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Senza alcun dubbio
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Senza alcun dubbio

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S.A.D. offre un abile intreccio di tipologie narrative: dal romanzo di formazione al giallo classico, dall’horror al romanzo di avventura, in un intreccio sviluppato attraverso lo spostamento dei protagonisti maschili da luoghi “nostrani” – come la collina di Montenero – al Giappone o ad isole mitiche ed esotiche, fino a sviluppare un moto ascensionale all’Etere, dove, senza alcun dubbio, viene svelato il senso arcano della storia. Il titolo è appunto ambivalente tra sad, triste come l’ammissione di infelicità degli umani sulla Terra e l’acronimo di senza alcun dubbio, la certezza quindi che facciamo parte di disegni superiori a noi sfuggenti. Paolo Salvini, pur essendo al debutto narrativo, ci tiene con il fiato sospeso fino all’ultima parola del romanzo per la soluzione del giallo, ma riesce anche a penetrare nella psicologia dell’uomo contemporaneo, con tutte le sue paure e inquietudini quotidiane.

Paolo Salvini nasce a Livorno, nel 1989, frequenta il Liceo Scientifico “Enriques” e poi la Facoltà di Biotecnologie Avanzate a Pisa. Cultore delle discipline marziali, appassionato di Storia, Filosofia e Teologia, eredita dalla famiglia la passione per la lettura fin dai primissimi anni di vita. Dopo la prematura perdita del padre a soli 19 anni, inizia per lui  un periodo di grandi prove di vita, che culmina nella stesura del presente romanzo.
LanguageItaliano
Release dateNov 27, 2018
ISBN9788856794960
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    Senza alcun dubbio - Paolo Salvini

    S.A.D.

    CAPITOLO I

    Non arrendersi

    Immergersi nell’ignoto

    Era sicuramente un inizio difficile. Trovare il coraggio di buttarsi non era cosa semplice. Quei pochi passi rappresentavano una distanza incolmabile e una tremenda tempesta imperversava sull’abitacolo, ma era solo uno dei tanti nemici da annoverare nella lunga lista che seguitava a crescere.

    La sua paura era talmente forte da non permettergli di proseguire, si trovava a poco meno di venticinque metri sopra il livello del mare e soffriva di vertigini. Per non parlare del freddo e della fatica che aveva patito per arrivare fino a quel punto! Il suo piede non accennava ad avanzare, incapace di accettare la sorte avversa. Se non fosse che devo farlo, non l’avrei mai fatto si disse, poco prima di raccogliersi in una silenziosa preghiera, indirizzata alle sue forze latenti, ai meandri del cuore. Pregava la sua mente affinché si dimenticasse della fobia del vuoto e si ricordasse unicamente il suo compito. Pregava Dio affinché restassero salde solo e soltanto le sue responsabilità. Niente e nessuno rispondeva alle sue preghiere.

    Il malessere persisteva: doveva convincere se stesso, sapeva di doverlo fare, doveva saperlo fare, ma non ce la faceva. Ripeteva allora che è inutile scappare dalla vita e dalle prove che essa pone: I problemi sono come la pioggia, arrivano anche senza che tu lo voglia, ma dipende da te farne un problema, in fondo l’acqua è solo acqua. E in fondo quello era solo un salto. Sì, ma un salto bello grosso pensava subito dopo, indugiando sul da farsi.

    I tentativi di darsi coraggio non cessarono neanche quando i sensi si persero nel buio della notte fuori dal finestrino, nell’indefinito miraggio che separava se stesso dal punto d’impatto, neanche quando lo sconforto si impadronì della sua mente e le budella iniziarono a contorcersi. Se ogni preludio ha una sua conclusione, la sua non doveva e non poteva essere adesso, aveva un gran bel motivo per non arrendersi.

    Preso un po’ di coraggio, staccò il moschettone di sicurezza che lo legava a una vita tranquilla e si avvicinò leggermente allo strapiombo: gli sembrò di vedere il fondo nero dell’Ade. Sbiancò e cadde seduto, poco più indietro di dov’era arrivato; le vertigini lo attraevano e lo chiamavano verso il precipizio, come le sirene affascinavano i marinai imprudenti che cedevano al loro canto.

