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Vietnam What? 2 English edition
Vietnam What? 2 English edition
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Ebook298 pages3 hours

Vietnam What? 2 English edition

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About this ebook

This is a natural sequel of the first book, It starts from the Tet offensive and goes right to the demilitarization period and the homecoming of the troops. This book has a different protagonist; however, like the protagonist of the first book, he has ample opportunity of move all over Vietnam. Sticking to the first book policy, the book features a number of real life characters in important military operations, as well as purely fictional ones, acting in true to life places and situations. 
LanguageEnglish
PublisherGianni Ruffo
Release dateJan 5, 2019
ISBN9788829590049
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    Book preview

    Vietnam What? 2 English edition - Gianni Ruffo

    Khe Sanh

    Ego te absolvo, in nomine Patri et Filii et...

    "Padre non voglio morire, mi aiuti! Ce la farò? Non

    sento più le gambe e ho le budella in fiamme. Cosa

    mi è successo?"  

    La sua mano mi stritola il braccio destro e mi

    impedisce qualsiasi movimento, anche di dare la

    benedizione a quel povero ragazzo steso su un

    poncho allagato di sangue; un giovane soldato,

    dilaniato dal tiro al bersaglio giornaliero che ormai

    da settimane pare sia il passatempo preferito delle

    truppe Nord Vietnamite che circondano Khe Sanh.

    Tutti i giorni e tutte le notti piovono colpi di mortaio

    e di cannone, impedendo anche il semplice

    svolgimento delle più elementari azioni di vita

    quotidiana, senza dimenticare gli assalti lungo tutta

    la linea difensiva della base. E’ talmente pericoloso

    stare fuori che ho addirittura visto soldati imbottirsi

    di pillole contro la diarrea per ridurre al minimo le

    uscite allo scoperto.

    E' normale che durante la guerra tutto venga

    stravolto, ma quando sei accerchiato e

    numericamente inferiore ai nemici c'è poco da stare

    allegri. Ti vengono in mente tanti paragoni di simili

    situazioni che si sono create nelle guerre

    combattute da quando l'uomo ha iniziato a

    popolare la terra: dall'assedio di Troia a quelli delle

    guerre sante che vedevano i cristiani ed i

    musulmani combattersi e circondare le città per

    lunghissimi periodi, a Stalingrado, a Montecassino,  

    a Bastogne.

    Come dimenticare tutti gli assalitori via mare che,

    dopo aver imparato l'uso della polvere da sparo,

    attaccavano da lontano a bordo delle navi sino a

    quando le città costiere non erano costrette alla

    resa oppure erano loro stessi costretti alla fuga.

    Sono stati tanti gli esempi, e non sempre gli

    aggressori hanno avuto la meglio ed hanno portato

    a compimento le loro intenzioni.  

    I nostri comandanti sapevano che prima o poi

    sarebbe successo perché, proprio qui in Vietnam, si

    è combattuta una battaglia simile meno di quindici

    anni prima. Dien Bien Phu. Stessi attaccanti, altri

    difensori, tragico epilogo.

    Erano già diversi mesi che i Nord-Vietnamiti

    ammassavano truppe lungo la linea di confine e le

    loro intenzioni erano chiare e non lasciavano dubbi

    sugli obiettivi. Probabilmente, dopo la chiusura

    dell’unica via di comunicazione terrestre con la

    base, in qualche quartier generale erano fortemente

    speranzosi che le cose potessero avere questo

    epilogo. Avrebbero potuto ancora una volta

    mostrare l’enorme potenza di fuoco americana per

    difendere la base ed infliggere pesanti perdite ai

    nemici in una battaglia campale, fiaccando così, sia

    il morale che le riserve umane e belliche per ridurre

    fortemente la pressione in tutto il paese. Attirare

    come la carta moschicida il nemico sino a spingerlo

    vicinissimo alla base e poi colpirlo con la massima

    potenza di fuoco disponibile.

    In teoria doveva essere così, ma in pratica non sta

    andando proprio così. Anzi: sono loro che,

    approfittando di questa situazione, hanno fatto sì

    che diminuisse l’attenzione nel Sud per poi

    attaccare ferocemente in tutto il paese in occasione

    del Tet.  

    Hanno creato il diversivo Khe Sahn per celare le

    loro vere intenzioni.  

    E lui mi guarda, mi implora di salvargli la vita, mi

    supplica di non abbandonarlo, di stargli vicino. Io

    non sono né infermiere né medico, ma un semplice

    prete cattolico di provincia che ha il compito di

    rifornire i cappellani militari in tutto il Vietnam di

    ostie, calici, paramenti religiosi, testi sacri ed ogni

    altro strumento che serva per essere di conforto

    spirituale e per salvare le anime dei nostri soldati.  

