Il viaggio di Emilia
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Book preview
Il viaggio di Emilia - Anna Maria Balzano
Self-Publishing
Indice
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
XXII
XXIII
XXIV
XXV
XXVI
XXVII
XXVIII
XXIX
A mia madre
E il cuore quando d'un ultimo battito
Avrà fatto cadere il muro d'ombra,
Per condurmi, Madre, sino al Signore,
Come una volta mi darai la mano.
(G. Ungaretti) La madre 1930
I
Napoli maggio 1978
Emilia fu svegliata dal rumore d’un mezzo pesante che passava a velocità troppo elevata sui dossi artificiali che attraversavano la strada di casa sua.
Quel rumore con contraccolpo le provocò una fitta ancor più dolorosa alla tempia destra, accentuando l’emicrania che la tormentava.
Anche quella notte era capitato di nuovo. Quell’immagine, quell’orribile immagine era apparsa come un lampo, per lasciarle un senso di angoscia e di dolore che sarebbe durato fino alle prime luci dell’alba. Non riusciva a liberare la sua mente dalla visione di quel corpo di giovane donna, raggomitolato su se stesso, sanguinante e inerme, umiliato dalle percosse ricevute.
Si girò lentamente e ancor più lentamente si mise a sedere sul bordo del letto. Con gli occhi chiusi, chinò la testa tra le mani e premette i polpastrelli contro la tempia che le pulsava con ritmi lunghi e regolari.
Qualche secondo dopo si raddrizzò e riaprì gli occhi, girando lo sguardo intorno per riprendere contatto con la realtà. Vide il letto disfatto dietro di sé e il senso di solitudine che la pervadeva si acuì: da troppo tempo ormai dormiva da sola in quel letto. Allungò le gambe in cerca delle ciabatte sullo scendiletto. Le trovò e se le infilò. Stese il braccio per toccare il marmo del cassettone poco distante da lei; si appoggiò e, con un leggero sforzo si alzò.
Lo sguardo le cadde sulle foto incorniciate che lei stessa aveva disposto lì in bella mostra.
Una, in particolare attrasse la sua attenzione: la prese e l’osservò da vicino. L’aveva già fatto migliaia di volte, ma quella mattina, in quello stato d’animo, quel gesto fece riaffiorare più prepotentemente i ricordi del passato. La foto ritraeva un bel palazzetto a due piani dei primi del novecento, i suoi balconcini con le balaustre di marmo, le persiane di legno a battente verniciate di verde, il portoncino centrale rialzato su due ampi gradini di pietra, che si apriva su un vasto atrio che si intravedeva appena. Quella era stata la casa dei suoi nonni. Con gesti calmi e lenti, Emilia si mise una vestaglia sulle spalle, si sedette di nuovo e smontò la cornice. Passò la mano sulla foto per eliminare un leggero strato di polvere che la rendeva più opaca e con i polpastrelli percorse i contorni e i piani del palazzetto, come se quel contatto fisico avesse il potere di rianimarlo e restituirgli quella vita che gli era appartenuta.
II
Napoli aprile 1948
Non aveva più di sette anni, Emilia, quando entrava saltellando nel grande atrio della palazzina dei nonni, dove abitava con la mamma Anna e il papà Salvatore Cusimano.
Per lei era una festa stare nella grande casa dei nonni.
Quel giorno, un giorno di primavera del 1948, ritornava dopo essere stata con la mamma a visitare la zia Pina, una vecchia sorella del nonno, molto ammalata; indossava l’abitino di flanella rosa a quadrettini che le piaceva tanto, la cui gonnellina cadeva fino sopra al ginocchio in cannoncini perfettamente stirati e il cui corpetto era tutto ricamato a punto smock; le maniche lunghe aderivano al polso e venivano fermate da un bottoncino di madreperla, come quelli che chiudevano il vestitino sulla schiena. Un collettino di piquet bianco metteva in risalto il suo incarnato rosa; le scarpe, nere lucide, alla bebè
come si diceva allora, erano fermate da un cinturino alla caviglia e i calzini bianchi erano girati due volte in modo che non fossero troppo lunghi.
Anche quel giorno, come sempre, la mamma l’aveva accuratamente pettinata. Una scriminatura, perfettamente tracciata sul lato sinistro, dava luogo a due treccine asimmetriche: quella del lato destro era il risultato di una treccia più sottile che partiva dalla cima dei capelli e si innestava in un’altra