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Vali ogni rischio
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Vali ogni rischio

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About this ebook

La notte in cui il Comandante dell’esercito è entrato in teatro, io ero su quel palco.
La più giovane tra le ballerine classiche, la più testarda tra le ragazze che lui avesse mai incontrato. La famiglia per la quale versava sangue era la finanziatrice della Compagnia, la stessa che decideva il nostro futuro. Ho fatto di tutto per coronare il mio sogno, spingendomi persino a stringere un accordo con quel vizioso di Stefàn Nazir.
Sono stata ingenua, lo ammetto. Avrei dovuto prestare più attenzione alla sua arroganza e meno all’oceano degli occhi. Ben presto il suo nome ha provocato un nodo allo stomaco e i colibrì in petto. Ora è impossibile prevedere le conseguenze.
Mi aveva avvertita di non conoscere sconfitta e io gli ho giurato battaglia. Nascondo più di quanto crede, e non mi fermerò finché non avrò raggiunto lo scopo.
Un accordo violato.
Una prigionia cospirata.
Una guerra imminente.
Quale sarà la sua prossima mossa?
LanguageItaliano
PublisherGiovanna Roma
Release dateOct 24, 2018
ISBN9788829533084
Vali ogni rischio

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    Vali ogni rischio - Giovanna Roma

    casuale.

    AVVERTENZE

    Devo fare una premessa, perché temo che non tutti sappiano.

    Avete presente la storia de Il lago dei cigni? Il bel principe che confonde la sua amata con un’altra e la condanna a morte? Lo Schiaccianoci, dove una bimba si addormenta e anima i regali di Natale? Figure femminili, delicate. Si pensa al balletto classico in questi termini, forse perché non si conosce altro. Forse perché rilegare è più facile.

    Sappiate che esiste un altro aspetto, che non è il moderno o l’hip hop. Non sono qui per spiegare nulla, ma solo per avvertire che ci sarà una contaminazione. Sporcherò le piume bianche della regina dei cigni, sveglierò la piccola Clara con una secchiata di acqua gelida.

    Non mi soffermerò in lunghe descrizioni tecniche, né nelle sentite e risentite storie di repertorio.

    Ho voglia di spingervi oltre, di svelare l’evoluzione. Spero che al termine della lettura vi verrà voglia di saperne di più sull’argomento, perché quello che succederà a Julija, quello che le si chiede di fare, è tutto veritiero e io ringrazio K. MacMillan per non aver avuto paura di esplorare.

    A chi non sa nulla di quest’opera

    Sommario

    AVVERTENZE 3

    PROLOGO 7

    1 8

    2. 23

    3 36

    4 60

    5 91

    6 117

    7 137

    8 161

    9 171

    10 182

    11 190

    12 199

    13 204

    14 224

    15 243

    16 251

    17 267

    18 272

    19 289

    20 302

    21 314

    22 335

    23 358

    24 374

    25 397

    26 405

    27 411

    28 421

    29 424

    30 444

    EPILOGO 450

    RINGRAZIAMENTI 457

    CONTATTI AUTRICE 458

    PROLOGO

    Sono uno dei pochi rimasti. Il mondo nel quale sono cresciuto è scomparso e così i suoi uomini: perseguitati; massacrati; ridotti a spettri vaganti.

    Oggi anch’io sono uno di loro.

    Non molti ricordano la vecchia vita e negli anni la morte ha sorpreso diversi dei miei compagni. Se non avessimo agito in fretta, i nostri figli sarebbero cresciuti tra fiumi e montagne straniere. Non avrebbero mai conosciuto la loro vera patria.

    A Vaskaja è proibito raccontare la mia storia. Invocare il mio nome è ragione di disordini e sommosse. Il nuovo governo l’ha cancellato dagli archivi militari.

    Temono ancora adesso un fantasma, come è giusto che sia. Tutto ciò che si crede sepolto nell’oscurità del passato, trova il modo di riemergere. È mio dovere narrare i fatti, non ha senso trascinare la verità con me nella tomba. Impedirò che la realtà diventi una chiacchiera vuota.

    Sì.

    Ricordo ancora i particolari della mia storia.

    1

    La notte è fredda. La luce della luna non arriva quaggiù. I pini e i faggi sono un’ombra costante. Ogni crepitio o fruscio nella foresta è scambiato per lo stivale del nemico. Il più flebile soffio del vento potrebbe essere l’alito di un soldato kolosiano armato di un M16.

    Due passi avanti, uno sguardo indietro. Procedo a capo del mio plotone da settimane. Siamo stati assediati tre volte, sconfitti zero. In guerra sono le armi a fare la differenza, la fame degli uomini, i lunghi giorni con i vestiti umidi addosso. Non mangiamo bene da mesi, le munizioni scarseggiano, gli stivali sono logori e abbiamo perso i contatti con i rinforzi. La vegetazione ci isola.

    Teniamo testa ai kolosiani solo perché non conoscono queste terre. Arrivano in Surria, credono di conquistarla, di essere meglio armati, più forti, più furbi, eppure sono incapaci di combattere in una foresta. Attraversare un’area selvaggia con l’artiglieria pesante è una prova dura. Hanno attaccato e occupato la zona settentrionale del paese, ma dovranno sputare sangue prima che gli permetta di raggiungere la capitale, Vaskaja.

    Superato il bosco, eravamo convinti di incrociare il fuoco nemico. Dei due ufficiali ritornati da una ricognizione, solo uno si reggeva in piedi, l’altro era trasportato in spalla, gambizzato.

    «Mine», fu tutto quello che borbottò.

    Ora procediamo cauti lungo il perimetro dei campi congelati. È probabile che i kolosiani abbiano disseminato trappole al centro, nei pressi del fiume, o sotto un albero dove normalmente un uomo si dirigerebbe.

    E pensare che non dovrei essere qui. All’inizio il mio compito era addestrare le reclute ai territori più ostili, alle peggiori circostanze immaginabili e spedirle al fronte. Guidarle per le prime settimane e infine unirmi ai plotoni stanziati nelle zone rosse. I miei superiori non avevano fatto i conti con la guerra.

    Lei cambia tutto.

    Il comandante che avrebbe dovuto sostituirmi, è stato vittima di un assedio in piena notte nel suo accampamento. Sono rimasto isolato, a capo di un tenente e una manciata di ragazzini senza esperienza. La formazione più dura che l’esercito ha da offrire, deve sempre essere accompagnata dall’esperienza per rendere i soldati perfetti.

