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Viverna
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Viverna

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About this ebook

Cacciatori di teste, stregoni, pirati e principi indiani prosperano in questo racconto avventuroso e poetico di un giovane reietto del Borneo. Nato nel 1609, figlio di un’indigena e di un olandese che non ha mai conosciuto, Jaki Gefjon cresce nella giungla da apprendista stregone. Catturato più tardi dai pirati, diventa amico del suo salvatore, Trevor Pym, famoso per la sua temuta nave da guerra battente lo stendardo della Viverna. Le meraviglie della tecnica a bordo della nave pirata diventano la nuova passione del giovane sciamano – finché non si innamora di Lucinda, la figlia testarda del nemico giurato di Pym. Sospinta da intrighi, battaglie navali, maledizioni e visioni, questa epopea marinara porterà Lucinda e Jaki dai Mari del Sud fino all’India – e, in seguito, a un destino audace e imprevisto nel Nuovo Mondo.

LanguageItaliano
PublisherBadPress
Release dateDec 30, 2018
ISBN9781547563364
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    Viverna - A. A. Attanasio

    Viverna

    A. A. Attanasio

    Per tuo padre e per il mio...

    e i loro viaggi esiliati in noi.

    Gli uomini che sono morti li aspettano cose che non sperano né immaginano.

    — Eraclito, frammento 27

    Contenuti

    Camminando con la Bestia che Cammina in Noi

    La Viverna e la Fateful Sisters

    Dormendo con Satana

    La Luna è un Corno che Soffiamo con il Nostro Ultimo Respiro

    Note dell’Autore

    Parte Prima:

    Camminando con la Bestia che Cammina in Noi

    Il Signore ha dichiarato che avrebbe abitato nell’oscurità.

    — Salomone

    L'alba eresse un tempio di nubi sulla giungla. Il vento del nord, ingarbugliato di stelle, soffiava ad ovest e le nuvole lo seguivano verso le montagne. Un inaspettato, piccolo torrente precipitava dalle vette, scalpitando contro i bordi d'ardesia, correva giù, lungo pendii rocciosi, verso la foresta.

    Sulla cornice di un monte, dove il diluvio si dissolveva in un velo di foschia, stava in piedi una figura minuta che scrutava un labirinto di abissi tortuosi. Nel vasto panorama, sciami di vapori, valli che sospiravano come cimiteri.

    I maestosi cumuli si alzavano e svanivano nel cielo viola, tra le ultime stelle scosse dal vento e la sottile ombra fece un passo, dall'oscurità del dirupo nella luce dell'alba. L’uomo, nero e spigoloso vestiva soltanto un perizoma di pelle di serpente.

    Il petto e le spalle s’imperlavano come pece dove le cicatrici rituali raccontavano storie gloriose. Tatuaggi di serpenti avvolgevano le sue gambe e sulla testa piatta si intrecciavano nodi di vipera. Il suo respiro era fumo viola nella luce fredda.

    L’uomo-serpente perlustrò la zona sottostante fino ad individuare un’alta vallata dove gli alberi giganti della foresta s’inginocchiavano innanzi le vette rocciose. Laggiù, a un giorno di cammino, abitava il demone. Per sette anni l’uomo-serpente  aveva sorvegliato quella valle per assicurarsi che il demone non scappasse e vi si era introdotto per portare delle offerte, soltanto quando era certo che nessuno lo vedesse. Recentemente i tamburi delle tribù vicine annunciarono l’avvistamento della temibile creatura, ed era giunto il momento per l’uomo-serpente di scendere dai freddi sentieri nella calda frenesia della giungla, per affrontare il demone.

    Il sole s’innalzava in cielo mentre lui scendeva, lungo la parete del monte. Davanti a sé, calvi affioramenti rocciosi si profilavano e contorti alberi pigmei stavano accovacciati tra ciottoli e macigni. Più in basso cominciavano i campi di fiori; poggi e collinette tambureggiavano di colori, mentre la foschia saliva disperdendosi nella luce del sole. Le felci cingevano la foresta, dove alberi enormi torreggiavano in cima alla vallata del demone.

    La valle era buia. Qua e là, dov’erano caduti gli alberi, il sole perforava la fitta vegetazione, innescando il volo di piccoli uccelli smeraldo e lo sciamare di farfalle blu. Persino quando saliva alto a mezzogiorno la penombra persisteva in quella valle profonda e il gracidare delle rane pullulava nella luce fioca.

    Sul lato opposto di questo luogo misterioso, dei bambini nudi, i ragazzi della tribù nomade dei Viandanti delle Piogge, sguazzavano nell’acqua ambrata di un torrente. Il loro accampamento era situato oltre un bosco di alberi dalla corteccia spinosa. Alcuni giorni prima, un gruppo di raccoglitrici aveva intravisto il demone che sapevano viveva nella valle adombrata dai monti. Le donne che lo spiarono dichiararono che il demone aveva la forma di bambino, ma con la pelle bianca come la luna, i capelli rossi come i sole e gli occhi blu come le stelle. Gli uomini non ne volevano parlare, perciò i più coraggiosi dei ragazzini della tribù avevano deciso di vederlo per conto loro.

    In una radura, lungo un’ansa del torrente, avevano trovato  uno stagno semiprosciugato libero dai coccodrilli, dove potevano scorrazzare senza il timore di essere mangiati o spazzati via dalla corrente. Tuttavia nessuno dimenticava che quella pozza apparteneva al demone. Il grido agitato di uccelli e scimmie interruppe i loro giochi e li fece scattare in piedi dalla paura, pronti a correre dalle loro madri che stavano cercando il cibo per il pasto serale lungo i sentieri della foresta. Ogni volta, il bambino più grande rideva del timore dei più piccoli e indicava l’animale che aveva gridato.

    Tra le fronde, vicino al ruscello, il demone li osservava. Era solo un ragazzino, ma sembrava brillare nell’oscurità. I capelli, biondi a caschetto, splendevano come metallo al sole, mentre la pelle slavata emanava luce. Soltanto la sua ossatura era visibilmente tribale. Il viso aveva i tratti felini dei bambini che stava guardando, ma sotto le sopracciglia indigene due occhi blu assistevano alla scena.

    I ragazzini nel ruscello, tutti della sua età, lo affascinavano con i loro giochi d’acqua. Le loro risa e i loro starnazzi erano una musica nuova per lui. Non aveva mai visto dei bambini giocare prima. Per sette anni di vita aveva vissuto nella vallata con Mala, sua madre. Soltanto di recente aveva sentito le canzoni dei tamburi dei Viandanti delle Piogge e fu ispirato a sfidare gli avvertimenti della madre, incamminandosi per trovare la musica che sentiva. Aveva visto il loro accampamento da lontano e aveva seguito le donne mentre raccoglievano bacche e ramoscelli per il fuoco. Quel giorno si era avvicinato più che mai alla gente della tribù. Ne era finalmente certo: non erano diversi da lui.

    Sentì un grido spaventato che diceva Demone-bambino! e uno dei bambini indicò il sottobosco. Il bambino più grande si fece avanti mentre gli altri rabbrividirono. Un ceppo forellato dalle termiti fu lanciato nella secca fangosa al coro di Demone-bambino! Demone-bambino!

    Il ragazzo, accovacciato nella boscaglia, si accigliò. Sapeva che stavano chiamando proprio lui. Il giorno prima quando le donne lo avevano individuato tra le piante di pisello, avevano strillato, Matubrembrem – demone-bambino! per poi fuggire.

    Mala lo chiamo Jaki. Gli aveva detto che il padre veniva da una terra lontana – così come il suo di padre d’altronde – e che vivevano separati dalle tribù proprio perché gli spiriti dei loro padri venivano da altre terre. Tuttavia, non riusciva a capire perché dovesse essere chiamato demone per le sue origini.

    Jaki voleva spiegarlo ai bambini che lo deridevano, ma aveva promesso a Mala che non si sarebbe fatto vedere e, riluttante, fece per allontanarsi, determinato a capire perché gli spiriti dei loro padri non avevano dimora nelle tribù. Quando si girò per andarsene, un piede s’impiglio in una radice e lo fece inciampare in avanti. Cadde rovinosamente oltre il fogliame rotolando giù verso la riva del fiume.

