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Antologia criminale 2018
Antologia criminale 2018
Antologia criminale 2018
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Antologia criminale 2018

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About this ebook

Un viaggio nella scrittura nera della provincia italiana, tra miseria umana e delitti, tra disperazione e falsi sentimenti. Non c’è speranza tra i racconti dell’antologia criminale del premio letterario Garfagnana in Giallo Barga Noir 2018.
In questa antologia: Piccole amiche di Chiara Bernardoni; L’origine del meccanismo di Valeria De Cubellis; La lettera di Maurizio Polimeni; Killing Hosni di Laura Piva; Solidarietà montanara di Maria Rosa Aldrovandi; Le debolezze dell'amore di Andrea Bazec; Una cena speciale di Patrizia Dellavalle; L’orizzonte mancante di Paolo Puliti; Un gioco da ragazzi di Allegra Iafrate; Blue Moon di Rosa Santi; Fiordaliso di Iacopo Riani; La mancia è gradita di Emiliano Bezzon; Verrà la morte di Fulvio Rombo; Cuore nero di Francesca Petrino; Il gioco del salto alla corda di Erica Gibogini; In viaggio -  ? ???? di Bruno Giannoni; Una pianta dai fiori gialli di Cristina Orlandi; Il delitto di villa Elena di Bruna Baldini; Anno Domini 1609 di Giuliana Ricci; Lo spartito di Marco Bonini; Il verdetto del silenzio di Claudio Vastano; Liberazione di Luca Zambelli; San Pellegrino Re di Pietropaolo Pighini e Maria Enrichetta Cavani.
LanguageItaliano
Release dateNov 23, 2018
ISBN9788899735784
Antologia criminale 2018

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    Antologia criminale 2018 - autori vari

    9788899735784

    PICCOLE AMICHE di Chiara Bernardoni

    Scendevano sempre al tramonto, ma la mia ospite non se ne sarebbe andata prima di quell’ora.

    Avevo preparato all’aperto: la tavola, apparecchiata in giallo girasole, profumava di lavanda e salsedine. Le onde, dieci metri più sotto, s’infrangevano morbidamente sulla scogliera scintillando sotto il pigro sole del tardo pomeriggio. Il rumore della risacca faceva da controcanto al cinguettio degli uccelli. Era tutto perfetto, come doveva essere.

    Sistemai sulla tavola la torta di mele, qualche tartina, arachidi, una caraffa di vino bianco ghiacciato e una bottiglia di acqua minerale.

    Bastava: era un incontro d’affari, non una festa. Il suono del campanello mi avvisò dell’arrivo di Agata.

    – Sono sul terrazzo! – gridai.

    Prese la scala esterna, conosceva la casa.

    La guardai salire: una donna alta, robusta ma un po’ curva, dai lineamenti vagamente cavallini e gli occhi piccoli. Avvolta in un ampio vestito grigio, gettava ombra come una nuvola.

    – Ciao, benvenuta.

    – Ciao, hai avuto davvero una buona idea… meglio trovarci qui che in ufficio.

    – Mi hai proposto tu di vederci in modo riservato. Ma, accomodati, prendi una tartina?

    – Grazie.

    – Un po’ di vino? – e le riempii il bicchiere senza aspettare risposta.

    La conoscevo abbastanza per sapere che alle diciotto si cominciava con l’alcol.

    Versai del vino anche per me: il bicchiere appannato dava una piacevole sensazione di fresco.

    – Sempre bello, questo giardino… e che vista splendida: hai di fronte tutto il golfo. Poi, questo mare, così vicino! – esordì, si alzò e si sporse dalla balaustra per guardare le onde. – Non è nemmeno una casa troppo isolata: hai vicini a destra e a sinistra. – continuò.

    Il che, visto che vivi sola, non è male – sentenziò, tornando a sedersi.

    Aveva divagato abbastanza. Decisi, e chiesi: – Allora? Di cosa vuoi parlarmi?

    Agata rovistò nella borsa e si accese una sigaretta. Le tremavano un po’ le mani.

    – Sei curiosa, eh? Vengo al punto. Come ben sai le nostre rispettive ditte operano, più o meno, nello stesso campo. In questo momento di crisi, però, le piccole aziende sono ad alto rischio: per sopravvivere bisogna avere grandi capitali e grandi fatturati.

    Mi studiò, aspettandosi, forse, un cenno di approvazione. Non lo ebbe.

