Vietnam What? 2
By Gianni Ruffo
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Book preview
Vietnam What? 2 - Gianni Ruffo
Khe Sanh
Ego te absolvo, in nomine Patri et Filii et...
"Padre non voglio morire, mi aiuti! Ce la farò? Non
sento più le gambe e ho le budella in fiamme. Cosa
mi è successo?"
La sua mano mi stritola il braccio destro e mi
impedisce qualsiasi movimento, anche di dare la
benedizione a quel povero ragazzo steso su un
poncho allagato di sangue; un giovane soldato,
dilaniato dal tiro al bersaglio giornaliero che ormai
da settimane pare sia il passatempo preferito delle
truppe Nord Vietnamite che circondano Khe Sanh.
Tutti i giorni e tutte le notti piovono colpi di mortaio
e di cannone, impedendo anche il semplice
svolgimento delle più elementari azioni di vita
quotidiana, senza dimenticare gli assalti lungo tutta
la linea difensiva della base. E’ talmente pericoloso
stare fuori che ho addirittura visto soldati imbottirsi
di pillole contro la diarrea per ridurre al minimo le
uscite allo scoperto.
E' normale che durante la guerra tutto venga
stravolto, ma quando sei accerchiato e
numericamente inferiore ai nemici c'è poco da stare
allegri. Ti vengono in mente tanti paragoni di simili
situazioni che si sono create nelle guerre
combattute da quando l'uomo ha iniziato a
popolare la terra: dall'assedio di Troia a quelli delle
guerre sante che vedevano i cristiani ed i
musulmani combattersi e circondare le città per
lunghissimi periodi, a Stalingrado, a Montecassino,
a Bastogne.
Come dimenticare tutti gli assalitori via mare che,
dopo aver imparato l'uso della polvere da sparo,
attaccavano da lontano a bordo delle navi sino a
quando le città costiere non erano costrette alla
resa oppure erano loro stessi costretti alla fuga.
Sono stati tanti gli esempi, e non sempre gli
aggressori hanno avuto la meglio ed hanno portato
a compimento le loro intenzioni.
I nostri comandanti sapevano che prima o poi
sarebbe successo perché, proprio qui in Vietnam, si
è combattuta una battaglia simile meno di quindici
anni prima. Dien Bien Phu. Stessi attaccanti, altri
difensori, tragico epilogo.
Erano già diversi mesi che i Nord-Vietnamiti
ammassavano truppe lungo la linea di confine e le
loro intenzioni erano chiare e non lasciavano dubbi
sugli obiettivi. Probabilmente, dopo la chiusura
dell’unica via di comunicazione terrestre con la
base, in qualche quartier generale erano fortemente
speranzosi che le cose potessero avere questo
epilogo. Avrebbero potuto ancora una volta
mostrare l’enorme potenza di fuoco americana per
difendere la base ed infliggere pesanti perdite ai
nemici in una battaglia campale, fiaccando così, sia
il morale che le riserve umane e belliche per ridurre
fortemente la pressione in tutto il paese. Attirare
come la carta moschicida il nemico sino a spingerlo
vicinissimo alla base e poi colpirlo con la massima
potenza di fuoco disponibile.
In teoria doveva essere così, ma in pratica non sta
andando proprio così. Anzi: sono loro che,
approfittando di questa situazione, hanno fatto sì
che diminuisse l’attenzione nel Sud per poi
attaccare ferocemente in tutto il paese in occasione
del Tet.
Hanno creato il diversivo Khe Sahn per celare le
loro vere intenzioni.
E lui mi guarda, mi implora di salvargli la vita, mi
supplica di non abbandonarlo, di stargli vicino. Io
non sono né infermiere né medico, ma un semplice
prete cattolico di provincia che ha il compito di
rifornire i cappellani militari in tutto il Vietnam di
ostie, calici, paramenti religiosi, testi sacri ed ogni
altro strumento che serva per essere di conforto
spirituale e per salvare le anime dei nostri soldati.
Non è la prima volta che come sacerdote impartisco
l'estrema unzione ma, in questo caso, mentre il
corpo del povero ragazzo è completamente dilaniato,
la sua mente è perfettamente lucida e consapevole
di quanto stia accadendo e, soprattutto, di cosa
potrebbe accadere.