    I bambini nella pozza strillarono alla vista del mostro che volava verso di loro. Scapparono nel panico più totale, aggrappandosi alle liane per risalire la sponda del fiume. Solo il bambino più grande non si mosse. Non stava più ridendo.

    Mentre gli altri arrampicavano l’argine, lui ricambiava lo sguardo fisso del demone. Constatò che la creatura era soltanto un ragazzino con un perizoma di corteccia come tanti altri, ma i suoi occhi, capelli e pelle erano nati dalla nebbia e dal fuoco. Raccolse un ciottolo e si accostò al torrente.

    Ferang! Vieni!, gli gridavano gli altri bambini. Lui avanzò noncurante delle loro grida. Con la mascella tesa e le nocche bianche della mano con cui stringeva il sasso, avanzò lateralmente verso il demone e scalciò l’acqua per spaventare il bambino ripugnante.

    Jaki non fece un passo. Il loro terrore lo confondeva. Cosa li spaventava? Non riuscivano a vedere che non era diverso da loro? E chi era questo Ferang che gli alzava contro una pietra, manco fosse una vipera?

    Metti giù quella pietra, gridò Jaki. Non ti farò del male. Sono un ragazzo come te.

    Ferang interruppe la sua avanzata e scosse la testa. Tu non mi freghi. Io so chi sei, Matubrembrem. Vattene! urlò e lasciò volare il sasso. Sfrecciò dritto contro il ragazzo dai capelli d’oro mentre questi si abbassò. La pietra lo colpì di lato, alla testa; Jaki perse la vista in un bagliore. L’impatto lo fece crollare nel fango. Ferang fischiò e corse verso il pietrisco per un altro ciottolo.

    La vista di Jaki ritornò finalmente a posto. Si toccò il punto da dove proveniva il dolore e le sue dita si tinsero di sangue caldo. Si alzò barcollando, muovendo le braccia come un nuotatore, infine collassò a terra. Ancora intontito si inerpicò strisciando sull’argine fangoso, mentre l’altro gli lanciava altre rocce contro schiena e gambe. A quattro zampe sgattaiolò nel fitto della foresta, scattò in piedi e con tutta la forza che aveva in corpo si gettò nella buia vallata.

    Stordito e impaurito, Jaki sfrecciava come un animale nel colonnato della foresta. Non era mai stato colpito prima e la sassaiola lo lasciò sconvolto, disorientato. Corse finché lo sfinimento non lo fece inciampare e cadde dimenandosi nell’oscurità modellata dalle foglie, ansimando in cerca di fiato.

    Il suo cuore palpitante urlava, Matubrembrem – demone-bambino, demone... Il dolore alla testa imperversava. Su di lui, una scimmia dal muso scarno rideva beffarda. Quegli schiamazzi si contorsero nelle sue orecchie vibranti in Matubrembrem!

    Jaki si mise di nuovo in piedi e ricominciò a correre, sfruttando tutta la forza rimasta nelle sue gambe. Un covo di uccelli rosa fece capolino nell’oscurità, anch’essi strillavano Matubrembrem! Un opossum si scansò dalla sua fuga con un verso stridente che sapeva di scherno.

    La stanchezza si fece sentire di nuovo abbattendolo contro la radice sporgente di un albero avvolto dalle ragnatele. Finalmente solo.

    Dopo aver recuperato fiato, esaminò la ferita alla tempia e si accorse che non era niente di grave. Si alzò, incominciò a camminare, arrabbiato e confuso dall’ostilità dei bambini. Era veramente un demone-bambino? Sua madre gli aveva mentito dunque? Nell’umida penombra affrettò il passo, scansando innervosito le rampicanti e gli arbusti, con l’angoscia che montava, fino a quando il terreno cominciò a inclinarsi e il caldo della giungla si placò.

    Il fischio di Mala risuonò dalla radura dove abitavano. Fino a quando non udì la sua voce Jaki pensò che era il dolore a guidarlo verso casa. Ciononostante, in quel momento, realizzò che non era ancora pronto per affrontarla.

    Continuò a camminare nella selva e il pacciame al suolo diventava sempre più roccioso, l’aria più fresca e il profumo della resina intenso. A metà pomeriggio era arrivato a fondo valle dove la giungla si sfittiva e le felci dispiegavano il loro piumaggio. Uscì dalla foresta sotto il cielo aperto e sussultò difronte allo stupore delle nubi e del sole improvviso.

    Campi di rododendro cospargevano i pendii scoscesi, carichi di polline – Mala gli aveva proibito di andare oltre le distese fiorite. La vetta spezzata, la più alta, si affacciava sul dominio degli spiriti. 

    Jaki inspirò il loro potere. La fragranza eterea delle fioriture si mischiava alla canfora pungente delle rocce strofinate dal vento. Di sopra, in effetti, le lastre di granito sembravano maledette: le venature di feldspato e i licheni ambrati delineavano volti atroci. In passato quegli sguardi malefici impressi nella roccia lo avevano tenuto alla larga. Ora si arrampicava verso di loro, noncurante dei richiami della madre che sbraitava dalla casa ricoperta d’erba nel prato di sotto.

    Non guardò indietro fino a quando non raggiunse le conturbanti lastre. A quel punto le grida della madre si erano già dissolte e quando guardò in basso da quell’altitudine Mala era soltanto una macchietta di colore. Attorno a lei il mondo ondeggiava verde. Un fumo indaco si alzava dall’accampamento dei Viandanti delle Piogge. Le garzette planavano verso nord sopra le colline e all’altra estremità del cielo il sole bruciava come una stella bianca su una distesa di laghi.

    Jaki salì verso un ghiacciaio perenne e quello sforzo spense l’ultima delle sue emozioni più intense. Quando si sedette su un banco di roccia trai ciuffi d’erba rosati, stremato, fu come immerso nella pace del momento.

    Chi era lui che gli altri disprezzavano come si disprezzava la serpe velenosa? Si guardò intorno in cerca dei volti malefici, gli stessi che lo fissavano quando li osservava dalla giungla. Lì non c’era nulla a parte qualche roccia nera imbrattata di licheni argentati. Era l’unico demone in giro.

    Jaki portò le mani al volto per guardarsi dentro. Le ossa smussate del suo viso testimoniavano l’amore dei suoi genitori – le guance scarne dove suo padre e sua madre erano sdraiati e il naso sporgente dove stavano di nuovo in piedi. Mala diceva che assomigliava a suo padre. Il vecchio dolore per quell’uomo dai capelli d’oro si risvegliò mentre percorreva la fronte alta così diversa dalle sopracciglia strette della madre.

    Le mani si staccarono dal viso quando pronunciò ad alta voce il nome di suo padre, Pieter Gefjon. Quel nome suonava bellissimo al freddo, era un nome fatto per il vento.

    Strinse le braccia per far fronte alla brezza gelida che si infrangeva sulle rocce; si ricordò della storia raccontata da sua madre di come suo padre afferrava il vento con le vele e viaggiava i mari su una grande nave. Giacché lui non aveva mai visto il mare, o il vento asservito al viaggio, Mala aveva costruito una barca giocattolo con una noce di cocco e un brandello di palma nipa per farla navigare nello stagno verde vicino a casa.

    I pensieri felici della madre, il freddo  proveniente dalle vette e la fame ringhiante lo rimisero in piedi. Osservò il confuso intreccio di distese e valli oltre la famigliare vallata dove viveva. Si era promesso che un giorno le avrebbe percorse quelle distanze, proprio come suo padre. Si sarebbe lasciato addietro le tribù che lo credevano un demone e avrebbe viaggiato con le stagioni, oltre l’orizzonte, fino a trovare la gente di suo padre. Questa determinazione addolcì l’umiliazione della ferita alla testa, dunque cominciò la ripida traversata verso casa.

    Dall’alto, nascosto da una roccia frastagliata di granito nero, l’uomo-serpente sorvegliava la discesa di Matubrembrem verso la giungla. Con la mano che mimava un artiglio incise un sigillo nell’aria per allontanare l’aura invisibile del demone-bambino. Poi, come fumo nero versato sul pendio scosceso, lo seguì. 