    Non è la prima volta che come sacerdote impartisco

    l'estrema unzione ma, in questo caso, mentre il

    corpo del povero ragazzo è completamente dilaniato,

    la sua mente è perfettamente lucida e consapevole

    di quanto stia accadendo e, soprattutto, di cosa

    potrebbe accadere.  

    Mi stringe, mi implora, mi fa sempre più male, ma

    io non posso fare nulla.

    La mia impotenza mi stordisce, mi sentirei

    completamente inutile, se non fosse per

    l’importanza che ha la mia presenza fisica per

    questo povero ragazzo. Farsi stringere il braccio,

    dandogli la speranza che possa continuare a vivere

    tenendomi attaccato a lui, come se con quel

    contatto fisico potessi trasmettere parte della mia

    energia per tenerlo ancora in vita.  

    Cerco di farlo parlare e di tenere viva la sua

    attenzione per non farlo andare sotto shock e provo

    a fare qualche domanda mirata. Una dose di

    morfina sulla spalla allevia momentaneamente le

    sue sofferenze e la presa al mio braccio;

    sistemandogli la testa sulle mie gambe gli chiedo

    chi sia e da dove venga. "Padre, mi chiamo George,

    ho 19 anni e vengo dalla Louisiana. Ho ricevuto la

    cartolina di precetto, mi sono presentato per

    l'addestramento e dall'inizio di dicembre sono

    arrivato in Vietnam e subito assegnato alla base di

    Khe Sanh. Faccio parte dei Seabees (CBS

    Construction Battallions), in pratica siamo quelli

    che tra un colpo di cannone ed uno di mortaio,

    soprattutto quando è in arrivo qualche aereo con i

    rifornimenti, devono risistemare quello che resta

    della pista di atterraggio e quindi riempire e

    sistemare le buche o, se le cose sono andate male,

    togliere le carcasse degli aerei colpiti che bloccano

    la pista. Arrivano i nostri, scaricano di tutto sotto

    una pioggia di bombe e noi dobbiamo sistemare al

    meglio la pista per l’atterraggio successivo. E così

    questa giostra si ripete all'infinito, mentre loro si

    divertono a vederci correre su e giù per non essere

    uccisi. Hanno un’ottima mira tanto da colpire in

    pieno il deposito delle nostre munizioni, com’è

    successo proprio all’inizio di questa battaglia. Non

    so se sono fortunati o hanno qualcuno che li

    informa dall’interno della base. Noi stiamo

    resistendo, ma a che prezzo? Ho già sentito da altri

    della mia compagnia, che sono quasi alla fine del

    loro anno di permanenza, che a volte dopo aver

    combattuto per conquistare o difendere una base o

    una collina, questa viene poi tristemente

    abbandonata perché ritenuta non più strategica

    senza il minimo rimorso per il numero di vite che

    sono state sacrificate.  

    Strana strategia: noi facciamo da esca e quando

    veniamo attaccati, i nord vietnamiti dovrebbero

    essere colpiti dalla nostra aviazione in modo

    massiccio, ma non sempre è possibile. Spesso c’è la

    nebbia e nubi cariche di pioggia impediscono sia

    l’attacco aereo che il nostro rifornimento, mentre

    loro hanno già puntato cannoni e mortai e

    continuano a martellarci."  

    Si ferma con il racconto ed io approfitto per

    segnarlo con la croce sulla fronte. Dal mio gesto, si

    rende conto che è in pericolo di vita e subito

    riprende il suo racconto come per sfidare la morte e

    dimostrarmi che lui è un duro e ce la farà. Cerco la

    borraccia, provo a dargli dell’acqua a piccoli sorsi e

    gli bagno anche il viso per dargli un minimo di

    sollievo. Con quel gesto, non posso fare a meno di

    notare il colore della terra rossa di Khe Sahn che

    mista all’acqua assume un colore porpora mentre,

    se bagnata dal sangue, diventa scura e minacciosa

    di tristi presagi. Gli passo allora le mie dita bagnate

    sugli occhi così da non fargli vedere la differenza e

    tenerlo calmo il più possibile.

    "Non sono un eroe, non tornerò a casa vantandomi

    di aver eliminato molti charlie ma mi rendo conto di

    essere uno dei tanti ingranaggi di una enorme ruota

    dentata che gira da qui alla nostra Nazione.

