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VERITAS
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Ebook454 pages5 hours

VERITAS

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About this ebook

In una fredda notte d’inverno del 1990, un anziano professore di storia dell’arte, Edward Holman, si lancia dalla torre dell’orologio di uno degli edifici più importanti del campus di Harvard, affidando al vento la sua ultima parola: Veritas.

Il 5 giugno del 1944, in una Roma appena liberata, quattro soldati, provenienti da diversi eserciti delle truppe Alleate, vengono convocati con urgenza presso il palazzo apostolico in Vaticano, per una misteriosa missione.

Intanto ai giorni nostri, Henry Walton, un giovane studioso della teoria dei sistemi complessi, ultimata la sua conferenza presso il MIT di Boston, si imbatte in uno strano codice, ritrovato su una vecchia copia senza valore, dello “Sposalizio della Vergine” di Raffaello.

In un continuo viaggio nel tempo, tra passato e presente, tra organizzazioni fantasma e società segrete,  tra dipinti di Raffaello e Jacques Louis David, prenderemo parte alla più sacra di tutte le ricerche, svelando segreti tenuti nascosti dalla Chiesa per millenni e facendo luce sul più antico mistero di tutti i tempi.
Dove si nasconde e che cos’è davvero il Santo Graal?
LanguageItaliano
PublisherLife
Release dateOct 12, 2018
ISBN9788829526673
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    VERITAS - Mauro Paolucci

    casuale.

    Prologo

    Harvard University,

    Cambridge, Massachusetts

    1990

    VERITAS.

    Il rumore delle foglie secche che si frantumavano sotto le suole delle scarpe copriva i battiti accelerati del cuore che gli esplodevano in testa. Il suo corpo lo implorava di fermarsi. L’uomo alzò un istante il viso per guardare quelle lettere scolpite nella pietra al di sopra di un grande architrave, Veritas, il motto dell’antica università di Harvard.

    Ad ogni respiro l’aria fredda della notte, che attraverso le narici riempiva gli stanchi polmoni, gli provocava una acuta fitta di dolore, come una coltellata in pieno petto. Sapeva che il tempo a sua disposizione era agli sgoccioli e non perché avesse, oramai da molto, superato i 70 anni.

    Con un gesto istintivo svoltò velocemente a destra su Memorial Drive e subito la vide, un’alta torre campanaria che svettava nella notte con il suo tetto cremisi, illuminata da potenti fari.

    Nonostante l’affanno aveva tutto chiaro in mente.

    Girò in direzione dell’edificio, quando all’improvviso sentì alle sue spalle il rumore di un’auto lanciata a tutta velocità su Soldiers Field Road, dall'altra parte del fiume.

    Stanno venendo a prendermi. Pensò l’uomo e affrettò il passo entrando nel vecchio edificio.

    Il caro odore di legno stagionato, così familiare, e il tepore gli regalarono un fuggevole momento di tranquillità. Ah…Proust. Sospirò l’uomo. Ma subito la sua attenzione si focalizzò sulla rampa di scale che gli si presentava di fronte.

    Ancora un ultimo sforzo! si disse.

    Cominciò a salire i gradini affacciandosi ad ogni rampa sui corridoi immersi nel più totale silenzio. Conosceva bene la storia di quell’edificio. Costruito nel 1930 come dormitorio per gli studenti meno abbienti, la casa non era stata dotata nemmeno di un ascensore, che in quel momento gli avrebbe fatto davvero comodo. Nel tempo si era poi affermata come vera e propria icona del campus, venendo scelta da molti studenti che sarebbero divenuti famosi nel tempo.

    L’uomo per un attimo si fermò a riprendere fiato, intorno a lui regnava il buio. Gli studenti dormivano nelle proprie stanze ignari di ciò che stesse accadendo quella notte. Dopo un attimo riprese a salire verso la parte più alta dell’edificio: la torre dell’orologio.

    Entrò velocemente in quell’alto ambiente, attraversando una piccola porta di legno che subito richiuse alle proprie spalle. In quello stesso istante quattro uomini armati, vestiti di nero, entravano dal portone principale dell’edificio e si dirigevano di corsa verso le scale, salendo i gradini a due a due. Giunti in un baleno alla porticina di legno provarono ad aprirla, ma si resero subito conto che era stata bloccata dall’interno.