    *

    Pirati! gridò una voce dalla postazione di vedetta.

    Il segnale rizzò il capitano in piedi sui suoi stivali cordovesi. Pieter Gefjon era un uomo barbuto e smunto con calzoni blu, marsina ricamata e cappello da capitano a tesa larga. Al momento stava sul castello di poppa a fissare intensamente il luccichio del mattino. La costa di Makassar nel Sulawesi riempiva l’orizzonte a est. Lungo la riva ricoperta di foschia, si accatastavano masse verdi di mangrovie ricurve e delle cascate decoravano falesie gigantesche.

    Strizzando gli occhi, per il riflesso pungente del sole sull’acqua, Gefjon poteva scorgere in lontananza le montagne del Sulawesi. I riflessi della luce giocavano nell’aria. Quando alzò le mani davanti ai suoi occhi e osservò dalla fessura tra le dita, vide i pirati.

    Tre djong – giunche, ovvero vascelli giavanesi – viravano verso di lui. Con il bompresso a testa di dragone, le navi avevano l’aspetto di serpenti marini irruenti. Le vele verdi indicavano che i vascelli erano musulmani, non si trattava dunque di amici per un mercantile olandese come lo Zeerover di Pieter Gefjon. Lanun, mormorò il capitano.

    I Lanun, considerati i pirati più feroci dell’Indonesia, portavano il vessillo della fede mussulmana per mera convenienza: si trattava del lascito della jihad che conquistò l’Asia secoli prima e ormai non vi restava nulla di sacro a proposito. Gefjon sapeva da altri capitani, che davano la caccia ai Lanun, che i predoni appendevano i teschi delle loro vittime all’albero maestro e al bompresso. Ricercò dunque con lo sguardo il bianco delle ossa tra i pennoni e con facilità lo trovò.

    Il capitano frugò nella tasca del cappotto lungo, in cerca della Bibbia e si mise a pregare.

    Dio sapeva ciò di cui aveva bisogno. Nel 1607 gli olandesi erano in Asia da dodici anni, Pieter Gefjon, in acque straniere, soltanto da uno. A quei tempi la sua stessa vita era diventata una preghiera – agli inizi, volta a portare a casa gloria e onore in nome di suo padre e dei suoi fratelli, che avevano combattuto in Europa per ottenere l’indipendenza dalla Spagna. Quell’ingenua preghiera era morta nella crudeltà, a Java, il suo primo anno da giovane capitano con la famigerata Armada Sanguinaria. L’ammiraglio di Gefjon aveva raso al suolo Giacarta per aver rifiutato la sottomissione agli olandesi e la sua nave da guerra aveva affondato decine di djong dalle vele di carta che tentavano la fuga dalla città in fiamme. Le urla degli uomini che annegavano in mare avevano corroso la preghiera di gloria. Da allora, aveva vissuto soltanto per portare merci utili agli indigeni in cambio dei tesori grezzi della creazione che questi ignoravano o accumulavano per le loro decadenti divinità.

    Il capitano continuò a saggiare la velocità dei predatori che emergevano dall’accecante est. I djong, legni leggeri, si avvicinavano veloci. Spostò lo guardo a ovest, sulle scogliere asfissiate dalla giungla, in cerca di una baia dalla quale avrebbe potuto tenere testa agli avversari. Pochi occhi europei avevano visto quella costa così sgargiante. Le mappe descrivevano il Borneo come un deserto verde circondato da secche pericolose e infestato dai pirati. Gefjon esalò il terrore che gli montava dentro con un sospiro. Le mappe dicevano il vero.

    Lo Zeerover, nave mercantile con poppa bassa e carena ricurva, era il primo vascello olandese a solcare i mari della costa orientale del Borneo. Il fluyt, trecento tonnellate per venticinque metri, fu attirato in quelle infide acque dalla promessa di diamanti grandi come noci, sul fondale del fiume Mahakam, il Mangiauomini.

    Tale promessa veniva da un uomo aspro dalla mascella squadrata, con lobi allungati e tatuaggi rosso vivo su gola e mani. Completamente glabro, il viso sudato dell’uomo luccicava. Tormentato dal mal di mare, Batuh stava accasciato sul cassero, giallo dalla nausea, a fissare il capitano.

    Perché sono qui? mormorò con un filo di voce, con la gola che sussultava al ritmo delle onde. Sono un Cacciatore dell’Albero. I Cacciatori dell’Albero non hanno barche. Siamo cacciatori. Non dovrei essere qui.

    Scogli a babordo! urlò un marinaio dall’albero di trinchetto e lo Zeerover vacillò quando il timoniere si piegò sulla barra di comando.

    Batuh gemette. "Questa deve essere la maledizione delle tanto sagge megere del villaggio, che mi guardavano dentro con un occhio, perché ero andato a donne senza maritarmi! Staranno ridendo ora! Batuh, Tagliateste! Ha! Coraggio, Batuh! Ecco la morte che arriva brillante sugli scogli. Adesso coraggio! Sono già morto – morto da due anni, da quando il capo mi ha tolto le armi e mi ha esiliato nella giungla per aver ucciso i suo maiali sacri. L’esilio mi ha portato qui. E ora morirò un’altra volta – e non è che ho paura... ho soltanto una nausea atroce."

    Non riusciva più a vedere i marinai ciondolare tra le nuvole o scorrazzare per il ponte inclinato mentre preparavano lo Zeerover allo scontro. Chiuse gli occhi, cercando di mitigare il voltastomaco con il ricordo di tutte le teste di tribù rivali che aveva mozzato per nutrire i campi della sua gente. Una volta, durante un lungo periodo di siccità, aveva osato spingersi lontano dal regno delle farfalle blu, casa della tribù dei Cacciatori dell’Albero; andò a nord, oltre i ruscelli di nebbia e gli stagni delle tartarughe, oltre il sopracciglio lucente del picco delle aquile, in cerca di una vitalità più forte per rinnovare le risaie ormai esauste. Tra la gente della costa nord, stranamente alta e dalla pelle più chiara, tagliò tre teste e catturò una ragazza. Al suo ritorno il riso crebbe abbondante e la caccia fu agevole.

    La ragazza si chiamava Malawangkuchingang – Brezza Chiara tra le Palme – e, benché appariva brutta ai Cacciatori dell’Albero perché non aveva le sopracciglia rasate, i lobi stirati o i capelli tagliati a caschetto come piaceva alla gente della foresta, lei aveva un ascendente su Batuh. Tollerava la sua bruttezza solo perché la ragazza aveva visto i grandi vascelli e gli uomini con volto rosso e naso largo che vi navigavano; lo aveva intrigato con il racconto di sciabole luccicanti più resistenti delle migliori armi di legno-ferro che si potessero immaginare. Gli parlò anche dei bastoni del tuono che sparavano più lontano delle frecce. Invero, la ragazza affermava di essere figlia di uno di quegli uomini divini, i quali le avevano affidato il compito di prendersi cura di un sacerdote prima di tornare in mare. Dal prete aveva imparato la lingua degli dei, la loro fede e tanti dei loro segreti, che raccontava a Batuh per avere salva la vita.

    Ispirato dalle storie di Malawangkuchingang del mondo al di fuori dei confini tribali, Batuh cominciò a credersi più degno di stare al comando della tribù di quanto lo fossero gli anziani, così legati alla tradizione. Pensò di dichiarare la sua nobiltà cacciando i maiali reali, sicché gli anziani lo esiliarono per la tracotanza dimostrata. Intrepido andò a sud, dove avrebbe potuto udire i tamburi delle altre Tribù delle Ombre, i quali annunciavano l’avvistamento di grandi navi e di uomini ben vestiti con le loro facce rosse dal naso largo.