    In vista dei conflitti hanno presentato domanda di arruolamento, ma per motivi personali. Il patriottismo non centra nulla. Erol, per esempio, era un fabbro disoccupato e considerava il servizio militare un’attività altrettanto fisica. La verità è che nessun impiego ti predispone ad avere un proiettile nelle chiappe.

    Altri si aspettavano la gloria, l’avventura, le donne, un lauto stipendio e una distrazione dall’immobilità totale delle loro vite. Col trascorrere delle settimane le immagini dei militari che avevano creato nelle loro teste, si sono allontanate. Niente ragazze al braccio o uniformi impeccabili. La tenuta da combattimento non ha le medaglie annesse. È rimasto solo il fucile da lucidare ogni giorno. Non siamo esattamente i modelli impeccabili sui volantini di reclutamento o delle interviste televisive. Per i più giovani è persino difficile presentarsi ordinati all’appello delle cinque. Consegnare due taglie più grandi non si è rivelato utile.

    Al fronte è diverso dal campo d’addestramento. Se sbagliano, non li spedisco a pulire le latrine dei compagni, non gli apro l’idrante in faccia mentre eseguono trazioni e flessioni. Se adesso falliscono, condanneranno la squadra. Molti di loro hanno visto un cadavere per la prima volta sotto il mio comando. C’è chi lo scavalca spaventato, chi rimette la colazione e chi rivedrà quegli occhi sbarrati nei propri incubi.

    Nel tardo pomeriggio entro con le truppe a Tacovia. Ci avevano informato che la città era stata risparmiata dagli invasori, ma trovandomi sul campo, studiando i movimenti dei kolosiani nel lungo periodo, sapevo che si sbagliavano. Da chilometri di distanza i generali credono di saperne più di noi. Se non conoscessi il territorio, l’avrei creduta una comune distesa di neve in una zona abbandonata. Gli edifici lunghi e tozzi si mimetizzano. Tutto è tranquillo, concentrato in un piazzale e un casermone dalle pareti perforate. Avrebbero dovuto esserci dei cadaveri per le strade o sangue sui muri, invece niente. Il sentore della carne umana bruciata è inconfondibile, tuttavia nessuno di noi fiata. È chiaro che gli abitanti sono ossa e cenere. Non ci aspettiamo di incontrare qualcuno. Svoltato l’angolo, scoviamo le salme ordinate in pile nella piazza centrale. Le donne hanno le vesti sollevate in vita, i bambini i volti tumefatti, i vecchi gli occhi spalancati. Un avvertimento, una minaccia. Per le truppe è solo benzina sul fuoco.

    «Oh, Signore» mormora un soldato a bocca aperta.

    «Dimenticalo. Non passa di qui da una vita.»

    Stringiamo più forte i nostri Gorand [¹] e io li costringo a proseguire lenti. L’obiettivo non è recuperare fiato. Voglio che assorbano ogni particolare della disumanità dei kolosiani. A poco a poco chinano il capo, sfilano l’elmetto. Fissano il vuoto sovrappensiero. Scoprono la guerra. A dispetto di altre città, Tacovia raccoglie i cadaveri peggiori. Un conto è che i miei uomini guardino la morte, ben altro è che scoprano come il nemico possa infierire su una salma.

    «Li massacreremo, Comandante» giura il tenente Elisey al mio fianco.

    Entriamo nelle abitazioni e permetto loro di saccheggiare cibo, indumenti e medicinali. Solo un soldato sa quanto sia difficile reperire cappotti asciutti nell’esercito del Monarca.

    «Perché ci ha portati qui, Comandante? Per fare provviste?» mormora Daniil sbirciando intorno e stringendo degli stivali sotto il braccio. È un ufficiale piuttosto prudente, per questo lo mando spesso in ricognizione. Non avrà più di diciott’anni. Un’età nella quale si inizia ad amare le donne, la vita. E ora lo costringiamo a puntare l’AK47 contro. In quel silenzio mortale, tuono a gran voce.

    «Uomini! Osservate bene con chi avete a che fare. Stampatevi queste immagini nella memoria, perché le voglio nei vostri occhi quando spezzerete le ossa dei kolosiani.»

    Un urlo di guerra si leva in un vento di neve. I mitra branditi in aria, i pugni stretti al petto. Freddezza e temerarietà, è così che funziona un soldato. La vittoria dipende da questo. «Nessuna pietà» intimo a denti stretti.

    Nello stesso momento.

    « Et un. Et deux. Et trois. Et quatre

    Ogni tempo è scandito dal battito delle mani del Maestro Chevalier. Si ostina a parlarci in francese a lavoro, finendo con il comunicare attraverso i gesti. Austero, all’angolo della sala, vaga con lo sguardo dalla prima all’ultima delle ballerine di fila.

    Io siedo sul parquet in lotta con i lacci delle scarpette. È la terza volta che cerco respiro per i miei piedi gonfi. Lo chignon non fa che cedere e ho perso tre ferretti durante un fouetté [²] . Ho sentito Anna lanciare un gridolino, credo di averla colpita.

    Premo la testa sulle ginocchia chiuse. Oggi non ne va bene una. Avrei dovuto controllare la batteria della sveglia prima di coricarmi. Quella traditrice ha scoccato l’ultimo rintocco mentre dormivo.

    Vago con l’attenzione alla fila di finestre alte. Oltre il vetro dovrebbero esserci alberi, giardini, strade, ma non è così. L’edificio è a cinquanta metri dagli uffici del centro di Vaskaja. Dei pannelli di legno ci riparano da occhiate indiscrete, quindi ci privano della luce del giorno. Mi sveglio con le stelle e torno a casa con la luna. Gli inverni qui sono terribili. Questa mattina, alla vista del sole, mi è venuto un colpo.

    « Avez-vous terminé, mademoiselle Abramova? [³] » Irrigidisco le spalle. « Ou devrions-nous attendre encore ? [⁴] »

    Non serve la traduzione per capire che sono nei guai. La voce di Chevalier si alza di un’ottava. Ha scovato il mio nascondiglio dietro il pianoforte.

    Scatto in piedi prima ancora di sollevare il capo. Mi scusi, sono pronta , avrei ribattuto, se si fosse aspettato una risposta o io avessi studiato il francese. Raggiungo le altre in silenzio, ignorando un crampo al polpaccio. Ho altro a cui pensare: mantenere la struttura con le compagne, assicurarmi di sapere esattamente chi seguire, con chi sono in linea, ripetere mentalmente le ultime correzioni. Fisso la ragazza allo specchio, dritta davanti a me in attesa della musica.