    Si schiarì la voce e continuò. – Ho pensato, quindi, di proporti una fusione delle nostre due società, fusione che potrebbe portare dei vantaggi ad entrambe. Si tratterebbe di…

    – Frena, Agata – la interruppi bruscamente – Potrebbe portare dei

    vantaggi a te; a me, no di certo.

    Mi guardò sconcertata. Non se l’aspettava.

    – Ma perché? Non ho nemmeno cominciato a illustrarti la cosa! – Si era ripresa.

    – Perché so che la tua impresa non va troppo bene, anzi, direi che siete sull’orlo del fallimento. Stai cercando di tirarmi un bidone, mia cara.

    – Ma, ma… non è vero, chi ti ha detto una cosa simile?

    – Una persona molto bene informata. E non propormi di vedere i bilanci perché so benissimo che li avrai truccati ad hoc.

    Mi fissò attonita, senza parole.

    Chissà se ci stava arrivando? Mi chiesi.

    Si accese un’altra sigaretta, lo feci anch’io e sorseggiai il mio vino.

    Tra le volute di fumo, ognuna studiava l’altra. Infine, fu lei a rompere il silenzio – Hai messo una spia nella mia ditta! Che figlia di puttana!

    – Non ci era ancora arrivata – pensai, e risposi – La figlia di puttana, casomai, sei tu, visto che mi stavi rifilando un bidone.

    Comunque, non ho messo nessuna spia.

    – E allora? Com’è possibile… – sembrava piuttosto disorientata.

    Poi la folgorò un’idea e scattò in piedi urlando – No! Te lo ha detto lui! Idiota, porco, traditore! Brutta troia maledetta! – e cercò di tirarmi una sberla.

    La intercettai e le bloccai il braccio. Le appoggiai l’altra mano sulla spalla sinistra. Ero più forte di lei: la costrinsi gentilmente a tornare seduta. Non era quello il momento di picchiarsi.

    – Calmati, così non risolvi niente – sussurrai con tono pacato. Siamo qui per parlare di affari… cerchiamo di stare calme. Comunque sì, me lo ha detto Giorgio.

    Mi squadrò con odio.

    – Ultimamente, sospettavo ci fosse un’altra donna, ma mai più avrei pensato potessi essere tu…

    Poi, distogliendo lo sguardo per nascondere gli occhi lucidi:

    – Ma come ha potuto farsi raggirare in questo modo? – concluse, scuotendo il capo.

    Sembrava quasi più ferita per il tradimento professionale che per quello sentimentale.

    – No, no, non l’ho raggirato, te lo assicuro. Lo sai che mi è sempre piaciuto… Un giorno, spontaneamente, mi ha raccontato i vostri problemi: voleva un mio consiglio sul da farsi, si era reso conto di non essere stato in grado di condurre con profitto l’impresa dopo la morte di tuo padre… e tu non gli eri di grande aiuto! Tutto qui – risposi abbassando gli occhi.

    – Dio, che razza di stupido!

    Agata appoggiò i gomiti sul tavolo e si prese la testa fra le mani, sconsolata.

    – Beh, lo sai che non è brillantissimo… bel ragazzo ma, talvolta, un po’ ingenuo, diciamolo!

    – Ma va all’inferno, va! – si versò altro vino e fece un brindisi di malaugurio al mio indirizzo – E, naturalmente, scordatelo, amica mia: gliela farò pagare cara, e sta tranquilla che non lo vedrai mai più – disse prendendo la borsetta e alzandosi nuovamente.

    Avevo previsto la sua reazione e contavo di riuscire a farla ragionare: – Sì, comprendo la tua rabbia, però vorrei che mi ascoltassi un attimo. Tu sei venuta qui a farmi una proposta truffaldina, ma io voglio fartene una onesta. Ti prego di notare che avrei potuto benissimo nasconderti la mia relazione con Giorgio e rifiutare semplicemente di vederti. Ma così facendo non avrei potuto esporti la mia offerta. Cerca di mettere da parte, per un attimo, il tuo legittimo risentimento nei miei confronti e stammi a sentire.

    Perplessa, si risedette sbuffando in cima alla sedia.

    – Ti ascolto per pura curiosità.

    – Visto che navighi in pessime acque, prima di fallire ti converrebbe dar via la fabbrica. Se vendi a un prezzo ragionevole, io sono disposta ad acquistarla.

