    Capitolo 1: RITORNO A LECCO

    Si era lasciata Torino alle spalle per un po’ e, come ogni anno, era tornata a Lecco, dove era nata, dove ancora c’era la casa in cui aveva vissuto i primi anni della propria vita, dove ancora aveva tanti ricordi, anche se forse erano più numerosi quelli che aveva dovuto lasciar andare.

    Era arrivata con il treno e, una volta uscita dalla stazione, aveva percorso Corso Matteotti ed oltrepassato l’incrocio con Via Tonale, trascinandosi dietro con la mano destra un trolley color petrolio che sembrava reduce da svariate battaglie e tenendo ben salda nell’altra mano la custodia rigida che conteneva il violino.

    Irene proseguiva svelta nell’aria afosa di quel primo pomeriggio d’inizio luglio, dirigendosi verso San Giovanni. Rallentò soltanto in prossimità di una curva accentuata, sulla destra della quale sorgeva un edificio verde. La piastrellina con il numero civico 34 era ancora ben leggibile al di sopra del citofono moderno, di aspetto recente, con quattro campanelli, sulla destra della porta. Eppure, i fili da bucato alle finestre del secondo piano che penzolavano scuri, un davanzale semi-sgretolato al primo piano, il vetro rotto e le saracinesche arrugginite a pianoterra testimoniavano che il casamento dal colore ormai smunto doveva essere stato abbandonato da diverso tempo. Irene si era fermata ad osservarlo più attentamente, come faceva ogni volta: i sintomi del degrado si erano aggravati, rispetto all’anno precedente. Rimase pensierosa, per un attimo, poi riprese il cammino lungo il bordo dello stradone: dall’incrocio dove sorgeva casa sua la separavano solo centonovantanove passi, non uno di più, non uno di meno.

    Li aveva contati, anni prima; contava tutto, in quel periodo. Suo padre le aveva consigliato di parlare con lo psicologo, che la seguiva da tempo, di una tale, seppur innocente mania. Il dottor Sergio Altimari, però, un uomo affascinante sulla cinquantina, con i capelli ondulati e grigi e gli occhi azzurri sempre sereni, per tutta risposta le aveva suggerito di mandarci il padre, a parlare con uno psicologo: forse, prima o poi, avrebbe così smesso di attribuirle tutti i problemi possibili ed immaginabili.

    Per certi versi, lo specialista aveva ragione. Il padre di Irene, imboccato dalle due sorelle che lo avevano aiutato a crescere quell’unica figlia, la cui madre era morta di parto, aveva passato anni accompagnandola dalla dottoressa Maniscalco prima e dal dottor Altimari poi, nella speranza di risolvere impalpabili problemi che erano, secondo lui, espressione del dolore e del disagio provocati dall’assenza precoce della madre. Lo psicologo, in realtà, catalogava i dubbi di quel brav’uomo come proiezioni di quello stesso dolore e disagio che lui, e non la figlia, non aveva mai rielaborato e superato.

    Sicuramente, poi, Irene era una ragazza particolare, tant’è che lo psicologo aveva continuato a tenerla d’occhio (con motivi differenti, in effetti…) anche dopo averla dimessa, appena maggiorenne, cinque anni prima. Mostrava comportamenti curiosi, singolari, è vero, ma in continua evoluzione e, di fatto, era perfettamente integrata nella propria realtà sociale. Si era diplomata al liceo linguistico con il massimo dei voti, per poi dedicarsi in Conservatorio allo studio del violino. Faceva tutte le cose tipiche delle sue coetanee. Più alcune altre, decisamente non così tipiche. Col tempo aveva smesso di contare i passi, così come molti anni prima aveva smesso di arrabbiarsi con i bambini che non volevano far giocare quello che sembrava essere il suo amico immaginario. Il dottor Altimari sapeva che, però, ancora appendeva campanelli e sonagli in tutte le stanze. Era l’unico cui la ragazza avesse confidato il motivo. Altra sfaccettatura particolare era l’interesse per gli edifici vecchi ed abbandonati e per i cimiteri, di cui Irene scriveva lunghe, accurate e minuziose descrizioni. Quest’ultimo aspetto, per la verità, aveva inizialmente allarmato lo psicologo, che però non aveva riscontrato tendenze suicide, né una qualsivoglia ossessione per la morte: era, anzi, un tema che la ragazza affrontava con una certa serenità, un tantino onirica, forse.