    Improvvisamente comprese che doveva agire senza pensare, altrimenti non avrebbe mai avuto il coraggio di fare una cosa simile. Tanto meno il suo raziocinio avrebbe mai permesso alle sue gambe di partire... Stava per dare il segnale di abbassare il velivolo, ma era più forte di lui, non ce la faceva: appena pensava a lanciarsi, le gambe tremavano in modo convulso.

    La partenza è sempre un fattaccio d’altronde: fisicamente parlando, si dice che l’attrito statico è spesso e volentieri maggiore di quello dinamico. Che significa? Significa che è maggiore il lavoro impiegato per far principiare un oggetto al movimento piuttosto che farlo continuare a muovere. La paura, il freno dei freni, la maestra dei ripensamenti, la regina delle fughe, stava operando dentro di lui, rallentava il progredire del povero ragazzo.

    Ci pensò il pilota ad accelerarlo, gridando imprecazioni ed esortandolo, più che con la minaccia, con la vera e propria promessa di tornare indietro. Non poteva permetterlo; noncurante degli sbalzi dovuti al vento, si rialzò e dette il via libera al suo unico compagno di viaggio, che scese ancora più verso il mare in burrasca.

    Ora era il suo momento: doveva limitarsi ad accettare il nuovo viaggio, perché specialmente dove si tratta di vita o di morte è inutile opporsi al cambiamento, è molto più saggio favorirlo, se non anticiparlo.

    Spense la mente e tutti i suoi grandi effluvi, trattenne il respiro e scattò divorando così la distanza che lo separava dal salto, in pochi millesimi di secondo.

    Una grande e potente folata di vento scosse il portellone, che si richiuse di botto in faccia al ragazzo e subito dopo l’elicottero ebbe un ultimo grande sobbalzo, che lo rispedì lontano, addosso alla parete opposta alla rampa di lancio.

    Il borsone con le provviste, tenuto solamente per la cinghia e non indossato, cadde in mare per via dello strattone, perdendo il suo contenuto nell’oceano, per sempre.

    Nel frattempo il pilota stava girando il velivolo, stanco di quell’attesa interminabile, durante la quale se l’era dovuta vedere con la tempesta monsonica, infuriata con lui per aver accettato di sfidarla per poco più della sua normale paga! Lei ovviamente valeva di più e, come ogni donna, era pronta a dimostrarlo con la forza della distruzione. Capita la situazione, il ragazzo non perdé tempo a piangere sulle provviste sprecate e si tuffò senza indugi verso quella che poteva essere una dignitosa morte da eroe. Mentre fece l’ultimo passo, si ripromise che se fosse sopravvissuto a questa caduta avrebbe per sempre smesso di avere paura del vuoto.

    Mangiò un quintale di ossigeno e saltò. Si gettò a candela e la pressione del vento tappò la bocca con l’aria impedendole di espellere una serie imprecisata di imprecazioni: Dio stesso aveva posto una censura!

    La discesa durò solo una manciata di secondi, d’altronde l’elicottero stava volando ancora rasente la superficie nera e violentemente mossa del mare, ma per quel poco che durò fece sentire il ragazzo dapprima molto male e successivamente irrazionalmente inebriato dalla sete di volare!

    L’ebbrezza insensata di onnipotenza cessò all’impatto con l’acqua, che penetrò nelle narici e rimase chiusa nelle orecchie; sprofondò nel liquido imperscrutabile, per un tempo apparentemente infinito, chiedendosi se la sua capacità di apnea gli avrebbe permesso di tornare a galla oppure se il mare avrebbe reclamato un’altra vita... un’altra vittima che aveva offeso sua moglie: madamigella tempesta.