    – A un prezzo da strozzina, immagino – rispose causticamente.

    Sbirciai l’orologio: erano le diciannove.

    – Ho qui una bozza di offerta, – le porsi un foglio piegato in quattro – se vuoi gentilmente leggerla…

    Agata scorse rapidamente il contratto.

    – Tre milioni… non sono nulla, solo le macchine…

    – Vedi tu. La tua società adesso vale, come si dice qui a Trieste, una s’cinca e un botòn.

    Tacque, fissando l’orizzonte. Stava valutando, sapeva che non le conveniva rifiutare, ma non stava pensando solo ai soldi. Infatti, dopo un po’, accendendosi l’ennesima sigaretta, domandò con palese ironia:

    – Lo fai per Giorgio, vero?

    Scoppiai a ridere.

    – Vuoi sapere se il prezzo è all inclusive fino a questo punto? Giorgio farà quello che vuole, può restare a lavorare con noi o andarsene. È un uomo libero… o no?

    – Certo, ma tu credi che se perdessi la ditta mi lascerebbe. Tu sei convinta che mi abbia sposato solo per far carriera, perché ero la figlia del padrone.

    Il colore del mare cominciava a virare sul rosso e l’aria si era fatta più fresca.

    – Ti sbagli, so bene perché ti ha sposato. Circa quindici anni fa ci fu, alla ditta, quella disgrazia…

    Agata non cambiò espressione, sbatté solo le ciglia per un attimo, ma era impallidita.

    – Quale disgrazia? – chiese dopo un istante.

    – La morte di Piero Tonini…

    – Ah, sì, non mi ricordo bene… è passato tanto tempo!

    – Ti rinfresco la memoria. Tonini, che abitualmente si recava al lavoro molto presto al mattino, fu trovato all’arrivo degli impiegati sfracellato quindici metri sotto la finestra del suo ufficio. La caduta era avvenuta quando il comprensorio della ditta era ancora deserto: c’era solo il custode, Giovanni, che però disse di non aver sentito nulla e di non aver visto nessuno.

    – Ma questo che c’entra? – non mi lasciò finire, spazientita. Ignorai l’interruzione.

    – Tutto faceva pensare a un suicidio, ma Tonini, apparentemente, non aveva alcun motivo per togliersi la vita, anzi: era un uomo giovane, senza problemi di salute o di famiglia, avviato a una brillante carriera. Quindi gli inquirenti ipotizzarono che potesse anche trattarsi di omicidio. E senz’altro ricorderai chi fu il principale sospettato…

    – Cosa cerchi d’insinuare? – m’ interruppe di nuovo.

    – Non insinuo nulla, sto solo ripercorrendo i fatti accaduti allora.

    Giorgio – continuai – sarebbe stato l’unico a trarre vantaggio dalla morte di Tonini: entrambe erano in corsa per la stessa carica dirigenziale, ma Tonini sembrava essere quello con le maggiori chances. Però, però… saltò fuori che Giorgio aveva un alibi di ferro, alibi che gli fornisti tu, giurando che lui, al momento della morte di Tonini, era con te, a casa tua, dove aveva passato la notte.

    Alla fine, poiché chi aveva movente aveva alibi, chi non aveva alibi non aveva movente, il caso fu archiviato come suicidio.

    – Infatti, e Giorgio era innocente.

    – Certo, era innocente, ma, al momento dell’omicidio, non era con te.

    – Ih ih, – Agata proruppe in una risatina stridula – stai vaneggiando? Certo che era con me, idiota, anche se tu gli facevi gli occhi dolci già allora… chissà come ti è venuto in mente…

    – Me lo ha detto lui, che non era con te.

    Era livida, tuttavia mi guardò negli occhi emettendo un gutturale ma deciso – Non ti credo.

    – Lui non era con te, però, terrorizzato dal fatto di essere accusato di omicidio, accettò la tua offerta: in cambio dell’alibi, il matrimonio. Diciamo che ti sposò per gratitudine, ma era una gratitudine che sapeva di ricatto.

    Tacqui e la studiai: era turbata, ma comunque decisa a non darmi la minima soddisfazione.

    – Una trama stupida e banale, da romanzetto di infimo ordine! Ti sei inventata tutta questa delirante fantasia per giustificare i tuoi fallimenti con Sergio: allora, mi ha sposata, e, adesso, non mi ha lasciata, come avresti sperato. Ma lo sai che fai pena? Finiscila con queste sciocchezze: ti venderò la ditta, i soldi mi servono, ma Sergio resterà con me perché ama me, capito? – rimarcò.