    Al terminare della sua prima notte in esilio Batuh incontrò uno stregone di nome Jabalwan, un uomo-serpente con perizoma intrecciato e bracciali di tendini animali. Torna indietro, lo ammonì Jabalwan puntandogli contro un osso acuminato. Il cammino innanzi a te è la via dei morti. Per la prima volta nella sua vita fu veramente spaventato. L’uomo-serpente era magro come il fumo, emaciato da una vita di trance e digiuni. Il suo corpo seminudo portava il segno di molte incisioni rituali. Le sue gambe sfoggiavano tatuaggi di serpi gemelle sorprese nella danza. Altri sarebbero corsi indietro al suo posto, ma Batuh proseguì nel fitto della giungla, oltre lo stregone.

    Da quel giorno diventò l’ombra del falco, il chiacchiericcio del vento, una scintilla nella notte. È proibito, furono le ultime parole che aveva sentito dalla sua gente.

    *

    La terza luna del suo esilio, Batuh trovò gli dei che cercava. Aveva sfidato l’uomo-serpente, oltrepassato i morti, resistito all’avidità della palude e si era sottratto dalle feroci tribù musulmane della costa per raggiungere l’impresa commerciale di Bandjermasin. In un labirinto di torrenti e canali argentati, il villaggio-giardino si estendeva prosperoso con capanne dal tetto di felci sorrette da palafitte. A sud, convergevano i fiumi che scorrevano attraverso il villaggio per gettarsi nel mare, un recinto di bambù gigante cingeva la stazione commerciale. Il molo era stato costruito con alberi mastodontici legati assieme tra le mangrovie: un impressionante reticolo di impalcature e carrucole, cariche di imballaggi, barili e casse. Gli elefanti trasportavano la mercanzia dallo stabilimento fortificato al molo e piccole imbarcazioni convogliavano i carichi fuori, in mare aperto, dove ad aspettarle trovavano i velieri. Per un giorno, questi uomini barbuti dal volto arrossato parvero muoversi veramente come divinità agli occhi di Batuh e il loro avamposto era il mercato del paradiso. La finitura del loro abbigliamento, la stazza delle loro navi e il mistero nei loro occhi color del cielo testimoniavano la loro affinità con gli spiriti.

    In seguito, la gente del villaggio gli disse la verità su quegli uomini con la faccia da scimmia. E presto li vide ubriachi e riottosi. Assistette al massacro di un marinaio rubicondo, il cranio preso a mazzate e le cervella versate come molluschi sgusciati. Questi erano esseri umani, proprio come Malawangkuchingang gli aveva detto, solo che la loro brama bruciava più forte e li rendeva più audaci della maggior parte degli uomini. Si vergognò di aver soltanto pensato che fossero dei – così  brutti e chiassosi. Tuttavia costituivano una tribù potente. Il tuono esplodeva dalle loro navi;  il vetro olandese tagliava la luce del sole in piccole stelle che emanavano fiamme da uno stoppino di foglie e il metallo delle loro lame era più affilato dei pugnali più pregiati che i musulmani avessero mai potuto scambiare per il pellame dei Cacciatori dell’Albero.

    Batuh decise di lavorare per gli stranieri con la barba alla stazione commerciale, coltivando in segreto la speranza di attirarli nel regno delle farfalle blu, dove il loro potere gli avrebbe garantito la supremazia e le loro teste bionde avrebbero adornato la sua capanna. Se non prese un soldo pulendo stivali e portando l’acqua ai marinai più comuni, perlomeno  imparò un po’ di olandese scroccando il cibo di cui nutrirsi. Nel giro di un anno cominciò a raccontare fandonie a proposito del suo villaggio, intrigandoli con racconti di ciò che avrebbero voluto trovarvi – diamanti grandi come noci di betel sul fondale del fiume. L’unico tra i capitani a prenderlo sul serio fu Pieter Gefjon.

    *

    Le grida di guerra dei pirati riportarono Batuh al presente. I soldati olandesi erano in posizione su tutta la lunghezza del ponte, con gli archibugi appoggiati alla forcella di tiro e l’innesco che fumava ad ogni colpo. I cannoni fecero fuoco e la bordata scosse lo Zeerover. Batuh scattò in piedi per vedere cosa era successo.

    Le palle di cannone caddero tutte in mare tra gli agili djong che non subirono alcun danno; i pirati incombevano, sempre più vicini, agitando le spade e incoccando le frecce. Le facce austere, annerite dal sole e madide di sudore somigliavano a scarafaggi pronti a spiccare il volo. Gli olandesi sparavano con i loro fucili, mentre i Lanun scoccavano i loro dardi. Batuh barcollò verso il ponte e una freccia sibilò dietro di lui, trafiggendo la sua ombra.

    I rampini avvinghiarono l’impavesata come artigli, sicché i membri dell’equipaggio corsero a tagliarli via. Una freccia trapassò l’occhio di un marinaio e lo scaraventò a terra, ai piedi di Batuh. L’aborigeno si piegò sull’uomo che gridava e si contorceva al suolo; con una mano afferrò la freccia letale e con l’altra cercò disperatamente di strappargli l’amuleto che aveva al collo. Dunque gli sfilò il talismano, una croce con un omino inchiodato sopra, e glie lo porse. Il ferito lo baciò per poi irrigidirsi, definitivamente.

    Batuh mise in tasca l’amuleto del caduto, acquisendo così la forza vitale dell’uomo; tentò di alzarsi per unirsi alla battaglia. Ma la nausea l’ostacolò ancora, sicché cadde indietro, vomitando bile sui suoi vestiti olandesi. Quando guardò in alto, i rampini erano stati tagliati e l’equipaggio si rallegrava, ormai certo di aver sconfitto i pirati.

    Il capitano Gefjon aveva tirato fuori la sua Bibbia, la teneva ben stretta al petto mentre dava gli ordini. Cannoni pronti per abbatterli durante la fuga, tuonò, quando una freccia improvvisamente lo colpì al fianco, gettandolo contro il lucernario del cassero.

    Batuh lo raggiunse per primo. Mise la Bibbia tra le mani del capitano di modo che avesse qualcosa da stringere. Poi prese il dardo nelle mani ruvide e sentì attraverso il tessuto insanguinato che la freccia aveva trafitto le costole del capitano. Fu sollevato nel vedere che la punta spinosa si era conficcata nelle ossa. Non aveva perforato gli organi. Se il veleno non era troppo forte il capitano avrebbe potuto ancora vedere l’alba del giorno dopo.

    Una calca di mani afferrò l’aborigeno con prepotenza e lo mise da parte. Batuh si strinse contro la frisata e guardò la folla di marinai attorno al capitano che finalmente fu portato nella sua cabina. Dalla tasca della sua giubba larga, l’indigeno estrasse la croce d’argento annerito con l’immagine dell’uomo agonizzante inchiodato. Questo era il dio più potente delle facce da scimmia, giacché tutti giuravano su di lui, invocando il suo nome nella paura e nel disgusto. Questo era il dio del libro nero del capitano, lo stesso dio di cui Gefjon parlava così spesso. Batuh girò la croce tra le dita, sentendo la forma del corpo torturato, la forma di dolore che questi diavoli adoravano. Con questo amuleto anche lui poteva parlare al dio del dolore. Pregò affinché il capitano avesse salva la vita; pregò affinché lo Zeerover non tornasse a Bandjermasin, ma continuasse, senza essere ostacolato dai pirati, verso il Mangiauomini.

    Batuh sentì la potenza dell’amuleto nelle sue mani e credette che la sua preghiera fosse stata ricevuta. Credeva inoltre che quando sarebbe giunto il momento di mozzare le teste bionde degli olandesi per assicurare una vita più abbondante ai Cacciatori dell’Albero, questo dio, che il capitano assicurava essere un dio del perdono, lo avrebbe perdonato.

    *

    Nella sera scarlatta, Jaki arrivò alla radura dove viveva. La sagoma di Mala lo attendeva sull’uscio della palafitta. Soffi di fumo di ramoscelli e di brodo caldo viaggiavano nell’aria fresca; il ragazzo, noncurante della fatica, salì rapidamente la scala incavata in un tronco della veranda.

    Mi hai disobbedito, ometto. Dall’oscurità, la voce infelice della madre lo fermò. Sapeva di legna da ardere, il suo corpo snello si inarcò su di lui appesantito dalla preoccupazione.

    C’è carne stasera? chiese allegramente il piccolo, senza ottenere risposta.