    « Je prétends l'ordre et la discipline . [⁵] »

    L’immagine restituisce una ballerina sull’orlo dello sfinimento.

    « Si je ne vous considère pas digne, vous êtes ruinés. Votre vie est finie . [⁶] »

    Solo io avverto il dolore ai muscoli, i crampi per aver saltato la colazione, il sudore pizzicare gli occhi. Nessuno, neanche il mio riflesso ha modo di percepire il disagio del corpo. E non lo scoprirà mai perché sorrido, sollevo il mento e cancello le rughe sulla fronte.

    Sono felice.

    Sono felice.

    Sono felice. Amo la mia vita e punto più in alto di così.

    Le ballerine di fila mi accerchiano per concludere la coreografia. Girano in tondo, balzano verso gli angoli.

    È il momento del passo a due.

    Entra in scena Azime, ma non vedo il mio partner. Nessun mento appuntito e riccio sulla fronte. Nessuno scaldamuscoli o maglietta sudata, né fascia rossa sulla fronte. Io sono la contadina Sabine e lui è Jean, il cacciatore nell’atto di rapirla. Sono sola in una terra straniera e frustata dalle intemperie. Devo fuggire, piroettare e mimare la paura. Un’angoscia che non riesco a sentire mia, perché io sono diversa. Detesto questo momento. Sabine mostra tutta la sua fragilità, mentre io lo affronterei, mi arrampicherei su una roccia o un albero e gli romperei l’arco in testa. Sarebbe interessante proporre una versione diversa al pubblico. Sarebbe di certo la mia ultima interpretazione, perché Chevalier pretenderebbe la mia testa la sera stessa dello spettacolo.

    Quando diventerò una prima ballerina, i coreografi scriveranno delle opere per me, come è stato per Plava, Godette e tante altre. Hanno calpestato questo teatro, sudato tra sbarre e specchi delle sale prova.

    « Non, non, non [⁷] » alza la voce Chevalier. Le sopracciglia cespugliose inaspriscono la sua espressione. « Julija, tu ne dois pas conduire. Prosterne et avant le deuxième huit je veux voir l'arc. [⁸] » Agita l’indice a terra e in aria « Sabine craint la figure du chasseur. Elle ne le regarde pas . [⁹] » Si copre gli occhi con il palmo per enfatizzare il suo sfogo. « Elle est une créature fragile et petite. Elle, elle, elle, pourquoi je ne peux pas dire toi ? [¹⁰] » Si preme la radice del naso e strizza le labbra. Tira l’orlo del suo giacchetto color sangue. Le mie mani torturano le maniche del body quanto più il suo viso si imporpora.

    Oscilla.

    Sta per esplodere.

    « Oh, bien sûr ! [¹¹] » Schiocca due dita. Una linea rossa gli attraversa la sclera. « Parce que tu n’es pas capable d'être elle ! [¹²] » Sbatte un pugno sul pianoforte. Gli specchi vibrano e la signora Badescu sobbalza dietro i tasti. Il suo apparecchio acustico deve averle detonato il colpo nel cervello. È un uomo piccolino, ma energico quando si tratta di interpretazioni.

    « Volatilise ! Sors d'ici ! [¹³] » Indica l’uscita come se non sapessi dove fosse.

    Eseguo un rapido inchino – perché devo – e mi volatilizzo. Chiusa la porta, ricordo di aver lasciato il borsone dentro. Sbircio dal vetro a oblò e lo osservo sgridare Azime per chissà cosa. Se sgusciassi dentro, mi inveirebbe contro. Premo la fronte sul vetro e l’appanno col fiato. L’orologio appeso alla parete dell’aula entra nel mio campo visivo. È tardi per telefonare all’idraulico. Le tubature della cucina dovranno aspettare. Avrei bisogno anche di una doccia, della colazione e cercare un doppio lavoro per permettermi l’idraulico.

    È proprio una pessima giornata.

    «Non prendertela… A Chevalier non piace nessuna» biascica Dana. Ha la bocca piena di spilli e un porta aghi stracolmo al polso. Ogni mio ricordo nell’istituto è condiviso con lei. Ha influito molto l’essere coetanee e dipendenti della Compagnia. È stata al mio fianco durante tutti gli esami di ammissione, le audizioni e le strigliate dei coreografi.

    In piedi sulla pedana, l’ étoile Annette attende che la migliore costumista del teatro, le sistemi l’abito di scena.

    Se appendessi la scarpetta al chiodo dopo ogni scontro con un coreografo, a quest’ora mi sarei arresa a un altro mestiere. Non sono brava a mollare.

    Vago con lo sguardo sui manifesti degli spettacoli appesi in ogni angolo. Il mio preferito è quello di Irina Kosakova. È stata docente nell’Accademia annessa al teatro per molti anni e io ho avuto la fortuna di capitare nella sua classe per sei mesi. Se non l’avessi conosciuta, avrei creduto che fossero tutti come Chevalier. Dana tenta di aprire una cassettiera ingolfata di schede dei ballerini con taglie e abbinamenti. Ci rinuncia dopo uno sforzo immane, si gratta la testa e cerca altrove. La bacheca è coperta da lembi di stoffa pregiata per la prossima esibizione dell’étoile. Mentre Annette accetta i bouquet e i gioielli dal Monarca dietro le quinte, i veri riguardi si concretizzano in scena. Essere la protetta della corona aiuta a innalzare la propria fama. Un giorno potrebbe decidere di farmi indossare un costume da pollo e io dovrò obbedire. Il suo talento, desiderato da tutti, è lo strumento del potere. Il biglietto d’oro per un tappeto rosso nel mondo. Non significa andare a letto con chiunque, ma sfruttare un dono.

    La settimana scorsa è scivolata durante dei banali fouetté . L’orchestra non se ne era accorta, quindi Annette ha battuto le mani due volte per interromperla e altre due per placare i brusii in sala. È uscita di scena senza una parola. Chevalier non ha potuto rimproverarla.

    Ecco il potere dell’ étoile in questa Compagnia.

    «Julija, stai pestando il tulle», mi riprende Dana.

    Si rischia di inciampare ovunque, tra buste cariche di costumi da rammendare, ritirare o consegnare. Un tempo questo posto era pieno di sarte. Produceva fino a dieci mila costumi l’anno. La guerra ha imposto dei tagli, riducendo la sartoria del teatro a uno stanzino desolato.

    Tirata su una manica, Dana allunga il braccio con il mio borsone. «Non lasciarlo sempre in giro, lo sai…»

    «Ordine e disciplina», termina per lei la prima ballerina. La chioma corvina sembra ancora più nera con l’oro del costume.