Mi stringe, mi implora, mi fa sempre più male, ma
io non posso fare nulla.
La mia impotenza mi stordisce, mi sentirei
completamente inutile, se non fosse per
l’importanza che ha la mia presenza fisica per
questo povero ragazzo. Farsi stringere il braccio,
dandogli la speranza che possa continuare a vivere
tenendomi attaccato a lui, come se con quel
contatto fisico potessi trasmettere parte della mia
energia per tenerlo ancora in vita.
Cerco di farlo parlare e di tenere viva la sua
attenzione per non farlo andare sotto shock e provo
a fare qualche domanda mirata. Una dose di
morfina sulla spalla allevia momentaneamente le
sue sofferenze e la presa al mio braccio;
sistemandogli la testa sulle mie gambe gli chiedo
chi sia e da dove venga. "Padre, mi chiamo George,
ho 19 anni e vengo dalla Louisiana. Ho ricevuto la
cartolina di precetto, mi sono presentato per
l'addestramento e dall'inizio di dicembre sono
arrivato in Vietnam e subito assegnato alla base di
Khe Sanh. Faccio parte dei Seabees (CBS
Construction Battallions), in pratica siamo quelli
che tra un colpo di cannone ed uno di mortaio,
soprattutto quando è in arrivo qualche aereo con i
rifornimenti, devono risistemare quello che resta
della pista di atterraggio e quindi riempire e
sistemare le buche o, se le cose sono andate male,
togliere le carcasse degli aerei colpiti che bloccano
la pista. Arrivano i nostri, scaricano di tutto sotto
una pioggia di bombe e noi dobbiamo sistemare al
meglio la pista per l’atterraggio successivo. E così
questa giostra si ripete all'infinito, mentre loro si
divertono a vederci correre su e giù per non essere
uccisi. Hanno un’ottima mira tanto da colpire in
pieno il deposito delle nostre munizioni, com’è
successo proprio all’inizio di questa battaglia. Non
so se sono fortunati o hanno qualcuno che li
informa dall’interno della base. Noi stiamo
resistendo, ma a che prezzo? Ho già sentito da altri
della mia compagnia, che sono quasi alla fine del
loro anno di permanenza, che a volte dopo aver
combattuto per conquistare o difendere una base o
una collina, questa viene poi tristemente
abbandonata perché ritenuta non più strategica
senza il minimo rimorso per il numero di vite che
sono state sacrificate.
Strana strategia: noi facciamo da esca e quando
veniamo attaccati, i nord vietnamiti dovrebbero
essere colpiti dalla nostra aviazione in modo
massiccio, ma non sempre è possibile. Spesso c’è la
nebbia e nubi cariche di pioggia impediscono sia
l’attacco aereo che il nostro rifornimento, mentre
loro hanno già puntato cannoni e mortai e
continuano a martellarci."
Si ferma con il racconto ed io approfitto per
segnarlo con la croce sulla fronte. Dal mio gesto, si
rende conto che è in pericolo di vita e subito
riprende il suo racconto come per sfidare la morte e
dimostrarmi che lui è un duro e ce la farà. Cerco la
borraccia, provo a dargli dell’acqua a piccoli sorsi e
gli bagno anche il viso per dargli un minimo di
sollievo. Con quel gesto, non posso fare a meno di
notare il colore della terra rossa di Khe Sahn che
mista all’acqua assume un colore porpora mentre,
se bagnata dal sangue, diventa scura e minacciosa
di tristi presagi. Gli passo allora le mie dita bagnate
sugli occhi così da non fargli vedere la differenza e
tenerlo calmo il più possibile.
"Non sono un eroe, non tornerò a casa vantandomi
di aver eliminato molti charlie ma mi rendo conto di
essere uno dei tanti ingranaggi di una enorme ruota
dentata che gira da qui alla nostra Nazione.
Ognuno deve fare il proprio dovere e farlo bene. Mi
hanno insegnato a sparare in addestramento ma da
quando sono arrivato qui, il mio fucile non ha mai
sparato un colpo ed ho solo utilizzato bulldozer e
pala per scavare trincee o riempire le enormi buche
sulla pista. Se non sistemiamo tutto ed alla svelta,
non riceviamo i rifornimenti e rischiamo sempre di
più. Potrebbero scarseggiare le munizioni o i
farmaci per i feriti e quelli ridotti peggio non
potrebbero essere evacuati. Si, ho fatto il mio
dovere come mi hanno ordinato ed ora voglio essere
evacuato anch’io. Mi aiuti Padre, mi faccia salire sul
primo volo che parte".