    Tre volte te l’ho proibito di lasciare la nostra valle, lo rimproverò cercandogli ragni o insetti tra i capelli. Tre volte mi hai disobbedito. Cosa sono io... all’improvviso si fermò quando trovò un bernoccolo incrostato di sangue sul capo del suo bambino.

    Lui trasalì, mentre Mala si fece da parte in maniera tale che la luce fioca della capanna gli illuminasse la ferita.

    E questo com’è successo, Jaki?

    Ancor prima che potesse rispondere lo trascinò dentro, vicino al focolare, dove cuoceva un brodo saporito e una spirale di carne di serpente abbrustoliva sul girarrosto. Mentre sua madre puliva la ferita con un tampone di muschio imbevuto in olio di noci, Jaki le raccontò dell’incontro con i bambini dei Viandanti delle piogge. Perché mi chiamano demone-bambino? le chiese.

    I suoi occhi calmi, profondi e neri come il fitto della giungla risposero al dolore che provava, senza proferire parola.

    Quando lui insistette, lei rispose: Tuo padre era diverso dai padri della foresta. I bambini delle tribù non lo possono capire. Per loro è un demone chiunque non assomigli alla loro gente. Sono ignoranti. Ed erano ignoranti anche con me quando ero bambina. Lo sai, anche tuo nonno viene da una terra lontana...

    Versò la zuppa e la carne arrostita a pezzetti in due ciotole di radice essiccata. Mangiarono insieme. Gli raccontò le storie di suo padre e dei pirati che lo avevano ucciso; gli raccontò anche di suo nonno che era arrivato con un galeone prima e se ne era andato con la febbre poi. In seguito, prese la Bibbia di Gefjon e gli lesse dell’apocalisse, dal Libro di Daniele. Quando Jaki si sdraiò sul suo materasso di fieno per dormire, la sua mente cominciò a vagare: immaginava volti di regnanti austeri come montagne e nazioni che lottano come formiche nere nella contesa di una carcassa. Il suo volto, accigliato da quando Ferang gli alzò contro la pietra, finalmente si rilassò. Ciò che lo aveva sconvolto non lo turbava più.

    Mala vegliò su di lui, fino quando le sue palpebre cominciarono a vibrare sull’orlo di un sogno. Questa era la terza volta che, di recente, l’aveva lasciata sola tutto il pomeriggio e le lei lo sapeva che era il segnale di un cambiamento: una fine che temeva da quando Jaki era nato. A sette anni, i ragazzi delle tribù lasciavano le loro madri e venivano portati via dagli zii per essere circoncisi. Lei sapeva che il destino di Jaki lo avrebbe portato altrove.

    Accese una candela di cera di felce per allontanare le zanzare e andò in veranda. Un ammasso di stelle aleggiava come una foschia sulle nubi illuminate dalla luna e sciami di lucciole apparvero nel buio della giungla. La notte respirava leggera. In lontananza i tamburi dei Viandanti delle Piogge s’increspavano nel vento. Lei non li capiva. Da donna della costa settentrionale, figlia di pescatrice, che era stata rapita da piccola,  non capì molto di quanto le accadde da quel momento in poi. Solo la fede nel Dio di suo padre la aiutò a tollerare la solitudine e l’ignoranza mentre faceva da madre a Jaki.

    Le ombre pesanti della luna coprirono la radura: erano le ombre del suo passato. Anche se non lo aveva mai incontrato in vita sua, lei lo riconosceva suo padre, l’unico pallido straniero tra gli spettri della sua tribù. Lui e i pescatori svanirono nel fumo della notte, proprio nel momento in cui lei li fissò abbastanza a lungo da capire che erano veramente lì. 

    Sola con suo figlio, affrontava la notte come se li avesse lei quei sette anni. Nulla era cambiato.

    Il vento invece cambiava direzione portando con sé il profumo del gelsomino in fiore dalla foresta e un po’ di freschezza dalle montagne.

    *

    Pieter Gefjon non morì. Nonostante il dolore invadesse feroce il suo corpo e la febbre lo assalisse, la sete di diamanti non era svanita. Ordinò che lo Zeerover continuasse a navigare quella costa sconosciuta.

    Legato al letto e aggrappato alla sua Bibbia perché lo proteggesse dalle visioni demoniache della febbre, Gefjon non poteva più supervisionare la spedizione.

    Il comando passò a Jan van Noot, un agente dei proprietari della nave, la Compagnia Olandese delle Indie Orientali. Alto e di bell’aspetto, con capelli biondi chiarissimi, van Noot era diverso dagli altri: aveva il viso ben rasato e vestiva sempre in modo meticoloso, all’ultima moda dell’Aja. Portava  pantaloni di seta, farsetto incastonato di perle, stivali bianchi con suole rosse, polsini di pizzo, collare di pizzo, pizzo alle ginocchia, pizzo sulla tesa del cappello di velluto e guanti frangiati di pizzo all’aroma di frangipani.

    Non nutriva alcun interesse per il comando dello Zeerover, perciò si accontentò di lasciare la navigazione al nostromo; nel frattempo contemplava la ricchezza dei materiali grezzi che lo attendevano sul Mahakam. Era un libertino di nobili origini, obbligato dalla famiglia a servire la compagnia. Ma la sua forza più grande era sempre stata l’indomabile lussuria. Attualmente si trovava sul Borneo, per fuggire la collera di un potente mercante di Amsterdam del quale aveva sedotto moglie e figlia. Il mercante aveva predisposto, grazie alla sua considerabile influenza nella compagnia, di assegnarlo alla più precaria impresa disponibile.

    Il pericolo non intimidiva van Noot, finché aveva una cabina dove nascondersi e altri uomini da mandare a combattere. Negatagli la possibilità di dare libero sfogo alla sua sessualità rapace, investì tutta la sua ambizione in un ritorno in Europa da uomo ricco.

    *

    Batuh dichiarò la sua vittoria sulle divinità del sud cantando a gran voce al cospetto della giungla, chiedendo acqua fresca ad ogni fermata lungo la costa.

    Quando lo Zeerover raggiunse il Mangiauomini, i tamburi avevano già annunciato il ritorno del cacciatore alle Tribù delle Ombre nell’entroterra.

    I clan si riunirono numerosi alla foce del fiume – tra questi anche i Cacciatori dell’Albero –  per assistere al suo glorioso ritorno.

    Gli indigeni, con i volti striati di rosso, saltavano e si dimenavano al fracasso delle percussioni per dare il benvenuto all’esiliato e agli dei che lo accompagnavano. Nel voler manifestare con fervore il loro saluto, uomini e donne dai corpi lucidati dall’olio di noci, si accoppiavano sulla sabbia. Altri si perforarono le guance con lunghi aghi di palma per poi ballare in cerchio, estatici, con la faccia piena di aculei. 

    Gli olandesi sbarcando dalla lancia che li aveva portati a riva, presero nota di queste dimostrazioni con cenni e sorrisi nervosi. Armarono gli archibugi per poi volgersi a Batuh in cerca di rassicurazione.

    La gente delle tribù si raggruppò per confrontarsi con gli olandesi e con Batuh, che indossava i suoi vestiti europei larghi, fuori misura. Dalla moltitudine emerse l’uomo-serpente, Jabalwan, che aveva viaggiato per tutte le tribù del Borneo e sapeva la fatale verità sugli dei con la faccia da scimmia.

    Accompagnò Batuh e le facce da scimmia tra la gente in spiaggia, fino a un trono di legno ferro. Vi sedeva lo stesso capo che costrinse Batuh all’esilio due anni prima. Il reggente, dal viso smunto, pareva assonnato ora che il suo tempo in questo mondo era giunto al termine. Poiché il ritorno dell’ambizioso Batuh circondato dagli dei significava una cosa soltanto: la fine del suo regno. Come ultimo gesto di sfida, aveva preparato un dono che sapeva avrebbe irritato l’usurpatore.

    Innanzi la calca delle tribù riunite, il capo si presentò alle divinità con la faccia da scimmia con tre casse di bambù di varie dimensioni. La più piccola conteneva piastre d’oro cesellate. Gli olandesi ne furono deliziati. La più grande conteneva zanne di elefante in quantità e gli occhi degli uomini dal volto ustionato si spalancarono. La cassa di medie dimensioni si aprì rivelando una donna nuda.