    Isso la sacca in spalla. Sono così debole che oscillo sotto il suo peso. Dana osserva il risultato del suo duro lavoro allo specchio, poi scuote la testa e ricomincia ad armeggiare con il metro. Se non si sta attenti, si rischia di finire nella sua spire. Neanche Indiana Jones maneggia la frusta altrettanto bene.

    «Perfetto! Annette, puoi andare.»

    «Sei sicura? Mi sembra troppo accollato. Lo sai che agli uomini piace guardare.» Imbroncia le labbra e le mani scorrono sulle gemme del corsetto. Dana disegna e realizza i costumi che indossiamo. Contraddirla significa trovarsi uno spillo nei punti più impensabili.

    «Allora alza bene le gambe e mostra quelle. Il mio vestito è perfetto.»

    Con la grazia che la contraddistingue, Annette scende dalla pedana e si eclissa dietro il separé per cambiarsi. Le fisso la schiena, non potendo evitare il desiderio di essere elastica quanto lei. Finirò per strapparmi i tendini, invece.

    «Ricorda che oggi è il giovedì-frullato.» Dana mi strappa dal pianeta dell’autocommiserazione.

    «Ah, sì?» Una volta alla settimana ci incontriamo nel caffè del teatro per una pausa. Vivremo anche insieme, ma ci vediamo poco.

    «Azime e io usciamo domani sera. Sarai dei nostri?» Raccoglie della stoffa avanzata mentre l’aspetto già pronta sotto la porta della sartoria. Scuoto la testa e la precedo verso l’uscita del teatro. Degli sconosciuti ubriachi che mi si strusciano addosso in un locale non è la mia idea di divertimento.

    «Andiamo, ci serve un po’ di svago.» Mi corre dietro, scivolando sui gradini in marmo grazie alle ballerine. Le sfila sull’ultimo scalino e mi trattiene per il gomito perché l’aspetti.

    «C’è il giovedì-frullato alla fragola, non basta?» Storco il naso all’idea di ingurgitare quella brodaglia.

    «Soprattutto ci serve il sesso.» Ignora la mia risposta.

    I ragazzi sono la seconda cosa che ci manca dopo il sole. Le palestre e i dormitori sono divisi tra maschi e femmine, quindi non li vediamo mai, se non durante l’allestimento degli spettacoli.

    «Allora esci.» La scorgo infilare i mocassini.

    «No, non ti lascerò sola in camera.» Intreccia il braccio al mio e ci trascina nel gelo del tardo pomeriggio. «Al mio ritorno sarai già sotto le coperte e io con chi parlo? Lo sai che ho problemi di insonnia.» Tra i tanti disturbi che ha.

    «Dopo uno spettacolo estenuante può succedere che crolli», bofonchio accelerando il passo. La salopette mi avvolge in una bolla di calore per le strade.

    «Renderai meglio dopo una serata fuori.» Dana mi agguanta per le spalle e costringe a fissarle gli occhi neri. Sono grandi e caldi. Impongono silenzio e contemplazione. Non mi meraviglia che Azime le vada dietro. Molte danzatrici sposano i loro partner o membri della compagnia, magari accadrà anche a lei.

    È più semplice costruire una relazione con chi è del tuo mondo. Non devi discuterci ogni sera e spiegargli perché non puoi essere una fidanzata normale, perché ogni azione o evento passa in secondo piano rispetto alla danza.

    Vuoi uscire a cena? Sì, dopo le undici di sera, prima ho le prove. Non mangerò molto, tra poco avrò la prima ora di allenamento.

    Pensi di organizzare una gita fuori porta, magari durante le feste? Non è possibile, c’è uno stage importante con un Maestro illustre.

    Ti piacerebbe uscire in bicicletta con me o pattinare su quella famosa pista di ghiaccio? Spiacente, non posso rischiare di rompermi una caviglia. Qualsiasi progetto tu stia per architettare o trascinarmi, sappi che non posso.

    Ho danza.

    «Fuoco! Fuoco! Fuoco!»

    A tre settimane dall’ultimo scontro con i kolosiani, immersi tra le montagne, a chilometri di distanza dalla capitale, ci troviamo ancora sotto l’assedio nemico. Le scorte scarseggiano, nonostante la diminuzione del numero di soldati. Non tutti si sono abituati a dormire e nutrirsi nella foresta fitta. I torrenti sono congelati e la selvaggina è in letargo. Fango e sangue ci imbrattano da giorni, senza che possiamo lavarli via. Presto dovrò ridurre le razioni. Abbiamo il tempo di alzare un accampamento tra uno scontro e l’altro, però la maggior parte delle notti le passiamo con gli zaini in spalla e l’elmetto in testa sotto le bombe. L’armamento non ci protegge dalla neve, né dalla pioggia.

    Aver raggiunto il plotone dell’esercito dello Stato non ha migliorato la situazione. I miei uomini, i soldati del Monarca, muoiono uno dietro l’altro.

    Avanzo prudente verso il campo di battaglia. Una mina esplode a cinquanta metri da me. Il corpo dell’ufficiale che mi precedeva sbalza in aria. Accorro aprendo il fuoco, sbraitando agli altri di scortare un medico. Individuo una sporgenza nella roccia dietro cui trascinarlo e nasconderci. Capisco subito che la situazione è grave e ho esaurito le scorte di pronto soccorso in dotazione. Sistemo il mio semiautomatico e stermino i kolosiani con brevi raffiche. Ne stendo quattordici senza gettare un proiettile nel vuoto. Poi mi piego sul ragazzo per impedirgli di vedere le sue gambe dall’altra parte della radura.

    «Come ti chiami?» Lo scuoto perché non perda conoscenza. Quanto diavolo ci mettono a raggiungerci?

    «Peri» balbetta.

    «Peri, guardami! Ce la farai. Chiamate questo cazzo di medico!» bercio a squarciagola.

    Quando i bombardamenti sembrano cessati, lancio uno stivale allo scoperto. Un kolosiano lo riduce in un colabrodo prima che tocchi terra. Ci tengono di mira.

    Alcuni procedono lenti, convinti di essere dei fantasmi. Certi che non siamo addestrati a individuarli persino sotto il diluvio universale. Sono solo morti che camminano.

    Altri corrono veloci, perché si illudono che l’esercito imperiale non sappia centrare un bersaglio mobile. Per sfregio li facciamo saltare più in alto di tutti. La loro stupidità è un insulto.