    Il mare nasconde tutto

    Il contatto con la superficie lo spiazzò, lo sorprese come un fulmine, non si aspettava una temperatura così bassa. Il panico ne fu la conseguenza, si annidò al centro del petto, all’interno del cuore, e questo non era positivo, lo sapeva bene. L’acqua gelida diminuiva la pressione cardiaca e l’ossigenazione delle varie parti del corpo, compreso il cervello, che avrebbe presto perso colpi... e questo processo in sostanza non aiutava affatto la risalita verso la superficie e tanto meno la successiva sopravvivenza in quel luogo ostile, habitat di molte specie di squalo.

    Come accade nel pericolo, la conoscenza non era d’aiuto, non favoriva il controllo della situazione, anzi, lo esasperava, producendo ancora più stress. Doveva ironicamente mantenere il sangue freddo, sbracciava incessantemente, arrancando verso quell’agognata boccata d’aria che tanto mancava ai suoi polmoni, schiacciati dalla pressione dell’acqua, dal freddo e dal violento impatto.

    Sentiva la vita scivolargli di dosso, lentamente. Il vuoto bruciava nel petto e rendeva ogni movimento frenetico e caotico. Trattenne quel poco d’ossigeno che rimaneva e, ancorandosi a un barlume di speranza, diede una poderosa spinta verticale, coordinando il moto di braccia e gambe, come una rana.

    Affiorò in superficie: fu come nascere, nascere di nuovo. Avidamente assaporò la vita che tornava a scorrere dentro di lui. Il ritmo del suo respiro era accelerato e non aveva alcuna intenzione di rallentare. Mandò indietro i capelli e asciugò il naso, mentre scalciava per rimanere a galla.

    Notò l’elicottero che si allontanava. Adesso era solo, senza l’ombra di un aiuto, aveva solo il coltello da sopravvivenza e un appuntamento qualche giorno dopo, per il ritorno. Certo solo d’incertezze, si apprestava a continuare quel lungo tragitto che lo separava dalla terra ferma.

    Il mare mosso produceva onde difficili da cavalcare e aveva il costante presentimento che qualcosa dal fondo potesse notarlo e porre fine alla sua esistenza in un attimo. Nuotava pregando di non essere notato da niente che avesse una fila di denti più grande della sua, avanzava circondato da presagi di morte. Il buio lo avvolgeva completamente, ovunque c’era solo la notte, persino nel suo cuore affaticato dal freddo e dalla paura. Si affrettò ad acquisire un ritmo... Non si poteva permettere di cedere all’oblio o al panico, poteva soltanto continuare, ed era quello che aveva intenzione di fare. Limitò quindi l’immaginazione e si concentrò unicamente sul nuoto. Lasciarsi spaventare dal futuro pregiudica il presente, non avrebbe potuto permetterlo nonostante si sentisse vulnerabile in quell’ambiente minaccioso. Fortunatamente il mare mosso lo aiutava a celare la sua esistenza, anche se lo stava mettendo a dura prova. Avvicinandosi alla meta la corrente aumentò, sfavorendolo ulteriormente.

    Era esausto e si concesse un attimo di tregua, piegando la testa all’indietro, inspirò sonoramente gonfiando i polmoni d’aria, espirò lentamente assaporando il gusto di quello strano, minaccioso silenzio. Lasciò che madre pioggia lavasse la fatica dalla sua faccia stesa sul tappeto d’acqua salata mentre si lasciava trasportare per un attimo, solo per qualche istante.

    Il mare nascondeva tutto, persino se stesso, metafora dell’uomo, i cui lati oscuri si perdono nei meandri dell’Universo.

    Un misterioso compagno di viaggio

    Il mare esigeva rispetto, era il silenzioso giustiziere dei fenomeni naturali e come tale andava trattato. Mosso dall’ira, avrebbe spazzato via tutta la Terra, incurante degli uomini e del loro creato. Abbandonarsi ad esso non avrebbe portato niente di buono.