    Ognuno deve fare il proprio dovere e farlo bene. Mi

    hanno insegnato a sparare in addestramento ma da

    quando sono arrivato qui, il mio fucile non ha mai

    sparato un colpo ed ho solo utilizzato bulldozer e

    pala per scavare trincee o riempire le enormi buche

    sulla pista. Se non sistemiamo tutto ed alla svelta,

    non riceviamo i rifornimenti e rischiamo sempre di

    più. Potrebbero scarseggiare le munizioni o i

    farmaci per i feriti e quelli ridotti peggio non

    potrebbero essere evacuati. Si, ho fatto il mio

    dovere come mi hanno ordinato ed ora voglio essere

    evacuato anch’io. Mi aiuti Padre, mi faccia salire sul

    primo volo che parte".  

    Io cerco di lenire le sue sofferenze e di stargli vicino

    in attesa che qualcuno venga a prenderlo o,

    almeno, che riesca a vedere qualcuno da chiamare

    per farlo curare ma, nel silenzio più totale di quei

    lunghi ultimi minuti, un triste sibilo si sente in

    lontananza. Si avvicina sempre più e tu speri che

    vada lontano e ne possa sentire la sospirata

    detonazione.  

    L’interminabile attesa del boato, rende quei secondi

    eterni, come se la tua vita fosse momentaneamente

    sospesa. Come se tutto avesse un’altra dimensione

    e lo scorrere del tempo fosse completamente

    alterato, con momenti rapidissimi ed altri infiniti. Il

    fischio continua e il proiettile prosegue la sua

    discesa di morte. Cerchi di utilizzare al massimo

    tutti i tuoi sensi per tentare di capire dove possa

    cadere. Gli occhi sgranati, le orecchie tese nel

    provare ad indovinare la direzione della traiettoria e

    la testa che prega Dio di non essere tu il

    predestinato. Il cuore impazzisce e sembra voler

    schizzare via dal petto mentre le mani sudano e

    tremano al tempo stesso. Sembra un secolo ma

    sono solo pochi, interminabili ed eterni secondi di

    vita. Lo scoppio è assordante, ti disorienta, lo

    spostamento dell’aria rende vano ogni tensione

    muscolare e diventi come una nave in balia della

    tempesta.

    Stordito dal rumore ed accecato dal bagliore,

    impiego qualche secondo per cercare di fare il

    punto della situazione e rendermi conto

    dell’accaduto. Dopo essermi accertato di non aver

    riportato danni, quasi cieco, come prima cosa cerco

    con le mani sulle mie gambe la testa di George ma

    non la trovo. Il cuore ricomincia la sua folle corsa

    ed a tentoni cerco di trovarlo intorno a me, ma

    nulla. Ho una paura tremenda a pronunciare il suo

    nome perché ho il terrore di non ricevere risposta e

    con gli occhi spalancati ma accecati dal bagliore, mi

    sforzo di capire meglio la situazione e mi accorgo

    che lui è steso dove eravamo prima dell’esplosione

    ed io sono stato scaraventato a circa quattro metri

    senza riportare nessun danno, perché le schegge

    sono state fermate da alcuni sacchi di terra a

    protezione della vicina trincea. Mi muovo

    strisciando in fretta verso di lui, terrorizzato da

    quanto accaduto e dalle possibili conseguenze

    mortali del colpo. Non si muove, non parla e non

    riesco neanche a vedere da lontano il movimento

    del petto nel momento del respiro. Mi alzo quasi in

    piedi ma barcollo e cado in avanti sbucciandomi i

    palmi delle mani, ma mi affretto ad avvicinarmi a

    George. Sono ancora sordo e non riesco a sentirne il

    respiro. Mi bagno la mano, la accosto alla sua

    bocca e sento entrare ed uscire debolmente l’aria.

    Felice come un bambino ed incurante dell’arrivo di

    altri colpi, avendo riacquistato un minimo di vista

    ed equilibrio, corro verso la tenda ospedale

    facendomi preannunciare dalle mie urla. Prima del

    mio arrivo, si affacciano due soldati che con una

    barella mi vengono incontro. Gli indico il punto

    preciso dove si trova George e corrono come fulmini

    per andarlo a prendere. Io entro nella tenda per

    lavarmi almeno le mani sporche di sangue ed in

    pochi attimi entrano anche i due soldati con la

    barella e George ancora vivo. Lo sistemano su un

    tavolo improvvisato e mi chiedono di uscire. Prima

    di farlo, mi avvicino e gli accarezzo il viso. Lui sente

    il contatto della mano, apre a stento un solo occhio

    e dopo avermi riconosciuto abbozza un sorriso. Mi

    allontano come ordinatomi e mi accosto in un

    angolo a pregare.