    Peri giace tra le mie braccia per i dieci minuti successivi. Inspira piano e in modo discontinuo. Ho avuto talmente tanti soldati sotto il comando che non ricordo i volti di tutti. Lui sarà con me da molto? Ha qualcuno a casa? Sarà un fratello, un figlio? Pigro, solerte? Me lo caricherei in spalla, però il rischio di finire come quello stivale è elevato. Gli fisso il viso rigato di terra e sangue. Avrà meno di vent’anni. I capelli rasati, gli occhi spenti. Una cicatrice gli segna la guancia destra. È stato attaccato altre volte, perché sul collo noto delle ferite ancora aperte.

    Da lontano scorgo Serkan strisciare tra i cespugli. Ha le pupille infossate. Ruota la canna del suo Gerard [¹⁴] in avanti e batte contro il suolo tre volte. È il segnale. Annuisco e torno a controllare Peri. È pallido alla luce riflessa sulla neve. Ha perso i sensi, però respira ancora.

    «Ti tirerò fuori di qui.» Lo scuoto. «Peri, mi senti?» Un flebile rantolo, poi più nulla.

    Né il respiro.

    Né il cuore.

    È in questo che si riduce la guerra: un indugio verso la propria morte.

    L’esplosione sul lato destro è il segnale. Ci stanno coprendo le spalle per permetterci di rientrare. Carico il ragazzo sulla schiena e lo conduco via da lì.

    Schiacciati dal frastuono delle bombe nemiche, tra non molto ripiegheremo verso il fiume. L’artiglieria pesante è incagliata tra le rocce, quindi ordino a Tahsin di caricare un proiettile da cinquecento millimetri nel cannone e usarlo dalla sua postazione. I kolosiani non potranno avanzare senza crepare. Riesce ad aprire in due un autoblindato. Quattro soldati sbucano fuori strisciando. Presto si ritrovano sotto la pioggia dei mortai.

    Peccato non poter sfruttare l’idea nel lungo periodo. Una bestia di queste dimensioni dà troppo nell’occhio e il nemico impiegherà meno di dieci minuti per farla saltare in aria. Sparo brevi raffiche per coprire le spalle di Tahsin. Quindici secondi per puntare ed esplodere venti proiettili, quattro per ricaricare l’arma.

    «Serkan, carica il mortaio. Difendi il fianco destro» sbraito per sovrastare il rumore degli M16. Riconosco il tipico scoppio del suo mezzo e il breve intervallo prima della deflagrazione.

    Maledizione, ho bisogno tanto delle armi quanto degli uomini, ma i secondi sono spacciati senza i primi.

    Un fischio acuto preannuncia l’esplosione dell’ultimo Abrams [¹⁵] del nostro arsenale.

    Nessun rinforzo all’orizzonte, neanche contraerei.

    Avanziamo con difficoltà, metà di noi nel fiume e l’altra strisciando tra le rocce, aprendo il fuoco verso la sponda opposta. I kolosiani raggiungono la riva e poi si ritirano, riprovano a procedere sui cadaveri dei compagni e si ritirano di nuovo. Elisey urla comandi contraddittori. Secondo lui dovremmo avanzare, fermarci e contemporaneamente ripararci. Lo scorgo mancare il bersaglio due volte su tre.

    «Tenente! Mira e premi il grilletto, è la prima lezione. Andiamo!»

    Mi accovaccio in un angolo tra le rocce e l’erba alta. La visione è di novanta gradi, ma nitida. Attacco diciassette kolosiani nel tentativo di attraversare il fiume. Le facce dei loro compagni sono uno spasso. Non sanno chi li stia decimando, da dove provengano i colpi e chi sarà il prossimo. Devo essere preciso. Mancarli significa dargli la possibilità di individuare la mia postazione. Niente domande, nessuna esitazione. Solo BUM.

    O loro o me.

    In mezz’ora che sono nascosto qui, nessuno è arrivato sull’altra sponda. Ho le ginocchia indolenzite e i calzoni fradici. Non immagino il dolore alla schiena quando - e se - riuscirò a tirarmi su.

    Un raggio di luce mi avverte appena in tempo dell’arrivo di un soldato sul fianco sinistro. Scatto a destra, schivando i proiettili. Esasperato, lo stronzo ha il coraggio di ingiungermi a fermarmi e morire. Inveisce e getta a terra il suo AK-46 [¹⁶] . Doveva essere scarico, quindi non lo degno di attenzione.

    Anche se avessi voluto, non avrei potuto.

    Da non so dove, il ragazzo tira fuori un pugnale e si lancia in avanti. Spera di infilzarmi il collo, ma sono troppo grosso per lui, quindi devia la traiettoria sulla spalla. L’adrenalina attenua il dolore, tuttavia la rabbia mi acceca. Questi non sono soldati, non hanno organizzazione, disciplina. Sono un branco di pazzi furiosi. Ecco contro chi ci hanno spedito senza artiglieria.

    Estraggo il pugnale e un fiotto di sangue gli macchia il viso. Resta lì, allibito che sia ancora in piedi. Roteo il braccio sano per mozzargli la testa, quando i suoi compagni mi sono addosso. Non riesco a contarli. Calciano e bastonano da tutte le parti. Uccidono per piacere, non per vincere in nome di un monarca, come noi. I pretesti sono i più disparati: religione, diritti umani, vecchi rancori. Potrebbero spararmi, invece assaporano il dolore della preda. Col pugnale trafiggo le loro ginocchia, li infilzo ai piedi e una volta precipitati col culo a terra, li sgozzo senza perdere tempo.

    Scatto in piedi e intimo agli uomini di avanzare. Elisey mi fissa incredulo al fianco di un soldato appena assassinato. Daniil ruba le armi ai caduti. Fruga nelle tasche per le munizioni, negli anfibi per i pugnali. Diventiamo uno scudo più pesante, ma potente. Inarrestabile fino al corso d’acqua.

    L’alveo del fiume è scosceso, gli uomini scivolano, perdono la mira e non tutti sanno nuotare. Molti galleggiano squarciati dalle bombe. Il fuoco d’artiglieria si intensifica, i soldati cadono e invocano il medico. Tentano con angoscia di respingere i kolosiani. Attaccano alla cieca, rischiando di centrare i loro compagni. Siamo circondati dal fuoco nemico. È difficile individuare il punto d’origine, sembrerebbe provenire da ogni angolo.

    Ci hanno circondati.

    O ci puntano dall’alto della collina. In qualche modo si sono guadagnati una posizione vantaggiosa.