Io cerco di lenire le sue sofferenze e di stargli vicino
in attesa che qualcuno venga a prenderlo o,
almeno, che riesca a vedere qualcuno da chiamare
per farlo curare ma, nel silenzio più totale di quei
lunghi ultimi minuti, un triste sibilo si sente in
lontananza. Si avvicina sempre più e tu speri che
vada lontano e ne possa sentire la sospirata
detonazione.
L’interminabile attesa del boato, rende quei secondi
eterni, come se la tua vita fosse momentaneamente
sospesa. Come se tutto avesse un’altra dimensione
e lo scorrere del tempo fosse completamente
alterato, con momenti rapidissimi ed altri infiniti. Il
fischio continua e il proiettile prosegue la sua
discesa di morte. Cerchi di utilizzare al massimo
tutti i tuoi sensi per tentare di capire dove possa
cadere. Gli occhi sgranati, le orecchie tese nel
provare ad indovinare la direzione della traiettoria e
la testa che prega Dio di non essere tu il
predestinato. Il cuore impazzisce e sembra voler
schizzare via dal petto mentre le mani sudano e
tremano al tempo stesso. Sembra un secolo ma
sono solo pochi, interminabili ed eterni secondi di
vita. Lo scoppio è assordante, ti disorienta, lo
spostamento dell’aria rende vano ogni tensione
muscolare e diventi come una nave in balia della
tempesta.
Stordito dal rumore ed accecato dal bagliore,
impiego qualche secondo per cercare di fare il
punto della situazione e rendermi conto
dell’accaduto. Dopo essermi accertato di non aver
riportato danni, quasi cieco, come prima cosa cerco
con le mani sulle mie gambe la testa di George ma
non la trovo. Il cuore ricomincia la sua folle corsa
ed a tentoni cerco di trovarlo intorno a me, ma
nulla. Ho una paura tremenda a pronunciare il suo
nome perché ho il terrore di non ricevere risposta e
con gli occhi spalancati ma accecati dal bagliore, mi
sforzo di capire meglio la situazione e mi accorgo
che lui è steso dove eravamo prima dell’esplosione
ed io sono stato scaraventato a circa quattro metri
senza riportare nessun danno, perché le schegge
sono state fermate da alcuni sacchi di terra a
protezione della vicina trincea. Mi muovo
strisciando in fretta verso di lui, terrorizzato da
quanto accaduto e dalle possibili conseguenze
mortali del colpo. Non si muove, non parla e non
riesco neanche a vedere da lontano il movimento
del petto nel momento del respiro. Mi alzo quasi in
piedi ma barcollo e cado in avanti sbucciandomi i
palmi delle mani, ma mi affretto ad avvicinarmi a
George. Sono ancora sordo e non riesco a sentirne il
respiro. Mi bagno la mano, la accosto alla sua
bocca e sento entrare ed uscire debolmente l’aria.
Felice come un bambino ed incurante dell’arrivo di
altri colpi, avendo riacquistato un minimo di vista
ed equilibrio, corro verso la tenda ospedale
facendomi preannunciare dalle mie urla. Prima del
mio arrivo, si affacciano due soldati che con una
barella mi vengono incontro. Gli indico il punto
preciso dove si trova George e corrono come fulmini
per andarlo a prendere. Io entro nella tenda per
lavarmi almeno le mani sporche di sangue ed in
pochi attimi entrano anche i due soldati con la
barella e George ancora vivo. Lo sistemano su un
tavolo improvvisato e mi chiedono di uscire. Prima
di farlo, mi avvicino e gli accarezzo il viso. Lui sente
il contatto della mano, apre a stento un solo occhio
e dopo avermi riconosciuto abbozza un sorriso. Mi
allontano come ordinatomi e mi accosto in un
angolo a pregare.
