Giulia, io e lo scoglio
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Giulia, io e lo scoglio - Francesco Sullo
1
A fatica riesco a tenermi sulle ginocchia, mentre bestemmio santi e madonne, aggrappato al lettino di ferro della cabina. Sono prigioniero di una nave che neanche mi ricordo che ci sono venuto a fare e ho male alle ossa. I l pavimento mi sale agli occhi ogni tre secondi per ributtarsi giù. Mi lascia per aria solo una frazione di secondo per poi sbattermi violentemente con le rotule sulle tavole del parquet. Sono come una grossa biglia che collide continuamente.
Il mare sta cercando di tirarci a fondo, con un tuono cupo e continuo, e un orribile scuotimento.
Intorno gli oggetti si inseguono disperati. C’è pure una donna sul letto. Nuda.
Se ne sta distesa, immobile, come se non ci fosse nulla che possa smuoverla di un millimetro.
Ce l’avevo a un palmo dalla faccia e non l’avevo vista.
Forse dorme o sta male.
Agganciato con tutta la forza che ho al lettino, le afferro un braccio per scuoterla.
È freddissima.
La tocco sulla spalla. Strabuzzo gli occhi per vedere meglio. La scuoto con forza e quella niente.
Fa impressione: livida e verdastra come un pupazzetto per bambini scemi.
Barcollo. Perdo la presa. Cado all’indietro tornando a far parte della giostra di cose che vorticano intorno al centro della cabina.
Fa freddo. Sto gelando. Un brivido vibra insistente fra la camicia e la pelle, lungo la schiena contorta negli equilibrismi a cui sono costretto dentro questa nave da tremila viaggiatori, nel Mediterraneo in tempesta fra la Sardegna e le Baleari, con centinaia di metri di acqua scura sotto e un cielo implacabile e rabbioso sopra.
Dannazione!
Ho sbattuto forte contro una parete in un istante imprecisato, fra un pensiero e l'altro. Adesso sto rotolando sul fianco, ascoltando il mio grido stridulo: voce che esce dalla gola senza nulla di musicale, con una intonazione stonata, appena percepibile nel baccano infernale che la circonda. Intanto la nave cigola, maledetta, come fosse pronta ad inarcare la chiglia e inabissarsi puntando la prora al fondo.
Sbatto confusamente contro la base del lettino.
Vedo la donna rianimarsi all'improvviso e sollevarsi e cadermi addosso ansimando, con un muco indescrivibile che le cola da ogni buco. Ma è un falso allarme. Il cadavere resta lì. È la mia testa che dà i numeri. Sto solo rincorrendo un cappello di paglia che salta e svolazza come una gallina starnacchiante, urtando tutto ciò che è possibile urtare in una cabina di sedici metri quadri.
Il vomito acido che finora ero riuscire a trattenere mi sconfigge ed esce trionfalmente dalla bocca, velandomi gli occhi e spalmandosi in lungo e in largo per la faccia. Accerchiato dalla cabina incontro la comicità di questi succhi gastrici che hanno voluto prodursi nell'interno spugnoso del fegato, abbozzare un sorriso nel duodeno, tirarsi come una molla e spingersi oltre lo stomaco, galleggiare per un istante e nuotare, infine, leggeri, su su per l'esofago, fino alla faringe, il palato, le labbra, la faccia.
Stordito fino all'ebetismo riesco tuttavia ad afferrare qualcosa di stabilmente ancorato alle pareti o al pavimento. Non capisco come. Le mani lo stringono, la testa si rannicchia fra le braccia. Mi riparo. Lascio che il resto mi rimbalzi addosso. A occhi chiusi cerco di stabilirmi, di orientare il peso verso una base possibile. Sto come attraccato a un molo durante un giorno di pioggia invernale e mi sento la nave che ci contiene, avverto il freddo delle acque che cercano di sfiancarmi, l'umidità senza paragoni che mi ingloba come una ameba affamata, e il vento che insiste a picchiarmi senza pietà, fino allo sfinimento. Ma resisto, come fossi nave e cavaliere alle prese con un'orda di mulini a vento fatti d'acqua salmastra indemoniata, d'una sostanza che non posso trafiggere con la mia lancia.
L'oggetto che ho afferrato è, ancora una volta, uno dei piedi del lettino.
Ci sono praticamente sotto, a qualche decina di centimetri da quello che ho capito essere senza alcun dubbio un cadavere. Nel frattempo il turbinio sta diminuendo. Pure il vento è calato o quantomeno il soffio è meno forte di prima, o forse è solo che mi ci sono abituato e mi sembra tutto più ragionevole. Intanto la donna è sopra di me, come piantata nella brandina, impassibile a qualsiasi tentativo di sradicamento. Non posso vederla ma riesco a percepirne i volumi, la massa, il peso, il pallore infinito.
All'improvviso non c’è più rumore.
Solo un silenzio insopportabile.
Abbozzo una rotazione del capo, per abbracciare con lo sguardo la cabina. Gli oggetti oscillano lentamente, come trottole che, esaurita la spinta rotante, stiano per cedere alla quiete.
Il soffitto è candido, come del resto le pareti. Gli accessori non particolarmente belli né brutti, nautici, impiallacciat i in radica di noce con finiture in ottone. Da un lato la porta che mi ha tradito durante l’esplosione attirandomi dentro per poi bloccarsi in maniera che non riuscissi più ad aprirla.
2
Stavo attraversando il corridoio per andare a fare colazione. L’aria era fresca e avevo una gran voglia di gustare un cappuccino tiepido e un cornetto con la crema. Il pasticcere della nave li sa fare proprio bene. Può anche darsi che si tratti di banalissimi cornetti surgelati, pronti da mettere in forno. Ma se anche fosse, il nostro amico li sa infornare bene, dorandoli al punto giunto. Neanche nelle migliori cornetterie ne ho assaggiati di migliori. Può anche essere che fossi particolarmente ben disposto verso i cornetti perché in mezzo al Mediterraneo le cose hanno