    Diversamente dalle altre donne della tribù che portavano i capelli corti, unti e lucenti, sopra orecchie penzolanti e che avevano la pelle scura dai tratti decisi, questa donna, dalle fattezze raffinate, aveva la pelle del colore del garofano macinato. I suoi capelli, castani e ondulati, scendevano lungo la pancia fino al ciuffo fulvo di sotto. Innamorato all’istante, van Hoot ebbe una fitta al cuore quando venne a sapere che il capo l’aveva donata in sposa al capitano dello Zeerover. Ma la sua delusione era irrisoria a confronto con la disperazione di Batuh. Poiché il capotribù gli aveva portato via la sua Malawangkuchingang, la ragazza che per prima gli aveva parlato delle facce da scimmia, la bambina bruttina che ora era diventata una donna orrenda e che ovviamente gli olandesi trovavano meravigliosa.

    Per diritto, Malawangkuchingang apparteneva a Batuh. Con una rapida occhiata, si poteva vedere dalle sue mani rovinate e callose che i Cacciatori dell’Albero l’avevano messa a lavorare nei campi durante il suo esilio. La sottrazione illecita della ragazza da parte del capo diede a Batuh un pretesto per sguainare la spada di van Noot e fiondarsi sul trono. Il capo si alzò e incontrò la lama splendente che, attraverso l’abito di pelliccia, trafisse il suo cuore. Quindi afferrò l’uomo ferito mortalmente dai capelli, sotto la corona di pelle di leopardo, e lo strattonò verso di sé piegandolo al suolo. La spada  abbagliante cadde come un fulmine. In silenzio, alzò la testa mozzata del capotribù e una pioggia di sangue cadde sulla sabbia.

    Le tribù ammassate protestarono e si arresero quasi al tempo stesso, in un lamento confuso. I guerrieri dei Cacciatori dell’Albero, che fino a quel momento stavano sorvegliando le altre tribù ai lati, si mossero verso Batuh con i coltelli sguainati.

    Batuh fece oscillare la testa dell’avversario, strepitando contro la folla. Guardatemi! Guardatemi! Gli dei mi guardano! Sono tornato e ho preso ciò che è mio! Gli dei mi sono testimoni!

    Gli olandesi, sconcertati ma costretti a tenere la posizione davanti a Batuh, sguainarono le spade e agitarono gli archibugi per difendersi dalle tribù in rivolta. La loro presenza conferiva a Batuh tutta l’autorità di cui aveva bisogno.

    Consacrato dal sangue del suo predecessore, salì impettito sul trono, ormai capotribù dei Cacciatori dell’Albero.

    La folla agitata aprì un varco per Jabalwan che camminò verso Batuh e si fermò all’ombra della spada. Ucciderai anche lo stregone?

    Batuh abbassò la sciabola e mostrò la testa all’uomo-serpente. Questo è il solo sacrificio che richiedono gli dei.

    Lascia lì quella testa, ordinò Jabalwan. Vieni con me nella foresta. Quindi tornò sui propri passi, tra la gente, fino alle arcate della giungla.

    Batuh strizzò gli occhi nel ponderare le sue scelte. Se avesse seguito lo stregone da solo nella foresta, avrebbe dovuto affrontare i suoi veleni e i suoi trucchi, che in un battito di ciglia gli sarebbero potuti costare la vita. Tuttavia se non fosse andato tutte le tribù avrebbero assistito alla sua plateale codardia.

    Con autorità, Batuh ordinò agli indigeni di radunare le loro offerte più raffinate per gli dei. Poi fece un cenno a van Noot mostrando l’elsa della sua spada. La tengo io questa.

    E con essa la mia benedizione, van Noot sospirò, grato di vedere che le tribù si erano calmate e avevano deposto le armi per tornare alla musica dei tamburi.

    Lo stregone era già scomparso nel fitto della foresta, dunque Batuh si mosse rapidamente attraverso l’adunata. Si affrettò all’ombra di palme di nipa e mangrovie. La luce verde lo avvolgeva nel suo umido tepore, mentre l’esaltazione della spiaggia svaniva man mano nel silenzio.

    Batuh, nonostante la paura, esultava. Questa era la sua casa e nostalgico non poté fare a meno di dare un’occhiata a quei grandi alberi, come contrafforti drappeggiati di rampicanti, con tendaggi di muschio e liane ciondolanti in cima che filtravano la luce del sole. Il verso degli uccelli gli suggeriva in quale direzione si muoveva Jabalwan.

    Il cacciatore di teste lo seguì, arrampicandosi sulla carcassa umida di un albero abbattuto. In quel momento, avrebbe preferito non avere addosso i vestiti europei che impressionarono la sua gente. Intralciavano la rapidità dei suoi movimenti e intrappolavano il calore, tanto che dopo alcuni minuti era già tappezzato di sudore.

    Le zanzare sciamavano mentre il guerriero bramava un po’ di pasta di radice e fango che i nativi usavano per allontanare gli insetti. Passò accanto a formicai torreggianti alti quanto uomini, a fiori screziati di sangue larghi quanto un passo che puzzavano di carne putrida e a un campo di funghi piccoli come perle.

    Nella giungla profonda, dove la frescura della notte si soffermava più a lungo, Batuh trovò Jabalwan seduto a terra, all’ombra di un albero gigante cosparso di funghi. "Z-z-zhut!" fece lo stregone quando Batuh passò senza averlo notato. Il suono imitava perfettamente quello della corda rilasciata di un arco, tanto che Batuh si lanciò a terra rotolando nel fogliame stantio.

    E tu vuoi essere il capotribù dei Cacciatori dell’Albero? rise il vecchio.

    Il guerriero scattò in piedi, scosse i vestiti dalle foglie marce e sguainò la sciabola. Sono tornato con gli dei. Si accorse di avere una voce da rana, quindi aspettò un’istante prima di usarla di nuovo. Nel frattempo, puntandolo con la lama,  si mise a fissare lo stregone con audacia e si accorse che l’uomo aveva gli occhi chiusi. I tatuaggi rossi e serpentini sulle palpebre lo scrutavano. Batuh abbassò la sciabola. Gli dei mi sono testimoni.

    Sono soltanto uomini, Batuh. Jabalwan si rivolse a lui, con la sua voce fumosa. Io so dei nasi larghi e dei loro vascelli. Sono uomini come noi.

    No, sono diversi, ti dico!

    Lo stregone fece una smorfia, soffiando col naso. Puzzano. Hai il loro fetore addosso. Puzzi di qualcosa a cui non piace la luce del sole. Penso che la tua ombra sia già immersa nell’oscurità, Batuh.

    La collera sussultava nel suo petto. Sono il legittimo capo della mia tribù. Ho avuto successo più di chiunque altro nella caccia. Ho offerto più teste. Ho vagabondato in lungo e in largo come le piogge, verso il mare, al villaggio delle facce da scimmia. Sono tornato... e porto i loro doni.

    Jabalwan sorrise. Le sue palpebre tinte di rosso si strinsero. Io e te ci conosciamo sin dall’inizio, da prima che il giorno incontrasse la notte.

    Quindi mi aiuterai? Porterai la pace tra me e gli anziani?

    Pace?, gli occhi dello stregone si aprirono e la repentinità del suo sguardo deciso fulminò il guerriero.  Non stai parlando con un capotribù. E nemmeno con un anziano. Che m’importa della pace? O della lotta? Rise soffiando dalle narici e il suo volto si alzò, fiero come quello di un cobra. Io sono uno sciamano. Vivo nel regno degli spiriti, fuori dalle tribù. Guardo le nuvole nelle mani del cielo, con le schiene volte alla terra. Parlo con la foresta e imparo, dal suo folle appiglio al terreno, come raggiungere quelle nubi.

    Batuh puntò la spada contro Jabalwan. Se non mi aiuti, ti ammazzo.