    Osservò dunque la distanza dalla meta, e stimò necessari altri quindici minuti di nuotata: contando le poche ore di sonno sulle spalle e la stanchezza che si portava dietro dall’inizio del viaggio, avrebbe fatto appena in tempo prima di cadere svenuto, fiacco di fatica. Certo, se avesse dovuto fare tutta la traversata e poi morire affogato e sfracellato sugli scogli, avrebbe sicuramente preferito morire divorato, perlomeno avrebbe contribuito al ciclo naturale, oltretutto per un animale nobile.

    Quell’ottimismo nero terminò nell’istante in cui si sentì sfiorare da qualcosa sulla mano, durante una timida bracciata. Si bloccò in mare aperto spaventato, con il cuore in gola si guardava intorno. Poteva essere la fine?? Non sapeva assolutamente cosa fare, aveva sentito una parete abbastanza gommosa, che poteva identificarsi con il più misero dei tronchi sperduti o con la più grande delle pinne caudali che un uomo potesse temere. Comunque andasse, la Triste mietitrice l’avrebbe trovato intento nella sua missione.

    Dopo poco incontrò il misterioso compagno di viaggio, di nuovo, con la mano, stavolta dove di norma è meglio non toccarlo. Bruciò infinitamente, come l’Inferno. Un dolore acido che lacerava pensieri e parole tramutando ogni raziocinio in rantolo. Scuoteva il braccio urlando come se fosse avvolto dalle fiamme. Tutto quello che sembrava adesso era una scimmia arrabbiata, molto arrabbiata.

    L’ombra a forma di ombrello affiorava sulla superficie increspata delle onde: era enorme. Una dannata medusa arrancava lenta nella sua direzione, e probabilmente non era sola. Il ragazzo la allontanò con un calcio di rabbia. La prese in pieno dove era sicuro di non avere ripercussioni, era certo di averne toccata una in quel punto proprio poco prima. La mano era come paralizzata dal dolore, come se dentro avesse artigli di fuoco. Prudeva e urticava da diventar matti. Un forte senso di nausea lo assalì, ma non poteva assolutamente rimettere, sia perché il suo stomaco era vuoto da ore, sia perché avrebbe potuto richiamare la presenza di pesci ben più grandi. Si tirò giù le maniche con le dita per coprire tutta la mano e riprese a nuotare afflitto da dolori paragonabili solamente a torture.

    Era protetto abbastanza da poter sopravvivere ad un intero branco, nemmeno il veleno di mille meduse sarebbe penetrato attraverso i vari strati di indumenti che abitavano sopra la sua pelle; il problema era che sicuramente non avrebbe retto altri dieci minuti a mollo nell’acqua gelida che schiacciava il petto e che lo faceva tremare di freddo. In un attimo di stallo, l’insicurezza e la frustrazione fecero salire il livello di stress a livelli inumani e lo sfogò nell’unico modo che quella situazione poteva permettere. Imprecò tanto e forte, bestemmiava contro la corrente e il mare congelato, contro la mano che non funzionava e contro il veleno e il dolore che funzionavano fin troppo bene, infine inveiva contro se stesso che non ne combinava una giusta. Tutta questa rabbia produsse un surplus di energia che permise di bruciare la distanza in non molto tempo. Ad ogni bracciata spuntava di nuovo la testa dal mare, con la bocca continuamente impegnata a offendere tutto ciò che la mente passasse al vaglio, incessantemente. Quella creatura lo ripugnava, e pensò che non meritava nemmeno la fatica di cambiare rotta.

    Mulinando fra speroni taglienti di roccia

    Arrivò vicino alla costa quasi in lacrime, sfinito dal contrasto continuo con la corrente, costretto a muoversi di lato e a stare attento a dove andava a concludere ogni bracciata. A protezione del litorale, spuntava quella che si può definire come la più grande distesa di scogli che il ragazzo avesse mai visto. Fuoriuscivano dall’acqua come denti, aguzzi e affilati. Presumeva che l’acqua a questo punto non dovesse essere molto profonda, magari gli squali sarebbero stati un problema in meno, dato che doveva affrontare la corrente che impazziva in quel tratto, mulinando fra gli speroni taglienti di roccia. Fece da sponda fra scoglio e scoglio. Si aggrappava ad una roccia, tastava la corrente, si lasciava andare verso un altro sperone. Fu meno faticoso di quanto credesse, almeno fino a quando la potenza del moto subacqueo non aumentò e un’onda gli facilitò il tragitto sbattendolo sul masso violentemente.