    Brindiamo pure alla tua presente e futura solitudine! – mi restituì la bozza e alzò il bicchiere.

    Gli uccellini avevano smesso di cantare. Era arrivato il momento.

    – Ti ricordi? Giovanni aveva una figlioletta gravemente malata… fosti proprio tu a pagare le costose terapie all’estero, senza le quali la bambina sarebbe morta in poco tempo. Un gesto di grande generosità. – sottolineai, con leggera ironia.

    Agata rimase col bicchiere a mezz’aria.

    – Ti ricordi? Era estate, le finestre erano aperte… tu sei grande e grossa, Tonini era un omino piccolo e mingherlino: non ti fu troppo difficile spingerlo oltre il davanzale, cogliendolo di sorpresa. E ti riuscì altrettanto facile comprare il silenzio del custode con la vita della sua bimba.

    Vacillò, ma rispose con sarcasmo – Vedo che continui a farneticare: arrivi perfino ad accusarmi di omicidio. – Poi aggiunse, con un lieve sorriso di scherno. – Comunque, Giovanni è deceduto, un mese fa.

    – In punto di morte la gente spesso parla, per lavarsi la coscienza… e talvolta anche scrive.

    Agata aprì la bocca, ma non emise alcun suono.

    – Ho qui – dissi alzandomi e mostrando un altro foglio piegato in quattro – una dichiarazione firmata in cui Giovanni testimonia che fosti tu a uccidere Tonini. Hai perso, Agata.

    Mi si avventò contro: – Dammi quel foglio, maledetta!

    – Mai più! – scappai verso la scala che porta al mare. Agata mi spinse contro la balaustra, con una mano mi afferrò il polso destro, con l’altra mi prese alla gola: – Mollalo! – sibilò.

    Arrivarono in tre. In picchiata, velocissime, silenziose. Andarono diritte al volto che divenne in un attimo una maschera di sangue.

    Un occhio pendeva dall’orbita. Le urla di Agata durarono poco: indietreggiando in preda al dolore e al terrore mise un piede in fallo sul primo gradino della scala, scivolò, rotolò e le rocce giù in fondo fecero il resto.

    – Allora, dottoressa, è una storia davvero pazzesca. Cornacchie!

    Morte causata da aggressione di cornacchie. Se non avessi visto con i miei occhi in che condizioni è ridotto il viso della vittima, non ci crederei.

    – Le ripeto, commissario: le bestiole mi sono affezionate, do loro da mangiare ogni sera. Le cornacchie sono animali intelligenti: hanno visto che Agata mi stava assalendo e hanno cercato di difendermi a modo loro. L’avevano già fatto un’altra volta: un amico mi aveva dato, scherzando, uno scappellotto, e si era ritrovato, istantaneamente, con una bella beccata in testa.

    Fortunatamente quella volta non è successo altro.

    – Sono uccelli pericolosi…

    – E che vuol fare? Arrestarle per omicidio?

    – Insomma, per farla breve, avete avuto una discussione, lei è stata aggredita, le bestiacce hanno colpito per difenderla e disgrazia ha voluto che la sua assalitrice finisse per cadere giù per la scala. Mi dice anche che la telecamera della sorveglianza ha registrato la scena. Amen, facciamo il verbale. Mi sembra che il medico legale abbia finito di esaminare il corpo. Eccolo, sta risalendo…

    – Allora, dottore?

    – Stando all’indagine esterna, la morte sembra essere dovuta alla caduta, anche se i colpi di becco hanno prodotto dei bei danni.

    Leggerà la mia relazione dopo l’autopsia.

    – La ringrazio – rispose il poliziotto, seguendo contemporaneamente un altro pensiero. Infatti, disse: – Mi chiedo una cosa, dottoressa: se non fossero intervenute le, ehm, cornacchie, avrebbe potuto essere lei la vittima. Come mai una manager come lei, nota per la sua astuzia, non ha pensato che invitare a casa una rivale in affari, e pure in amore, avrebbe potuto anche creare una situazione rischiosa?