    Il vecchio sogghignò e alzò la mano sinistra chiusa a pugno. Quando la riaprì un leopardo spuntò alle spalle del guerriero che roteò su se stesso, in guardia, pronto a bloccare un eventuale attacco del felino.

    Nessun leopardo vuole la tua carne acida, Batuh., Jabalwan appoggiò le mani sul ventre. Se ti aiuto cosa mi dai in cambio?

    Il cacciatore di teste fissò lo sciamano ancora una volta, la mascella tesa, la spada tremante nella mano. La sua rabbia si fece più intensa con il risveglio della paura. Poi si placò, mitigata dall’idea di un dono degno di uno stregone. Mise la mano in tasca e tirò fuori il crocifisso dell’olandese morto accecato. Questo è il dio delle facce da scimmia, annunciò. Lo vuoi?

    Il vecchio lanciò uno sguardo tetro al guerriero, quindi richiuse gli occhi. Quando il guerriero pensò di aver fallito, lo stregone alzò la mano lentamente, come una vipera e si fermò ad aspettare con il palmo verso l’alto.

    Batuh nascose un sorriso spontaneo e appoggiò il crocifisso nella mano dell’uomo-serpente, ma senza lasciarlo. Avrò bisogno di un’altra cosa oltre alla garanzia di pace con gli anziani.

    Jabalwan aprì gli occhi senza togliere la mano.

    Il capo delle facce da scimmia è stato ferito al petto con una freccia dei Lanun.

    È un caso fortunato per lui, che fosse Lanun, rispose il vecchio. Fanno il veleno con il calamaro blu degli scogli, ma sono troppo pigri per farlo sempre.

    Puoi darmi un medicamento per la ferita?

    Il pugno dello stregone racchiuse il crocifisso. Annuì. Ciò che cerchi è sotto i tuoi piedi.

    Il marciume delle foglie? Chiese Batuh scettico e accigliato.

    Jabalwan sorrise. È tutto ciò che vedi? l’uomo-serpente frugò nel pacciame e tirò fuori il corpo di una formica che si dimenava. Raccoglimi una manciata di queste formiche rosse, io procurerò il resto.

    Il cacciatore di teste prese una foglia larga appena caduta, la arrotolò a forma di cono e ne strappò un’estremità. Con la linfa appiccicosa di un ramo di arbusto, incollò la giuntura di della coppa e cominciò a raccogliere  le formiche affamate.

    Nel frattempo, Jabalwan si mise a raccogliere minuscoli funghi blu filamentosi attorno all’albero gigante dove era seduto poco prima.

    Quando Batuh arrivò con la coppa traboccante di formiche, il vecchio mise un batuffolo di funghi nel recipiente, chiuse la parte aperta e cominciò a rotolarlo con vigore sulla coscia, impastando così in due ingredienti l’uno con l’altro.

    Fai degli impacchi con questo sulla ferita, ordinò lo stregone. Brucerà. E avrà la febbre durante la notte. Ma all’alba recupererà vigore. La ferita guarirà pulita.

    Batuh infilò la spada tra la cintura e il fianco per poi prendere la purea incartocciata. Non scorderò mai il tuo aiuto, Jabalwan.

    Il vecchio alzò il crocifisso. Accetto questo amuleto per la mia medicina. Tuttavia... Per la pace con gli anziani e le loro famiglie non mi hai ancora pagato.

    Che vuoi?

    Una vita.

    Batuh lo guardò in malo modo.

    Non la tua, disse lo stregone. E non ora. Una vita, quando la reclamerò.

    Il guerriero annuì. Jabalwan gli voltò le spalle per scomparire nella verde oscurità della giungla. Una scimmia strillò e un serpente scosso dal vento cadde dal tetto della foresta.

    *

    Jaki si svegliò nel bel mezzo della notte, sobbalzando per il dolore procurato dalla sua ferita. Il ghigno volgare di Ferang e dei Viandanti delle Piogge, con le loro pietre alzate, si dissolse nel buio famigliare della capanna e le risa di scherno nel vagare dei rospi. Saltò giù dal letto e corse all’amaca dove dormiva sua madre. Aveva bisogno del suo conforto per la sensazione spiacevole di avere un chiodo piantato in testa. Voleva rassicurazione, benché sapesse, senza saperlo esprimere a parole, che si era spinto oltre la possibilità di ricevere il suo aiuto – e questo lo terrorizzava ancora di più facendogli bramare il suo affetto.

    Quando la raggiunse non la toccò. Vedendola dormire e respirare pacifica, il dolore delle sue ferite arrivò dritto al cuore.

    Era bella quanto il panorama dall’altopiano del giorno prima, dove poteva rimirare il mondo espandersi sotto di lui.

    Indietreggiò, tanto da poterla vedere nella sua interezza, con le ginocchia piegate e le mani incrociate sotto il mento. Pareva una bambina, piccola come lui. Un sospiro d’amore lo tenne calmo mentre le ombre s’infittirono nella stanza. E in quella visione estatica, percepì qualcosa di quell’apprensione che l’aveva turbata mentre sedeva accanto a lui, prima che si addormentasse.

    Anche lui si rendeva conto che un cambiamento era avvenuto tra loro. L’aveva percepito per la prima volta dopo aver oltrepassato i campi di fiori, quando si guardò indietro e vide la sua sagoma rimpicciolita di fronte all’immensità della giungla. Un giorno avrebbe lasciato la valle e viaggiato quell’immensità per adempiere il suo destino nel mondo, proprio come suo padre e il padre di Mala prima di loro. Ma cosa ne sarebbe stato di lei, quella bambina, che era sua madre?

    Una falena gli svolazzò sulla guancia e lo riportò alla realtà. I polmoni gli si riempirono della freschezza di rugiada della notte e lo portarono indietro, nell’oscurità del suo giaciglio

    *

    Nel momento in cui Batuh emerse dalla foresta, gli olandesi avevano già scoperto con stupore che Malawangkuchingang parlava una lingua che potevano capire, benché fosse lo spagnolo, la lingua del nemico dei Paesi Bassi.

    La sua bellezza eterea li conquistò. Van Noot riusciva a mala pena a non toccarla. Era stato lui ad avvolgerla in un velo, per coprire la sua nudità, con fare cerimoniale.

    Malawangkuchingang invece fu felice per il ritorno trionfale di Batuh, poiché i Cacciatori dell’Albero l’avevano maltrattata per due anni interi durante la sua assenza. Nonostante fosse il suo rapitore, l’aveva sempre trattata con riguardo grazie al sapere che gli poteva offrire. Quando le ordinarono di andare con gli olandesi sul vascello per somministrare la cura di Jabalwan al capitano obbiettò, ma non poté rifiutare.

    Batuh prese atto dell’adulazione negli occhi degli olandesi e realizzò all’istante quanto utile potesse tornargli quella donna del nord, per lui così brutta, nel portare a compimento la sua ambizione di impossessarsi delle teste degli europei – le stesse teste che gli avrebbero assicurato l’autorità tra le tribù. Promise a van Noot che avrebbe fatto curare il capitano e  che, nel frattempo,  avrebbe preparato la mercanzia. Gli olandesi guardavano il fagotto medicamentoso con scetticismo. Per van Noot, l’alta donna dalla pelle di garofano aveva un’attrattiva ancora più forte dell’oro e dell’avorio; dunque ordinò che venisse condotta a bordo, sebbene non nutrisse alcuna speranza nella medicina dello stregone.

    *

    Alla vista offuscata di Pieter Gefjon, la ragazza indigena brillava, l’aura attorno al suo viso, i capelli lucenti e arruffati. Il dolore si era fatto più intenso nei due giorni successivi all’arrembaggio, così come la febbre.

    È molto malato, disse Malawangkuchingang a van Noot, in spagnolo. Respirava con la bocca per non sentire il fetore di carne marcia che intasava la cabina.

    Gefjon la guardava con uno sguardo febbrile. Ho la medicina per la tua ferita, disse nella lingua del nemico e, in quel momento, seppe che quella ragazza era arrivata nelle vesti seducenti della morte. Strinse la Bibbia ancora più forte. Era arrivata come una leonessa che il Signore aveva mandato per scovare la sua anima. I suoi artigli erano conficcati nella sua carne sin dal momento in cui la freccia gli aveva trafitto il costato. Illuminato da questa rivelazione, si alzò verso di lei e il dolore che ardeva nel suo petto divampò. Cadde di nuovo all’indietro, in un grido strangolato.