    La roccia colpì la faccia, un dente si ruppe, il sangue uscì caldo da un sopracciglio tagliato. Una nuova cicatrice per una nuova storia. La marea saliva, la presa cedeva. La superficie ruvida dello scoglio tagliava le sue dita, mentre la corrente lo voleva trascinare a fondo. Verso la pace dei sensi? Verso la tranquilla fine di un povero viaggio travagliato? Nettuno non voleva concedergli tregua, se non in fondo al suo regno.

    Urtò più e più volte un tunnel buio, da affrontare a fiato tirato. Una roulette russa, il dolore poteva ripercuotersi ovunque, la conclusione era ignota. Doveva fermarsi: chiese a Dio di fermarlo e la sua richiesta venne ascoltata. Finì abbracciato ad uno sperone di roccia, tutta l’aria uscì dai polmoni. In fretta si inerpicò sul masso verso la salvezza, contrastando la forza invisibile che lo ancorava verso il basso, dal fondo del mare verso il cielo, e per la seconda volta in quel giorno, riconobbe la vita in un respiro. Il petto si muoveva piano, rantolava in cerca di sopravvivenza. Il corpo straripava di dolori, come se fosse stato investito da una mandria di cavalli. Gli occhi chiusi anelavano la pioggia, lavava l’Inferno dalla faccia. Le meduse erano finite sfracellate fra i denti aguzzi che antecedevano la riva, spandendo il liquido velenifero tutt’intorno, come se quelle dannate creature si sacrificassero per la causa, come se anche loro volessero proteggere il Paradiso.

    Ormai era questione di una manciata di metri: l’acqua era bassa e i piedi toccavano sul fondo. Quando ci si avvicina alla costa, il mare cambia. Passata la linea di corrente che si incanala verso la costa, la difficoltà è rappresentata dai mulinelli che precedono la terraferma; mantenere la rotta risultava difficile ed estenuante, ma grazie al ritmo impresso al suo corpo, poco dopo alzò lo sguardo e... notò una gola, con le circostanti pareti a precipizio.

    In balia del ciclone tropicale

    che lava i peccati dell’uomo

    Sopravvivere alle intemperie aveva reso il ragazzo un fantasma privo di energie: arrancava verso l’ultima ripida lingua di roccia che lo separava dalla salvezza. A piccoli salti, fra scoglio e scoglio, arrivò vicino al punto di interesse. La massa rocciosa soggetta alla risacca del mare era costantemente infranta dalle onde, alte un metro. Il tempismo era essenziale: salire nel punto giusto o finire fracassato! Fece un tentativo, ma il muschio scivoloso che rivestiva lo scoglio non consentì una presa sicura. Si ributtò a capofitto in mare per non permettere all’onda di sbatterlo sulla parete tagliente. Tentò di nuovo, questa volta permettendo a Nettuno di aiutarlo. Si fece spingere dalla marea nel momento in cui saliva: l’acqua si ritraeva sotto di lui, lasciandolo scoperto e vulnerabile, pesante e debole. Salì di scatto con le ultime forze rimanenti, appena in tempo, evitando per un pelo il fluire devastante dell’onda, che finiva il suo viaggio in una fragorosa esplosione. Mai era stato così stanco. Mai aveva sopportato tanti dolori fisici. Mai aveva creduto di arrivare così vicino alla morte, e sfuggirgli.

    Sfinito, si lasciò cadere in ginocchio e poi si accasciò a terra in balia del ciclone tropicale che lava i peccati degli uomini, con pioggia fine e incessante.