    «Questa volta non ce la faremo, Comandante.» Una botta di fiducia in sé stessi è quello che occorre in un combattimento.

    «Sta zitto, Elisey.» Mentre tento di rialzarmi, lui mi imprigiona per la spalla e trattiene a terra.

    «Ieri notte ho fatto un sogno…»

    «Mentre eri di guardia?» Non lo degno di attenzione. Cerco solo di liberarmi dalla sua presa.

    «Ho sognato la mia famiglia, mia sorella…» Smetto di opporre resistenza e lo precedo in ciò che sta per chiedermi.

    «Non morirai, ok?» Stringo il medaglione al petto da sopra il giubbotto. Traggo energia dal suo significato. Non mi ha spedito quaggiù per farli morire. «Abbi un po’ di fiducia, cazzo. Ce la faremo.» Balzo in piedi e apro il fuoco sui nemici. Scorgo Serkan abbatterli uno a uno e Tahsin scaricare il suo automatico sui kolosiani sparpagliati a monte.

    «Se ne uscirò vivo, giuro di andare a trovarla. Non la vedo da tre anni.»

    Lancio una bomba oltre la radura, dimentico del frignone al mio fianco.

    «E non la rivedrò mai più.»

    Riparo le orecchie tra le mani, la terra vibra sotto i nostri petti. Una pioggia di metallo e terra ci ricopre.

    «Non ricordo neanche di cosa abbiamo parlato l’ultima volta.» Il fumo ammanta tutto.

    «Se non riuscissi a dirle addio…»

    Polvere e sangue mi imbrattano il viso. Tento di strofinare gli occhi, aggravando il bruciore. Il sangue è fresco, però non è mio.

    «Lo sa che lavora in teatro? Sono così fiero di lei…»

    Fisso il tenente. Si regge l’avambraccio. Una macchia cremisi si allarga sulla divisa.

    «Non sono mai andato a trovarla…»

    Gli spingo via la mano perché mostri la ferita. Non è provocata da un’arma da fuoco. È solo taglio superficiale. Sprecherei meno di un cerotto per una cosa del genere.

    «Mi hai stancato, Elisey!» Lo afferro per la calotta e scuoto per quanto la posizione scomoda lo conceda. «La vedrai!» È un ragazzino che ritornerà soldato appena un adulto prenderà in mano la situazione. «A costo di trascinarti di peso io stesso. Non morirai per un graffietto, va bene? Ora recupera le palle, alza il culo e spara.»

    Siamo a dieci metri dall’ultimo plotone avversario, quando un pugno di soldati ci sorprende sul fianco destro. Quello che doveva essere sorvegliato da Elisey. Non dubito un secondo sulla prossima mossa e gli uomini mi seguono a ruota: apriamo il fuoco finché non li riempiamo di piombo.

    Nel mentre, altri ci colgono alle spalle. Con un balzo Serkan mi fa da scudo e spara. Si uniscono Elisey e Tahsin. Una testuggine in difesa del loro superiore.

    «Stia indietro, Comandante. Li teniamo a bada noi» promette il tenente. Punta l’M6 [¹⁷] contro uno di loro, un ragazzino di appena vent’anni. Ha l’uniforme talmente rovinata da rendere irriconoscibile il colore. Se non tentasse di ucciderci, crederei che fosse del mio plotone. Trema tanto da non riuscire a tenere l’arma neanche con l’aiuto di entrambe le mani. L’hanno piazzato lì come ultima risorsa per difendere un esercito in rovina. Memore della pessima mira di Elisey, allungo la canna del Gorand tra lui e Tahsin. L’abbatto con un colpo.

    Il silenzio precipita su di noi. Restiamo immobili, tesi, le mani strette intorno alle armi, pronti alla schiera successiva.

    A poco a poco la puzza di fumo si disperde. L’udito ritorna con il fiatone di chi è scampato alla morte e i gemiti di chi è ferito.

    Nulla è semplice in guerra: devi pensare in fretta; arrangiarti con le poche armi che ti ritrovi a fine giornata; riportare più uomini possibili alla base; avanzare in ogni battaglia. Solo una scelta è facile da compiere: o loro o noi.

    2.

    Il teatro è in fermento. Le prove sono state un disastro, ma grazie al cielo sono terminate. Lo spettacolo inizierà a breve e coinvolgerà sia il corpo di ballo professionista che le allieve dell’Accademia. È un rito di passaggio, quindi una vetrina per tutti. La Compagnia imperiale non è un club per amanti del balletto. È venerata come un tesoro vivente.

    Arrivo con due ore di anticipo per trovare la giusta concentrazione.

    Ognuno ha un rituale prima di iniziare. Azime, per esempio, si stende al centro del palco per un quarto d’ora. Io visito la stanza delle scarpette da punta.

    Avevo sette anni quando indossai le prime. Erano cinque numeri più grandi, ma la curiosità di sapere cosa si provasse ad averle ai piedi, era grande. Ho dovuto attendere altri undici anni per reclamare il mio paio personalizzato. Durante la consegna del diploma, il Direttore della Compagnia assegnò a ognuno la propria mensola e una scarpetta. Oggi ne avrò una ventina. Il mio scomparto straripa, eppure non bastano mai.

    Tutt’intorno nel retropalco l’aria è satura di ansia e frenesia. Alcuni si riscaldano adoperando le funi dei macchinisti come sbarre d’appoggio. Inevitabilmente i ragazzi iniziano a competere sul palco su chi salti più in alto o compia il maggior numero di piroette [¹⁸] . Azime è un talento, anche se Misha è migliorato nelle ultime settimane. Lo scorgo agitare il braccio nella mia direzione, quindi distolgo lo sguardo dopo un saluto distratto. Siamo stati insieme solo una notte, ma da allora ho perso il coraggio di affrontarlo. Dovevamo divertirci, riprenderci dallo stress del lavoro, invece il giorno dopo mi ha chiesto di metterci insieme. Da allora ho chiuso con le storie occasionali. Ovvero due anni fa.

    Come era prevedibile che fosse, in teatro niente è al suo posto. Le scarpette da mezzapunta di Valentina sono ancora inchiodate alla suoletta, i nastrini per i capelli di Marina sono sfilacciati, le calze di Karina smagliate. Per quanto controlli e ricontrolli il necessario, sfugge sempre qualcosa.

    Siedo a terra dietro le quinte, intenta a ricucirmi il costume sotto l’unica lampadina esistente. Reggo l’ago tra i denti, il filo penzola fino al tulle. Sarà un caso eccezionale se non si strapperà durante l’esibizione. Spendono una fortuna per i primi ballerini, mentre a noi spettano gli scarti della sartoria.