    Van Noot si avvicinò al capitano. Questa medicina potrebbe essere veleno.

    La medicina migliore, dunque, sorrise Gefjon, la barba fradicia di sudore.

    Lascia che la leonessa mi prenda.

    Malawangkuchingang aprì la camicia del capitano. La sua meraviglia per il candore della seta e i bottoni cerulei di abalone, svanì alla vista della ferita. Somigliava a una smorfia, con le labbra nere cauterizzate attorno alla cicatrice increspata, grumi di sangue e un liquido giallastro che vi fuoriusciva. La giovane si rivolse a van Noot. Potrebbe essere troppo tardi. Dovete tenerlo giù.

    Aprì il fagotto di foglia e un fetore viscido pervase la stanza. Rapida, premette la purea violacea nella ferita. Un dolore lancinante percosse Gefjon e con un solo colpo lo stese.

    *

    Il pomeriggio successivo, dopo una giornata di scambi proficui di merci olandesi per le ricchezze della giungla, la febbre del capitano cessò. Si svegliò per un attimo e trovò la ragazza indigena accanto a lui. Malgrado i calorosi inviti di van Noot nella sua cabina, lontano dal puzzo della ferita, lei restò accanto al capitano, consapevole del fatto che non era un uomo tanto diverso da suo padre – uno straniero che non aveva conosciuto mai.

    Gefjon studiò la piega dei capelli castani, il naso altero e la profondità mediorientale dei suoi occhi. Avrebbe voluto ringraziarla per aver alleviato il suo dolore, ma il tocco della giovane lo disincarnava e la sua voce non era più adatta allo scopo. Aveva il profumo dell’aldilà, dolce e azzurra come la neve, burrascosa, come un temporale in lontananza. Chiuse gli occhi e il viso moresco della ragazza lo accompagnò nell’oscurità. Perché hai paura? Sembrava chiedergli la sua espressione. La fossa è una culla. La terra è il nido del paradiso.

    Lui la scrutava dalla fessura delle palpebre socchiuse e ammirava i suoi occhi, pieni della grazia di un diavolo determinato a trattenerlo in questo mondo, a mitigare il timore dell’indecisione e a spedire la sua anima di nuovo nella fredda carne. Era irresistibile.

    Quella notte la Bibbia gli era caduta dalle mani, lei la raccolse, ricordando il Libro come il conforto dei suoi anni da orfana. Era pesante come la Bibbia del prete che aveva conosciuto da piccola e come quella era rilegata in pelle e stampata in latino, l’unica lingua che sapeva leggere. Aprì il tomo e, per calmare l’irrequieto capitano, lesse il primo verso che le balzò all’occhio: Rallegratevi, poiché i vostri nomi sono scritti nei cieli.

    Il capitano s’addormentò e la voce di Malawangkuchingang lo seguì. L’eco di quelle parole sciamava e ronzava nella sua testa: scritti nei cieli. Squarci di luce apparvero nell’oscurità dov’era caduto. Ogni venatura scriveva un nome, un frullio di lettere lucenti del colore delle stelle.

    *

    All’alba il dolore non c’era più, si sentì abbastanza forte da alzarsi dal letto e usare il gabinetto. Espresse la sua gratitudine inginocchiandosi alla branda che era quasi diventata il suo letto di morte e pregò insieme all’indigena che lo aveva salvato. Per ricompensarla del suo aiuto, gli garantì un posto sulla prima scialuppa per ritornare da Batuh.

    Gefjon era molto contento dei progressi fatti con il commercio. Le tribù, vogliose di ottenere le merci olandesi, avevano scambiato grandi quantità di zenzero, noce moscata, corna di rinoceronte e argento. Tuttavia i diamanti che avevano spinto Gefjon attraverso tutte quelle sofferenze non si vedevano. Batuh gli assicurò che esistevano e che erano custoditi nell’entroterra per i rituali. Sarebbero stati spediti entro due giorni. Come prova mostrò al capitano un sacchetto di vescica di pesce dicendo, la ragazza, Malawangkuchingang, ti era stata donata dal vecchio capo. Con questi te la ricompro.

    Gefjon aprì il sacchetto. Ebbe un brivido alle dita quando riconobbe due pezzi di minerale color fumo all’interno. Diamanti, sussurrò.

    "Certo, Tuan. Alla festa di ieri sera, una tribù dell’entroterra, i Viandanti delle Piogge, me li ha donati come tributo. Loro chiamano queste pietre lacrime del dio della montagna."

    E ce ne saranno ancora? Chiese Gefjon, cercando di valutarne il peso e realizzando  con crescente stupore che erano veramente grandi come noci.

    Oh sì – molti ancora, promise Batuh. In realtà, non aveva richiesto altri diamanti a nessuno. Al contrario, si era accordato in segreto con i Lanun perché s’impossessassero dello Zeerover al largo, lasciando a lui le teste bionde.

    Anche con la promessa di altri diamanti, il capitano si sentiva a disagio a restare troppo a lungo nella natura selvaggia dell’estuario. Non si fidava fino in fondo del nuovo capotribù e temeva che i pirati potessero apparire da un momento all’altro. Sicché diede l’ordine di preparare la nave per salpare la notte stessa, con la marea.

    Seduto, da solo, allo scrittoio della sua cabina con i diamanti e la Bibbia nelle mani –  la ricchezza e l’oltretomba nella sua morsa –  e, in più, le vestigia della febbre ad affinare la sua percezione, Gefjon contemplava la visione che aveva avuto durante la convalescenza. La febbre lo aveva fatto precipitare in un pozzo nero screziato dal fuoco. Fiammelle si biforcavano per formare vere e proprie lettere e queste lettere formavano minuscoli nomi. Nomi che come rami facevano parte di un albero di fuoco. No –  non un albero, ma un reticolo di venature nella roccia nera del pozzo della febbre, come scavate dai vermi. Che cosa significavano quelle immagini?

    Aprendo la copertina della Bibbia lesse i nomi dei suoi genitori, scritti accanto alla loro data di nascita: Kee (1553 - ) e Jaki (1548 - ). L’apposito spazio che aveva lasciato per il suo nome era ancora vuoto. Da quando gli era stata data la Bibbia, vent’anni prima, ovvero quando lasciò casa per l’accademia navale, credette alla comune superstizione per la quale, se avesse scritto il suo nome nel Libro prima della morte naturale dei suo genitori, si sarebbe condannato a una morte precoce. In quel momento, quando stappò il barattolo dell’inchiostro e prese la penna, si rese conto che lo spazio vuoto non stava aspettando solo il suo nome, ma anche la sua visione. Firmò il libro con accanto la sua data di nascita e poco più in basso scrisse in Latino: Ho visto il leone del momento finale – sorveglia la miniera delle firme.

    *

    Quando Batuh venne a sapere che lo Zeerover era in partenza quella sera con la marea, scomparve. Le tribù erano troppo soggette alle facce da scimmia per ribellarsi e mozzare le loro teste, laddove i Lanun non sarebbero arrivati ad aiutarlo prima dell’alba del giorno dopo. C’era solo un modo per mantenere la preda in quella posizione prima che la trappola fosse pronta.

    Batuh, con i vestiti smisurati e la corona di piume a fontana, camminò ad ampie falcate verso Malawangkuchingang, separata dalle altre donne, sulla spiaggia.

    Brezza Chiara tra le Palme, disse. Lei fremette nel sentirlo usare il suo nome per intero. L’ultima volta che l’aveva fatto, le aveva annunciato il suo piano di sfidare gli anziani e rischiare l’esilio. Mi serve il tuo aiuto.

    Qualsiasi cosa posso fare per te, mio capo, la farò. Le sue mani si posarono sul petto del guerriero e questi le raccolse nelle sue.

    Questa volta ciò che ti chiederò per me, Brezza Chiara, sarà impegnativo. I suoi occhi a mezza luna cercavano il viso della

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