    Un lembo di terra finalmente concesso

    Adesso era immobile, come la terra. L’acqua, essenza mutevole, è incline al cambiamento, lo accetta e lo promuove. Metafora archetipica dell’uomo di fronte ai tristi eventi che il suo destino gli porge. Ma la terra è placida e regala vita poco alla volta, prendendosi il tempo giusto per farsi apprezzare. I custodi del cambiamento, pioggia e mare, persistono a voler persuadere la terra a muoversi. Ma essa agisce Come un gigante che durante il sonno si infastidisce per un istante e poi torna tranquillo a dormire. Incurante anch’essa dei mali dell’uomo, la terra offriva vita e pace a chi se la meritava.

    Solo quando perdi, o arrivi molto vicino a perdere, una cosa scontata come il respiro, ti rendi conto di quanto sia necessario l’ossigeno. Solo quando è tutto buio, ti rendi conto dell’importanza di riconoscere ed ammirare ogni singolo colore dello spettro visibile che ci è concesso di vedere. Aprì gli occhi e tirò un lungo, lento respiro.

    Bruciava la faccia quanto la mano: Maledette meduse –continuava a pensare – Dio possa garantirvi l’estinzione!. Sentiva il sangue caldo uscire dal sopracciglio e da molte altre ferite che imperversavano e spadroneggiavano sul suo corpo martoriato, distribuendo dolore a destra e a manca. Doveva dormire o sarebbe diventato pazzo a causa del male che indossava ogni centimetro della sua pelle. Era sdraiato con la faccia verso il cielo, con la pioggia che batteva sul viso. Si girò lentamente poggiando la fronte sul ruvido scoglio. I muscoli cedevano doloranti, sganciò la lampo della cerniera della tuta tecnica da alta quota, la fece arrivare poco più in alto dell’ombelico, così da poter infilare la mano ferita al suo interno. Si tirò su il colletto fino all’altezza dell’orecchio per ripararsi almeno un poco.

    La gola si innalzava per almeno quindici metri in verticale, andava scalata! L’insenatura sulla quale era approdato si estendeva a forma di semicerchio e tutt’intorno era protetta da quella dannata parete a picco, come se fosse una piccola terrazza. Nella direzione opposta si trovavano solo quei maledetti scogli simili a lame di coltello che spuntavano dalla superficie del mare. Doveva trovare un riparo in quel lembo di terra che gli era stato concesso, oppure ci sarebbero stati gravi conseguenze, come una polmonite.

    Ironico quel Dio!

    Aveva tutte le condizioni a suo sfavore, la notte ingiustamente senza Luna non permetteva nemmeno di vedere dove sarebbe finito al prossimo passo: come a ricordare al ragazzo che in quel viaggio era solo, senza guida, come soli si è di fronte alla morte. Il terreno irregolare giocò qualche brutto scherzo, facendolo inciampare più di una volta. Lui ormai invece di lanciar bestemmie offendeva le meduse... se c’era un Dio, aveva bisogno di tutta la sua protezione, specialmente in quel posto maledetto e in quel momento foriero di disastri! Guai inimicarsi anche le divinità, meglio pregare e sperare che ascoltino.

    Il povero ragazzo era a un passo dal perdere ogni goccia di speranza mentre arrancava alla cieca, sfiorava con la spalla sana la parete di roccia, non solo per cercare di andar diritto ma anche per appoggiarsi e risparmiare fatica. Girò un attimo lo sguardo verso sinistra, dietro di sé, per scorgere quello che si stava concretizzando come la tanto temuta sommità della gola, la parete della morte che lo sovrastava. Il passo dopo questo gesto andò con tutto il peso a cercar il solido supporto che fino ad un attimo prima faceva così bene il suo lavoro, che sparì mandando l’incauto giovane uomo faccia a faccia con il muro di quella che era una piccola entrata di una modesta caverna. Come se il Dio al quale poco prima rivolgeva le sue preghiere di salvezza avesse acconsentito alle sue richieste dicendo «Vuoi un riparo?! Tieni, eccolo!» e il riparo si presentava come una parete frastagliata, irregolare e tremendamente dolorosa in piena faccia. Ironico questo Dio!