    Centonovantanove passi la condussero silenziosa all’incrocio con Via Agliati. Gettò uno sguardo come d’abitudine, alla lapide che cinque anni prima era stata posta sul lato sinistro della strada, appena oltre la pensilina del bus cittadino, dove si fermavano la linea 1 e la linea 7. Era una marmetta che ricordava un momento tragico di quella località, Cavalesine, attraversata un tempo dalla linea tramViaria: nel 1943, undici giorni prima del Natale, un deragliamento aveva causato la morte di altrettante persone. Irene la fissò per qualche istante, indecisa se pensarci oppure no, poi bruscamente attraversò la strada, svoltò a sinistra ed oltrepassata l’agenzia immobiliare s’infilò nel portone della palazzina rosa, il condominio Cavalesine, al numero civico 15. Era arrivata.

    Salì nell’appartamento, uno dei dieci che trovavano posto nell’edificio, aprì le imposte e sistemò il trolley ed il violino in camera. Si buttò sul letto per riposare un attimo, giusto mezz’oretta: si era svegliata piuttosto presto, quella mattina.

    *****

    Quando si risvegliò, impiegò qualche istante, nella penombra, per realizzare come mai la luce non filtrasse dalla finestra nella posizione abituale e l’aria avesse un odore diverso dal solito. Era a Lecco, ricordò poi.

    Si stiracchiò, si alzò ed aprì le imposte. Indugiò pigramente ad osservare le automobili ferme al semaforo, fuori dal cancello de La Nostra Famiglia. Strinse gli occhi, come a voler mettere a fuoco un’immagine, e cercò di figurarsi come poteva essere l’edificio prima di diventare una struttura riabilitativa, quando ancora era la dimora del cavalier Sangregorio. Una famiglia Sangregorio viveva ora in una villa poco distante da lì. Chissà se erano i discendenti del cavaliere? E chissà lui, com’era stato? Mentalmente, Irene collocò nel giardino (dal quale, sempre mentalmente, aveva cancellato la statua del beato Luigi Monza) un uomo distinto, dal passo rigido ed impettito, con lo sguardo arcigno e le labbra strette in una linea sottile, diritta e breve: indossava un completo scuro, no, più precisamente color antracite, aveva i capelli bianchi, ben pettinati, e camminava appoggiandosi ad un bastone che culminava in una testa canina d’argento, per mero vezzo.

    Dio, quant’era antipatico! pensò Irene, con una smorfia. L’uomo altezzoso si dissolse, insieme al semaforo, e dalla porta d’ingresso della villa la ragazza fece uscire un omino con la coppola, che indossava pantaloni di velluto a coste, marrone chiaro, ed un panciotto scamosciato sopra la camicia a quadrettini bianchi e verde abete. Borbottava ridacchiando e si trascinava puntellandosi ad un bastone da passeggio.

    Questo cavalier Sangregorio è decisamente più simpatico, dell’altro… constatò Irene sbattendo le palpebre, mentre anche per lei l’edificio dirimpetto tornava ad essere la sede de La Nostra Famiglia. Cercò il cellulare nella propria borsa e soltanto allora si rese conto di aver dormito per tutto il pomeriggio: erano le 19:17. Ebbe voglia di fare una passeggiata, ma escluse di scendere in centro per mangiare qualcosa. D’altro canto, però, il frigorifero era chiaramente vuoto e lei avvertiva un certo languorino, come un formicolio discreto allo stomaco. Il senso di fame venne per un attimo spazzato Via da un’idea che le balenò in testa, all’improvviso, e alla quale Irene rinunciò subito: percorrere Corso Monte Santo, fino in fondo, per svoltare a destra in Via Varigione prima ed in Via Don Luigi Monza poi, per un totale di quattrocentosettantuno passi. Avrebbe avuto tutto il tempo per farlo, nei giorni seguenti. Quella sera c’era qualcosa di meglio da fare, per sedare la fame e l’afa: ci voleva un gelato.

    Andò in bagno, fece pipì e si lavò la faccia e le ascelle. Tornò in camera, si cambiò la maglietta, indossandone una color giallo tenue, scollata, dal taglio morbido, sopra la gonna di jeans che sfiorava il ginocchio, poi afferrò la borsa ed uscì dall’appartamento, chiudendo la porta con due mandate. Salutò con un cenno un ragazzino allampanato che incrociò nel cortile, con la chitarra ed uno zainetto rosso sulle spalle. Chissà se veramente aveva con sé una chitarra, in fin dei conti, o se era solo la custodia vuota. Magari la usava per trasportarci qualcos’altro. Fiori. Droga. Attrezzi da cantiere.