    «Shhh!»

    «Dai, spostati! Fammi vedere.»

    Un gruppetto del primo anno spia attraverso le tende del sipario. Ridacchiano e saltellano. Il pubblico starà per arrivare. È un giudice severo e accanito, motivo di appagamento e di panico per gli adulti, figuriamoci per i bambini.

    Madame Moreau le afferra per le orecchie e trascina nella direzione opposta. È la classica insegnante con i capelli raccolti in una mezza coda color carbone, un minuscolo ciondolo al collo e la frangetta sottile. Sorrido al ricordo di Dana e io con le guance premute sul palco per spiare da sotto il sipario. L’odore della pece ci penetrava nelle narici fino a farci starnutire. Allora non sapevo che il talento contasse fino a un certo punto. Occorre avvicinarsi alla corona per stringere il sogno tra le mani. Crescendo, passi dall’essere una ballerina obbediente a una cacciatrice.

    «Veloci, fermatela!»

    Un agente della sicurezza a momenti mi travolge, correndo dietro ad Annette. Mi alzo lentamente, terrorizzata dal suo stato. Entrerà in scena prima di tutti e i suoi capelli sono una massa arruffata, il costume è logoro e macchiato di rosso.

    La raggiungo insieme a Dana e ai coreografi.

    «Lasciatemi!»

    «Calmati!» Chevalier la trattiene per le braccia, mentre Madame Moreau le accarezza le guance e le agita un sacchetto di sali sotto il naso.

    «Li ho visti galleggiare… Stanno arrivando.» Le lacrime sgorgano copiose dalle sue ciglia. «Ero vicino al fiume… Ero quasi arrivata in teatro, quando ho visto i corpi nell’acqua.»

    L’adagiano a terra con delicatezza, nascosta dietro le quinte. Le coprono piano la bocca perché non urli troppo. I suoi occhi sgranati balzano in ogni dove. La folla intorno a lei s’infittisce. Persino io fatico a respirare.

    «È solo la paura prima dello spettacolo» tenta Moreau. Scioglie il nodo del fazzoletto al collo e lo usa per farle vento sul viso. Ne ho viste di ballerine agitate prima di uno spettacolo, però mai delirare di cadaveri galleggianti.

    «O magari è in cerca di attenzioni», bofonchia Chevalier in piedi e con le mani nelle tasche dei pantaloni.

    Moreau insiste ad accarezzarle la fronte, a rassicurarla che si sbaglia, intanto le unghie dell’étoile si conficcano nel mio polso. Sono rimasta solo io tra le sue colleghe.

    «Annette, lasciami… Ti prego, calmati.» Un dito alla volta mi libero dalla stretta. «Avrai visto un tronco. Lo sai che c’è un viale alberato lungo il fiume.»

    Le sue labbra arricciate rivelano lo sforzo di trattenere la rabbia. Nessuno le crede. Imprigiona la mia treccia bionda in un pugno e costringe ad accovacciarmi accanto a lei. Le sue labbra sfiorano il lobo dell’orecchio, mentre le parole penetrano nelle vene.

    «I tuoi tronchi avevano la divisa delle guardie imperiali. È il nostro esercito a morire. Sono alle porte, Julija.»

    C’è solo un corso d’acqua che attraversa Vaskaja e si origina sulle montagne di Kazan. Le sue foreste sono impervie, è a mala pena possibile passeggiarci, figuriamoci combattere.

    Una mano calda si posa sicura sulla mia spalla e mi tira indietro. Gli permetto di trascinarmi, quasi fossi una bambola abbandonata sul sentiero. Sono costretta a lasciar passare i medici. Incapace di reggermi sulle gambe, ritorno seduta al mio angolino sotto il fascio di luce.

    L’ago mi pizzica i polpastrelli, la stoffa si arriccia da sola. Non riesco più a cucire. Ripenso ad Annette, alle sue parole, agli occhi terrorizzati. Tremava tanto da avere le convulsioni. Non può aver immaginato una scena del genere. Lei è una ragazza allegra, certe immagini deve vederle. Non le verrebbero mai in mente da sole. Strizzo le palpebre e mi pungo di proposito. Se non torno a concentrarmi sullo spettacolo, impazzirò prima che il sipario si alzi.

    «Stai bene? Ti tremano le dita.» Dana mi posa una mano sul braccio e recupera il mio costume.

    «Meglio di lei.» Riprendo a contemplare i medici intorno ad Annette.

    «Ti ha detto qualcosa?» si informa mentre cuce al posto mio. Scrollo le spalle per non agitarla.

    «Nulla di che… Delirava… Forse si è addormentata e ha avuto un incubo.» Il sopracciglio inarcato di Dana è il chiaro segno che non se la beve. «Magari si è immedesimata nel personaggio e non l’abbiamo capito» ritento, ma quando la vedo piantarsi in grembo il mio costume e incrociare le braccia, capisco che è meglio raccontarle la verità o nessuno cucirà il vestito. «È convinta che stiamo perdendo la guerra.» Suona meglio dei corpi galleggianti dei nostri soldati lungo il fiume. E poi non ha senso allarmarla. Suo fratello è nell’esercito.

    «Cosa ne pensi?»

    «Se fosse vero, la polizia lo saprebbe.»

    «E la famiglia imperiale non sarebbe qui» aggiunge. Spezza il filo con i denti e mi restituisce il costume.

    Loro sono i nostri primi finanziatori. I loro agganci, le loro referenze valgono più del talento di una ballerina. Sono un simbolo, non più governanti, ma di certo i più ricchi del paese. Tanto da mantenere un esercito personale. Dare il meglio in presenza delle famiglie influenti, ci permette di salire di livello. Puoi essere brava quanto vuoi, ricevere le raccomandazioni dell’intero corpo docente dell’Accademia, ma rimarrai una ballerina di fila senza le grazie del monarca.

    «In piedi, Julija.»

    I miei occhi fissi sulla folla intorno ad Annette, si alzano su Chevalier. Dietro la schiena nasconde il suo costume, lo riconosco dalle balze della gonna.

    «Complimenti, signorina.»

    Respiro a fondo e male. Ho la tachicardia e i palmi sudati. Con lentezza solenne mi alzo in piedi. Nello stesso istante i medici si elevano. Le braccia distese lungo i fianchi, il capo chino. Individuo in me i segnali della paura.