    – Come le ho spiegato, volevo fare ad Agata, con la massima discrezione, un’offerta che, nel suo stesso interesse, non potesse rifiutare. Le ho già mostrato il contratto che le avevo proposto. Purtroppo le cose non sono andate come avevo previsto, il suo odio per me ha preso il sopravvento, ha perso la testa…

    – Già… e quel foglio piegato che ha in tasca cos’è, mi scusi?

    – Oh! Questo, dice? – sorrisi con aria un po’confusa, porgendo il foglietto al poliziotto.

    – Avevo dimenticato di averlo messo qui… è la ricetta della torta di mele che avevo preparato. Peccato che nessuno l’abbia mangiata. Ne vuole un po’, commissario?

    L’ORIGINE DEL MECCANISMO di Valeria De Cubellis

    Il display della stazione meteorologica in cucina diceva che alle sette di mattina c’erano nell’aria trentaquattro gradi e Magreschi li sentiva tutti. Masticava un pezzo di pane e marmellata con la distratta indolenza delle mucche, osservando il solito paio di presine da cucina lavorate all’uncinetto, appese accanto al display, traccia del passaggio di sua suocera nel mondo. «Se restano delle presine, va ancora bene», pensò e si ripeté la frase come un mantra. Uscì sul balcone per osservare la boscaglia silenziosa attorno, poi si voltò a ispezionare le persiane: attendevano da tempo di essere scrostate e riverniciate, ma non le avrebbe restaurate, era ora di venderla, quella casa. Era separato da Cristina da due anni e sua figlia Chiara stava a Londra, ormai in pianta stabile. Non era più il posto giusto per lui e forse non lo era nemmeno mai stato. «Dottore, s’è deciso? Mio figlio se sposa, fa li figlioli e ce li mette dentro sta casona bella, lei che ce mette più, li dispiaceri?»

    Ogni umano ha il proprio talento, quello della signora Gacioppo, appena arrivata in bicicletta, era di essere inopportuna. Brava donna, ottima cuoca, ma inopportuna. Il motto interiore che provò, fece bruscamente orzare il suo progetto, e solo per il gusto di andarle di traverso Magreschi cambiò rotta decidendo di sistemare al più presto i maledetti battenti un tempo bianchi. La signora anche a distanza vide il maresciallo accendersi: a Magreschi era salita, come dicevano gli adolescenti di Materio, la carogna addosso. Uscì senza nemmeno lavarsi i denti. Incrociò la Gacioppo sulla porta e si fermarono a guardarsi, pareva Clint Eastwood e la donna si prese quasi paura: non sentì un fiato, eppure ebbe l’impressione di percepire un’intimidazione scandita parola per parola con l’intonata precisione del cristallo che concerneva una faccenda essenziale: non avrebbe mai venduto la casa. A lei, a suo figlio o a chicchessia. Il maresciallo capo dei carabinieri Daniele Magreschi aggiunse a voce una parola soltanto: «Punto.»

    Entrò in caserma che pareva volesse staccare la porta: lo spostamento d’aria urtò i volti contriti di Foriero e Bavagliacca, ripiegati su qualcosa che tentarono di occultare goffamente.

    «Che succede?», fu il buongiorno di Magreschi: muoveva sui loro volti quegli occhi che non avevano perso loquacità, con un supplemento di appuntito sospetto.

    «La signora Margherita la aspetta nel suo ufficio», fu il saluto di risposta di Foriero, mentre Bavagliacca manovrava sotto il tavolo. Magreschi annusò l’aria per verificare se vi fosse traccia del gatto di Bavagliacca, che più di una volta aveva portato in ufficio di nascosto, con conseguenze che definire incresciose, a parere di Magreschi, era uso improprio di eufemismo. Non si trattava di gatto e l’urgenza dell’incontro lo indusse a non indagare oltre. Cambiò umore, varcando la soglia della stanza, ammaliato dalla vista del deretano tondo della signora seduta sulla sedia davanti alla sua scrivania. Si avvicinò e posò le labbra sulla sua tempia, sostando poi con la bocca a mezz’aria in attesa di una risposta che non tardò ad arrivare. Margherita Miraux si voltò con il sorriso già apparecchiato e lo baciò.

    «Buongiorno, non ti aspettavo».

    Magreschi chiuse la porta e si sedette dietro la scrivania.

    La proprietaria della trattoria Da Margherita depositò sul tavolo una lettera: busta senza francobollo, nome della destinataria stampato in centro. Il foglio che estrasse era di una riga sola, stesso carattere del nome: «Magreschi sa che ti sbatti il paese?»