    Ridiscese lungo la strada percorsa nel primo pomeriggio, che ora risultava più trafficata. Non degnò di uno sguardo, stavolta, la palazzina verde abbandonata, ma passò oltre e all’incrocio svoltò in Via Tonale. Camminava svelta. Si era ricordata di una piccola gelateria artigianale che aveva scoperto per caso l’anno precedente. Certo, era un po’ fuori mano per lei che si muoveva a piedi, essendo collocata in un altro rione, ma ne valeva la pena. Si fermò sul ponte che attraversava il torrente Caldone, con l’attenzione catturata da un airone cinerino che sembrava rinfrescarsi le zampe ai piedi della cascatella, poi imboccò la salita dei Bravi che portava alla piazza della chiesa di Acquate. La piazza, in realtà, era intitolata a Don Abbondio, così come ciascuna delle vie e viuzze circostanti richiamava un personaggio dei Promessi Sposi: Lucia, Don Rodrigo, Attilio, Perpetua, Agnese, Renzo… e poi ancora, Ferruccio, Tonio e Gervasio… Irene, però, cercava Via Don Minzoni: lì c’era la gelateria-pasticceria Trinacria. Quando vi entrò, il titolare –un ragazzone occhialuto dal sorriso aperto- stava chiacchierando con una giovane di chiara provenienza orientale:

    - …e quindi sono lì dietro, quegli altri due, un padovano e poi uno di Salerno che solo oggi ha macinato qualcosa come duecento voti… ma per stasera siamo ancora in testa noi! Ed è solo il 4 luglio! Oh, buonasera!

    - Ciao. Do un’occhiata ai gusti…

    - Ciao, Marco, ora devo andare. Ci vediamo domani ad allenamento – si accomiatò, intanto, la ragazza orientale, salutando anche con un gesto della mano.

    - A domani! E ricordati di votare ancora, mi raccomando!

    - Certo, certo, io voto, voto! – sorrise lei, mentre usciva.

    Irene, nel frattempo, aveva deciso: si fece fare una coppetta con bacio di Lecco, lava e lapilli, pistacchio di Bronte. Insieme allo scontrino, il gelataio le allungò anche un bigliettino giallo, quadrato, poco più grande di un francobollo, e le spiegò:

    - Non so se conosci il sito gastronauta.it…. Hanno indetto un sondaggio on line per votare la migliore gelateria d’Italia e partecipiamo anche noi. Da ieri siamo in testa! Si può votare una volta al giorno, fino al 26 luglio. Se ti è piaciuto questo gelato, sul fogliettino c’è scritto come fare per votarci.

    - Ok, senz’altro!

    - Ah, così sulla fiducia?

    - No, no… sono già venuta l’anno scorso, mentre ero in vacanza qui, e se vengo da te a prendere il gelato, a piedi da San Giovanni, è perché merita!

    - Allora ci conto! Buona serata!

    - Buona serata a te.

    Irene uscì dalla gelateria. Leccando il proprio gelato s’incamminò nuovamente, a passo lento ed un po’ stanco, verso casa. Si fermò di nuovo sul ponte a guardare il Caldone, poi riprese la Via. Il percorso le parve molto più breve che all’andata. Salì nell’appartamento, accese il portatile dopo aver collegato l’alimentatore, si connesse ad internet. Seguì le istruzioni riportate sul bigliettino datole dal gelatiere e votò. Aprì la posta elettronica, cercò la mail per confermare la propria preferenza. Poi controllò velocemente il resto della posta ricevuta, senza trovarvi nulla di degno di nota.

    Spense il computer, prese il cellulare e aprì il menù dei messaggi. Ne inViava tre ogni sera, identici, prima di lavarsi i denti e coricarsi. Iniziò a scrivere, ma s’interruppe. C’era qualcosa che risuonava in lei, come un imperativo: la stessa sensazione che, quel pomeriggio, l’aveva fatta fermare per qualche minuto ad osservare la grande casa verde sul curvone. Irene conosceva bene quell’adrenalina che sentiva diffondersi nel corpo e sapeva che non le avrebbe permesso di chiudere occhio se non camminando ancora un po’.

    Camminando per quattrocentosettantuno passi.

    Afferrò le chiavi

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