    Si addentrò nella cavità solo per pochi metri, trovò un punto del suolo modestamente asciutto, dove potersi sedere senza finire più bagnato di quello che era. Lentamente aprì la tuta, sfilò la mano avvelenata: rossa e gonfia, riarsa come se fosse ustionata, la sentiva a tatto. Immaginò di avere la faccia più o meno nelle stesse condizioni, anche se sapeva che il veleno di quelle bestiacce ha molto meno effetto quando sono morte. La ferita sul sopracciglio pulsava sollecitando il mal di testa a crescere rapidamente. Tolse la tuta completamente, e aprì anche la muta da sub che portava sotto, restando unicamente con gli indumenti meno freddi da escursione. Sui pantaloni lunghi erano incrostate tracce di sangue all’altezza delle ginocchia e lungo le tibie. Sul maglione nero non si potevano scorgere, ma comunque sentiva punture e fitte. Si stese fibrillante di dolore.

    La tristezza lo assalì fredda come il pavimento di quella prigione: il letto che offriva la casa non era così comodo come diceva la brochure. C’era poco da ridere e sorridere, lo sapeva bene anche lui. Cercò di rannicchiarsi nella posizione meno scomoda, ma il suolo, ondulato, continuava a far breccia fra le sue costole doloranti e fiacche. Trovò una posizione perfetta se non fosse stato per quella cresta di sale che gli si conficcava alla base della nuca. Mise la mano buona a forma di cuscino, con le dita ripiegate: era un buon compromesso. Aveva freddo e si sentiva la febbre e la nausea. I presagi di morte alitavano promesse nell’aria, sussurravano lugubri litanie vicino all’orecchio del povero ragazzo, disturbando i suoi sogni. Portavano la notte là dove dovrebbe esserci il giorno, il buio della paura e dell’insicurezza dove una nobile causa dovrebbe splendere incontrastata.

    Aveva domato la morte

    Il sonno arrivò piano, senza farsi sentire. Come un lenzuolo, che avvolge e ti rincalza dolcemente. Sospinto da un vento leggero e caldo, recise i lembi della realtà. Progressivamente il sogno fermò il tempo.

    Era tutto buio di nuovo: si trovava in piedi sopra la cresta di un monte. Sotto di lui un lago nero come la pece, sormontato da vulcani enormi, volti a tremende esplosioni di cenere e lava. Guardava desolato questo paesaggio, mentre sulla notte pesta che aleggiava tutto intorno squartavano il cielo furibondi fulmini. Sapeva che doveva scendere, doveva arrivare al lago, e doveva farlo in fretta. Scese spericolato, in velocità. I suoi salti erano grandiosi, spiccava voli attraverso precipizi o scatti che lo facevano saettare da una parte all’altra della valle. I meteoriti non erano una grande minaccia, scendevano dal cielo ma riusciva a evitarli con semplicità. Rallentò invece quando arrivò nei pressi del lago. Più si avvicinava, più si intristiva, la paura gli faceva tremare le gambe. Si guardò intorno dalla sponda, si soffermò sulla linea dell’orizzonte. La distesa nera era immensa, ma lui doveva attraversarla. Fece qualche altro passo e si tuffò nel liquido melmoso... innumerevoli bestie mastodontiche affiorarono in superficie, sparando spruzzi dal dorso come le balene. La maggior parte aveva lunghe file di denti, simili agli squali, e tutte, senza eccezione, erano grandi quanto palazzi.

    Il ragazzo fece dietro-front, non era pronto. Arrivò nuotando alla sponda, si inerpicò sulla terra argillosa, mentre la notte diventava sempre più lugubre e nera. Nel momento in cui si girò verso il lago, fu pervaso dal silenzio, come se il vuoto regnasse sul creato. Non esisteva più niente. Nuvole materializzate all’improvviso si erano ammassate sopra di lui. Erano rimasti solo lui e le nuvole. Il silenzio assordante preannunciava una catastrofe, come se il sentimento negativo che provava stesse costruendo gli eventi.

    Sentì il fragore del

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