    «Vestiti. La parte è tua.» Allunga il braccio con l’abito. È più di un vestito, è uno dei ruoli più importanti dello spettacolo e sarò io a interpretarlo. Lo accetto come un prete accoglierebbe la reliquia di un santo.

    «A quanto pare doveva morire qualcuna per dare a te la parte della coprotagonista.»

    I medici si allontanano, lasciano lo spazio a un telo bianco. Una mano pallida e inanimata sbuca da sotto.

    «Tu, Dana, prenderai il posto di Julija.»

    La signora Moreau singhiozza inginocchiata, dove presumo il lenzuolo nasconda la testa di Annette. Non era così che immaginavo di ricevere il mio primo ruolo importante.

    «Ci servono i soldi, quindi sorridete, state dritte e non fateci vergognare. Allez! Vite, vite! [¹⁹] » Batte le mani per risvegliarci dallo shock. «Tra cinque minuti in scena.» Torna dalla collega per aiutarla ad alzarsi e raggiungere le sue studentesse. Non sono neanche sicura di aver sbattuto le palpebre o chiuso la bocca.

    Ho la mente vuota.

    Non ho mai desiderato tanto di morire. Per favore, che qualcuno almeno mi infilzi gli occhi. Ci sono dipinti immensi sul fondale e costumi colorati, eppure le forme sbiadiscono, la musica provoca sonnolenza. Non sono niente. Nuvole, piume. Non saprei. Sono un adulto. Sono un cazzo di soldato, e ho il sentore di essere caduto in un mondo di folli tra questi folletti e ali di farfalle. La mano scorre sulla faccia, le dita perforano i bulbi oculari, il palmo copre uno sbadiglio.

    Mi focalizzo su un elemento che appare il più irrequieto e che tutti i personaggi sul palco osservano. Scortica il talento delle altre con braccia affusolate e una casacca povera ma dai disegni complicati. Trattengo l’impulso di scattare in piedi, raggiungerla e permettere alle mani di banchettare su quelle linee. Incrocio le gambe e resto seduto.

    Ignoro quale sia la storia. Non so perché balzino da tutte le parti, volteggino e si agitino tanto, però è chiaro che la protagonista non sia lei, bensì una principessa. La ragazza che seguo forse sarà la sua serva. Sono abbastanza vicino da catturarne l’espressione addolorata, poi felice e dopo di nuovo amareggiata. Ha due iridi brillanti che stonano con il sacco che indossa. Ma chi le cuce i vestiti? Una così dovrebbe essere ricoperta di gemme.

    Al diavolo il fazzoletto in testa, mostrami l’oro dei tuoi capelli.

    Scivola con le scarpette in lungo e in largo, quasi nascondesse un tappeto mobile sotto i piedi. Un ballerino la cattura in vita e la fa volteggiare. Non deve pesare niente. Ondeggia le braccia quasi le mancassero le ossa. Alza la gamba mentre la carica in spalla, peccato sia troppo coperta da tulle e calze per rivelare qualcosa. La riposa a terra e lei non ha occhi che per lui. Resto immobile, a corto di fiato, sbattendo appena le palpebre e osservando, mentre lei infonde colori alla vita grigia di un soldato. Cambia d’abito e passo un quarto d’ora con gli occhi inchiodati ai lati della scena, aspettando che rientri. Si ripresenta con un vestito sfarzoso.

    Mi gratto la fronte e urto accidentalmente il pacco di patatine di Elisey con il gomito. Non ci capisco niente di balletto. Si muovono tutti insieme, tutti uguali. Le braccia si sollevano all’unisono, le teste si voltano in sincrono. Mi ricordano l’esercito, solo più spoglio e aggraziato.

    Avverto il tenente mugugnare al mio fianco.

    «Che c’è?» sussurro.

    «Dana non mi aveva avvisato che ballava, sapevo che lavorava solo nella sartoria», borbotta affossandosi nel sedile. «Non mi piace per niente. Sa cosa raccontano delle ballerine? Si vocifera che la diano come pane alla famiglia imperiale o agli ufficiali, pur di avere un ruolo.» La sorella continua a rimanere immobile con un rastrello in mano nell’angolo della scena. Non fa altro per mezz’ora, poi esce.

    «È come in macelleria: entri, scegli il pezzo di carne con la gamba lunga o il naso all’insù, lo compri, lo sbrani e butti via l’osso a qualche cane.»

    Di cosa si lamenta? Noi prendiamo servizio prima dell’alba, terminiamo dopo il tramonto e non conosciamo pausa la notte. È un regime che divora le relazioni. Siamo solo in cerca di una scopata occasionale, un divertimento effimero. Niente nomi, indirizzi, nessun impegno. Cambiare stile sarebbe uno sforzo inutile. Non ricordo neppure le loro facce, se fossero more o rosse. Le donne disposte ad accettarlo sono poche. Vedono il cazzo, le fai godere e non te le stacchi più. Non sopporterei quel genere di piagnistei. Grazie al cielo per altre il disinteresse è reciproco.

    «Qual è la storia?» chiedo senza staccare gli occhi dal bancone del macellaio.

    «Lei è la contadina.» Indica una ragazza tra le tante col suo dito unto di olio e sale.

    «È vestita da dama, come può essere una contadina?» Lo studio per la prima volta dall’inizio di questo rebus, ma alzo troppo la voce e mi zittiscono da dietro. Due ore nella civiltà e già mi manca il campo di battaglia.

    «Ma chi sta guardando?» Elisey si tira a sedere dritto. Afferra la spalliera davanti e accidentalmente tira i capelli a una spettatrice. Avendo una sorella impiegata qui, si sente un esperto.

    «Dana», rispondo dopo un attimo di esitazione. Smetto di chiedere e torno seduto composto.

    Lei è sparita dalla scena.

    Con la vista periferica scorgo Elisey lanciare le patatine contro qualche commilitone dietro e sogghignare. Mi allunga il pacchetto quando nota che lo scruto in tralice.

    «Qual è la storia?» ritento, piegandomi verso di lui.

    «Lei è la contadina e poi…» Agita la mano verso il palcoscenico e arriccia le labbra. Scrolla le spalle e deduce brillante «succedono cose in un castello… Vede? C’è una regina… Quella con la corona.» Si riempie la bocca di patatine prima che lo faccia io. Bofonchia qualcos’altro di incomprensibile su un tizio con un arco che dovrebbe essere un cacciatore. Se spiega che sono in una foresta perché c’è un albero, lo strozzo.

    Ne sa meno di me.

    La tortura dello spettacolo ha vita breve. Al termine di un duello con le spade, il sipario scende e le luci si accendono in sala.

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