    Sono talmente assorto nella preghiera che è come

    se fossi in una gigantesca bolla e tutto intorno a

    me, in quel momento, non esistesse più. Poi una

    enorme mano sulla spalla mi riporta bruscamente

    alla realtà: "Bene Padre, il suo amico ce la farà. Lo

    abbiamo ricucito, ora è debole ma lo manderemo

    via con il primo volo. Potrà ricevere cure migliori in

    ospedale e poi tornerà a casa". Sposto la tenda che

    mi separa da una improvvisata sala operatoria e

    vedo George steso sul tavolo dove gli hanno

    prestato le prime importanti cure che mi ringrazia

    con la mano, con lo sguardo. Io, senza entrare, gli

    mando la mia benedizione e gli auguro di rimettersi

    presto e tornare a casa.

    Però ora devo trovare il Cappellano della base e

    consegnargli tutto quello che aveva richiesto. Esco

    dalla tenda in un momento di calma apparente e

    chiedo informazioni su dove sia alloggiato il

    Cappellano Fred Wells. Mi indicano un gruppo di

    sacchi e mi dicono che nascosto lì sotto, tra le altre

    cose, c’è anche il posto dove dorme il cappellano.

    Torno all’improvvisato magazzino dove ho lasciato

    lo zaino con tutta la roba da consegnare e trincea

    dopo trincea, seguo il percorso obbligato per

    raggiungere il bunker.  

    All’ingresso del primo, chiedo dove sia il mio collega

    religioso e mi dicono di attraversare tre stanze

    quasi sotterranee ed alla fine sarò arrivato.

    Mi introduco all’interno e chiedendo permesso per

    l’intrusione mi faccio largo tra scarponi, elmetti e

    lattine di birra, fino al terzo locale-dormitorio. Non

    trovo nessuno, ma ugualmente tiro fuori dallo zaino

    tutto quello che ho portato, sistemandolo nel

    migliore dei modi su un piccolo tavolo che funge

    anche da altare. Torno indietro ed ora invece è il

    momento di trovare dove sistemarmi per la notte

    perché per oggi sono previsti solo altri due

    atterraggi che ripartiranno carichi di feriti e quindi

    per me non ci sarà posto.

    Rifaccio al contrario il tortuoso percorso nella

    trincea ed arrivo dove mi avevano detto che avrei

    trovato delle brande libere. All’interno ce ne sono

    sei e solo tre sono già occupate. Ne scelgo una ed

    esco alla ricerca del cappellano. Mi dicono che sta

    celebrando e mi affretto per non perdere la

    funzione. Arrivo che hanno iniziato da poco e lui,

    riconoscendomi, mi invita sull’altare a concelebrare.

    Sono ancora sporco di terra e del sangue di George,

    ma in un attimo mi tolgo la camicia e la infilo al

    contrario, così da sembrare meno sporco agli occhi

    di tutti. Finita la messa, possiamo finalmente

    conoscerci ed io gli spiego come mai ho tardato ad

    incontrarlo da quando sono arrivato e di quello che

    mi è capitato con George. Restiamo insieme per

    diverso tempo e poi mi accompagna dove ho lo

    zaino per potermi cambiare e per cercare qualcosa

    da mangiare. Nel frattempo si è fatto buio e sento

    salire improvvisamente la tensione tra tutti i

    soldati. Anche il Cappellano Wells ha un

    comportamento diverso. Si rende conto della mia

    perplessità e mi spiega che a breve inizieranno a

    martellarci.

    Approfittano

    dell’oscurità

    per

    avvicinarsi alla base e colpirci in modo pesante e

    continuo. Questa notte però è limpida e non ci sono

    nuvole, così potremo rispondere al fuoco e non ci

    sorprenderanno.  

    Ormai questo è lo scandire del tempo: scambio di

    colpi il più preciso possibile, prestando la massima

    attenzione affinché non arrivino in forze via terra ed

    attenti a non colpire i nostri che escono di

    pattuglia. Proprio in quel momento si sentono le

    radio che avvisano della pattuglia che rientra dopo

    aver sistemato le trappole per la notte e tutto quello

    che c’era disponibile per avvertirci su un attacco via

    terra: lattine vuote, filo spinato rinforzato e bloccato

    sul terreno, mine Claymore e granate pronte ad

    esplodere non appena le tocchi o togli il filo ben

    nascosto nell’erba.

    Dopo aver sparato qualche razzo che illumina quasi

    a giorno una parte del perimetro della base, si vede

    chiaramente il fumo colorato che segnala il ritorno

    dei nostri.

    Viene dato l’ordine di non sparare e, via radio, l’ok

    per l’ingresso. Entrano velocissimi correndo allo

    scoperto a zig-zag e si tuffano nella prima trincea

    che incontrano. Da quanto riferiscono, pare che nei

    dintorni non abbiano

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