    «L’ho trovata stamattina, nella cassetta delle lettere, presto per il postino». Non pareva scossa. Magreschi aprì il primo cassetto della scrivania e ne estrasse altri due. La donna vide che quei fogli avevano pressappoco le caratteristiche del suo, ma non riusciva a leggere senza occhiali. «Non posso entrare nel dettaglio, ma non sei l’unica che ha ricevuto una lettera anonima». Margherita proprio non digeriva che colui che le ripeteva persino a noia di essere la donna della sua vita, facesse il maresciallo anche con lei. Si alzò, rimise la sedia a posto e fece per uscire dalla stanza, ma si trattenne brevemente. Sollevò il sopracciglio sinistro, segno di tempesta: «A pranzo non venire, oggi temo di non avere coperti a sufficienza.»

    Magreschi comprese in che razza di guaio si era cacciato. «Ci vediamo a casa tua stasera, allora», le propose mantenendosi ottimista. Margherita tenne gli occhi fissi dentro i suoi: «Non so», disse e se ne andò sbattendo la porta. Magreschi aveva ormai chiaro che quando Margherita usava quella locuzione, valeva per una negazione priva di dubbi. Prese il primo foglio, quello consegnatogli da Michele Pavaglia, circa un mese prima. Il vecchio, ottantaquattro anni, era tipo di poche parole con tutti, in paese. Prima della sua denuncia era quasi certo di non averne mai sentito la voce, aspra, sgraziata, se una caverna avesse potuto, avrebbe parlato in quel modo. La bocca la muoveva per lo più per passarsi da un angolo all’altro un trancio di radice di liquirizia e anche quel giorno, senza staccarsene aveva solo detto: «Ch’a varda, maressial». Senza traduzione di Bavagliacca, Magreschi che era in Piemonte da tempo, ma restava toscano anche d’orecchio, non avrebbe capito che il vecchio lo invitava a visionare la lettera.

    «Pavaglia, crepa di coma diabetico!»

    Lettere anonime, fetido impiccio. Difficile smascherare l’identità di chi infila maledizioni o calunnie in busta, come trovare una lacrima nel mare. La soluzione di quelle persecuzioni subdole e silenziose è quasi sempre portata dall’oblio, perché tutto finisce come inizia: improvvisamente. Inoltre, ammesso e non concesso di riuscirci, e lo aveva detto anche a Pavaglia quel giorno, citandolo a memoria, il codice penale stabilisce che chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico, o con il telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a euro 516. In questa descrizione, indiscutibilmente anacronistica, le parole chiave erano uso del telefono e luogo pubblico, e poiché nel penale non sono possibili interpretazioni analogiche, è già difficile dimostrare che con una lettera che arriva in un luogo privato, possa essere recata una molestia. Pavaglia non si era dimostrato particolarmente infastidito, come se in fondo, una volta consegnata al maresciallo, la lettera avesse esaurito il suo interesse. Gli aveva chiesto se qualcuno ce l’avesse con lui, qualche vicino di casa, magari un parente. Michele Pavaglia aveva tirato via la radice dalla bocca e aveva risposto con una parola: «Tutti». A distanza di circa quindici giorni era stata la volta di don Carlino: si era presentato vestendo la solita prosopopea che a Magreschi stava stretta quanto al prete i pantaloni senza cinta attorno al girovita a botte. Una lettera anonima anche lui. Non l’aveva detto subito: aveva sventagliato il pezzo di carta fra se stesso e il maresciallo per almeno venti minuti recitando in forma di rosario una sequela di premesse volte a precisare la sua posizione di peccatore in molti frangenti, ma non certamente in quello riportato sulla missiva.

    «Sei un pedofilo, bestia.»