Sono talmente assorto nella preghiera che è come
se fossi in una gigantesca bolla e tutto intorno a
me, in quel momento, non esistesse più. Poi una
enorme mano sulla spalla mi riporta bruscamente
alla realtà: "Bene Padre, il suo amico ce la farà. Lo
abbiamo ricucito, ora è debole ma lo manderemo
via con il primo volo. Potrà ricevere cure migliori in
ospedale e poi tornerà a casa". Sposto la tenda che
mi separa da una improvvisata sala operatoria e
vedo George steso sul tavolo dove gli hanno
prestato le prime importanti cure che mi ringrazia
con la mano, con lo sguardo. Io, senza entrare, gli
mando la mia benedizione e gli auguro di rimettersi
presto e tornare a casa.
Però ora devo trovare il Cappellano della base e
consegnargli tutto quello che aveva richiesto. Esco
dalla tenda in un momento di calma apparente e
chiedo informazioni su dove sia alloggiato il
Cappellano Fred Wells. Mi indicano un gruppo di
sacchi e mi dicono che nascosto lì sotto, tra le altre
cose, c’è anche il posto dove dorme il cappellano.
Torno all’improvvisato magazzino dove ho lasciato
lo zaino con tutta la roba da consegnare e trincea
dopo trincea, seguo il percorso obbligato per
raggiungere il bunker.
All’ingresso del primo, chiedo dove sia il mio collega
religioso e mi dicono di attraversare tre stanze
quasi sotterranee ed alla fine sarò arrivato.
Mi introduco all’interno e chiedendo permesso per
l’intrusione mi faccio largo tra scarponi, elmetti e
lattine di birra, fino al terzo locale-dormitorio. Non
trovo nessuno, ma ugualmente tiro fuori dallo zaino
tutto quello che ho portato, sistemandolo nel
migliore dei modi su un piccolo tavolo che funge
anche da altare. Torno indietro ed ora invece è il
momento di trovare dove sistemarmi per la notte
perché per oggi sono previsti solo altri due
atterraggi che ripartiranno carichi di feriti e quindi
per me non ci sarà posto.
Rifaccio al contrario il tortuoso percorso nella
trincea ed arrivo dove mi avevano detto che avrei
trovato delle brande libere. All’interno ce ne sono
sei e solo tre sono già occupate. Ne scelgo una ed
esco alla ricerca del cappellano. Mi dicono che sta
celebrando e mi affretto per non perdere la
funzione. Arrivo che hanno iniziato da poco e lui,
riconoscendomi, mi invita sull’altare a concelebrare.
Sono ancora sporco di terra e del sangue di George,
ma in un attimo mi tolgo la camicia e la infilo al
contrario, così da sembrare meno sporco agli occhi
di tutti. Finita la messa, possiamo finalmente
conoscerci ed io gli spiego come mai ho tardato ad
incontrarlo da quando sono arrivato e di quello che
mi è capitato con George. Restiamo insieme per
diverso tempo e poi mi accompagna dove ho lo
zaino per potermi cambiare e per cercare qualcosa
da mangiare. Nel frattempo si è fatto buio e sento
salire improvvisamente la tensione tra tutti i
soldati. Anche il Cappellano Wells ha un
comportamento diverso. Si rende conto della mia
perplessità e mi spiega che a breve inizieranno a
martellarci.
Approfittano
dell’oscurità
per
avvicinarsi alla base e colpirci in modo pesante e
continuo. Questa notte però è limpida e non ci sono
nuvole, così potremo rispondere al fuoco e non ci
sorprenderanno.
Ormai questo è lo scandire del tempo: scambio di
colpi il più preciso possibile, prestando la massima
attenzione affinché non arrivino in forze via terra ed
attenti a non colpire i nostri che escono di
pattuglia. Proprio in quel momento si sentono le
radio che avvisano della pattuglia che rientra dopo
aver sistemato le trappole per la notte e tutto quello
che c’era disponibile per avvertirci su un attacco via
terra: lattine vuote, filo spinato rinforzato e bloccato
sul terreno, mine Claymore e granate pronte ad
esplodere non appena le tocchi o togli il filo ben
nascosto nell’erba.
Dopo aver sparato qualche razzo che illumina quasi
a giorno una parte del perimetro della base, si vede
chiaramente il fumo colorato che segnala il ritorno
dei nostri.
Viene dato l’ordine di non sparare e, via radio, l’ok
per l’ingresso. Entrano velocissimi correndo allo
scoperto a zig-zag e si tuffano nella prima trincea
che incontrano. Da quanto riferiscono, pare che nei
dintorni non abbiano