    Magreschi non aveva stima di don Carlino. Per l’esattezza, dei preti in genere e ormai lo avevano capito tutti, a Materio, anche don Carlino. Non poteva proprio dimenticare le piccole atrocità che avevano caratterizzato i suoi rapporti con il clero fin da quando aveva fatto il chierichetto a Barga, e nemmeno la congenita refrattarietà alle tonache che caratterizzava, radici, fronde e foglie, l’intero albero genealogico dei Magreschi. Tuttavia non poteva pensare che don Carlino rovinasse creature. Importunava magari qualche pia femmina vittima del suo misticismo a buon mercato, della sua oratoria appestata d’aglio, madida di saliva. Crapulone, scroccone, baro, e questo a detta di un teste assai attendibile, Fedele Barile, che da dietro il bancone del suo bar osservava le partite a briscola dei materiesi dediti al gioco e al frizzantino. Pedofilo no. E poi non era questo il punto: quello che dicevano le lettere erano sostanzialmente fandonie, anche Margherita non era dedita all’amore promiscuo. Le lettere di Margherita, Pavaglia e don Carlino erano in fondo la stessa: identico carattere utilizzato, testo ridotto a una frase minima, non potevano nemmeno chiamarsi lettere, erano scorciatoie verso la calunnia o la maledizione. Non gli pareva proprio ci fosse dubbio: si trattava dello stesso autore. Quello che trovava curioso era un particolare che riguardava i destinatari delle missive. Era comprensibile che Margherita lo informasse subito, dato il loro rapporto, ma perché gli altri due si erano scapicollati in caserma così in fretta per raccontargli la storia? Avevano ricevuto entrambi una lettera soltanto, in fondo. Una si ignora, due infastidiscono, e solo a tre si pensa se sia il caso oppure no di andare dai carabinieri. Uscì dall’ufficio e si ritrovò davanti pressappoco la scena che lo aveva accolto: Bavagliacca infatti si levò in piedi con urgenza per coprire Foriero. «Ditemi che state facendo», ordinò. Giovanni Bavagliacca, cento chili, centonovantadue centimetri di altezza, faccia liscia da bimbo, si sciolse come quando la nonna lo beccava da piccino col dito nel burro appena fatto. Si mise di lato e Foriero, un terzo della sua massa, mostrò l’origine dei sotterfugi.

    «L’avete spaccata!» urlò il maresciallo.

    Foriero posò la distruggidocumenti sul tavolo di Bavagliacca: «Abbiamo cercato di ripararla, prima di scatenare la sua furia». Ci voleva coraggio, per puntualizzare con Magreschi come aveva fatto lui, non per niente a Materio Bruno Foriero era conosciuto con il soprannome di mastino. Magreschi restò in silenzio componendo considerazioni sul congegno distrutto e sulla percezione che i sottoposti avevano di lui: ancora non avevano capito che abbaiava senza mordere. E che li terrorizzava sul corretto uso degli strumenti in dotazione affinché non spaccassero nulla, perché non sapeva aggiustare niente e non c’erano fondi per nuovi acquisti. Uscì sbuffando e imprecando, ma non solo per la distruggidocumenti: visto che il pranzo in trattoria per quel giorno era saltato, doveva procurarsi qualcosa da mangiare e andò da Moretti. Comprò due pezzi di focaccia, una semplice e una imbottita di prosciutto e toma del Barba che veniva da Moncalvo, tanto decantata dal panettiere. Si fece dare anche un trancio di pizza rossa olive e capperi che la moglie del Moretti non esitò a tagliare abbondante. Pavaglia se lo trovò davanti uscendo dal negozio e capì subito che non si trattava di un incontro casuale: gli chiese infatti di seguirlo. Magreschi a malincuore annuì: l’idea di camminare sotto il sole di agosto, alle undici e mezzo del mattino, di percepire i pori dolenti sotto le ascelle, lo angustiava terribilmente. Lo condusse a casa sua, un breve tratto lastricato di sanpietrini, che al passo del vecchio, divenne una via crucis. L’appartamento era una faccenda minima e vetusta, odorosa di cloroformio, al piano terra di una casa decadente: le persiane in legno erano messe persino peggio delle sue. Dentro era ordinata, e la temperatura, abbattuta dallo spessore dei muri, confortante. Michele Pavaglia puntò un dito verso il cassetto del mobile del salotto e si espresse inaspettatamente in italiano. «L’ha messa lì». Fra tutte le cose che Magreschi si sentiva addosso in quel momento, non c’era la pazienza. «Pavaglia, di che parla?» Il vecchio allungò la testa verso l’uscio, controllando che non arrivasse qualcuno e si attaccò alle maniglie per tirare il cassetto. Sollevò una pila di tovaglie e prese una busta che porse al maresciallo. Restò con due dita attaccate al labbro inferiore pensando alle parole giuste: «La badante, ne ha una anche lei, di lettera anonima.»

    L’aveva spiata? Perché era lui a

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