    L’anziano uomo sentì il rumore delle spallate riecheggiare nel vuoto volume della torre, ma non accennò nemmeno per un istante a fermarsi. Era deciso a portare in fondo la missione che si era prefissato. Sapeva benissimo che ciò che stava facendo contravveniva a qualsiasi tipo di logica, ma non poteva portare il segreto di cui era depositario nella tomba. Sperava che un giorno qualcuno sarebbe riuscito a decifrare il codice, riuscendo così a scoprire la verità. Era l’ultimo del suo gruppo ad essere ancora in vita, e sentiva di non poter fallire.

    Doveva continuare a credere che qualcuno in futuro sarebbe riuscito a ritrovare le tracce e a collegare tutti i punti per scoprire il grande segreto di cui era a conoscenza.

    Doveva provare in qualsiasi modo a tramandare quella verità, che altrimenti si sarebbe dissolta nel nulla, per sempre. Improvvisamente lo schianto della porta, che cedeva sotto le pesanti spallate, rimbombò nelle orecchie dell’uomo e nel suo cuore. Il tempo era terminato. I quattro uomini in un attimo lo raggiunsero nel locale che ospitava l’ingranaggio degli enormi orologi.

    Ho finito. Pensò l’uomo.

    E’ finita. Disse uno dei quattro con uno strano accento, notando il vecchio girato di spalle.

    L’anziano uomo si girò a guardarli. Provò a cercare nei loro occhi la più piccola traccia di umana pietà, ma non trovò nulla. Poi ad un tratto un lampo attraversò il suo sguardo e con un rapido scatto si diresse verso la piccola rampa in legno che s’inerpicava verso l’alto, fino ad una botola nel soffitto. Saliva i gradini, con le poche forze residue, sperando di trovare la botola aperta. Protese le mani in avanti sapendo che, se la porticina in legno fosse stata chiusa, molto probabilmente i suoi vecchi polsi non avrebbero retto all’impatto. Per un attimo sentì la ruvidità del legno sotto i palmi e istintivamente chiuse gli occhi.

    La botola era aperta.

    La spalancò e con un lungo passo si portò sul calpestio del piano superiore. L’improvviso vento freddo gli schiaffeggiò il viso e, prima di riuscire a guardarsi intorno per rendersi conto di dove fosse finito, richiuse con violenza la porticina sulla testa dei suoi inseguitori. Sentì di aver colpito qualcuno, il rumore del pesante corpo che ruzzolava giù dalla rampa di scale gliene diede conferma. Alzò gli occhi e capì di essere arrivato in un ampio ambiente che sorgeva sulla sommità della torre, caratterizzato da profondi archi che lo mettevano in collegamento con l’esterno, esattamente al di sotto della cupola cremisi. Si guardò attorno rendendosi conto che non c’era nessuna via di fuga, né qualcosa che gli permettesse di bloccare la botola. Niente.

    Tutto è compiuto. Pensò l’uomo, con un impercettibile senso di soddisfazione.

    I quattro inseguitori spalancarono la botola violentemente, producendo un grande rumore che riecheggiò nel volume vuoto. Si girarono intorno a cercare l’anziano, ma non lo videro.

    Non appena i loro occhi si furono abituati al buio, riconobbero la sagoma dell’uomo addossata ad un arco, staccata dal fondo scuro della notte, grazie alla potente luce dei fari

    che illuminavano la torre.

    L’uomo era salito in piedi sul bordo del parapetto, al di sotto di uno degli archi, e guardava verso l’orizzonte. In tanti anni non aveva mai visto il paesaggio da quel punto. Si girò a guardare i suoi inseguitori. I quattro uomini non proferirono parola.

    Sapeva che in quel modo gli stava solo facilitando le cose, ma preferiva farlo da solo.

    Socchiuse le labbra, espirando profondamente.

    Veritas. Sussurrò.

    Saltò all’indietro, allargando le braccia come per planare, ma il volo durò soltanto un istante, e poi ci fu solo buio.

    Nero.

    1

    Palazzo Apostolico

    Città del Vaticano

    1944

    Nero era il fango accumulatosi sotto gli anfibi che insudiciava il lungo tappeto rosso utilizzato come guida. Fuori il tempo non accennava a migliorare. Aveva piovuto per tutto il giorno e, a giudicare dalle nuvole, non avrebbe certo smesso.

    Il sergente Horowitz continuò a camminare sulla lunga lingua rossa che si snodava negli immensi ambienti del palazzo apostolico.

    Segua sempre il tappeto, non può sbagliare. Aveva detto la guardia svizzera all’ingresso del palazzo. La stanno aspettando, Sergente Horowitz.

    Il soldato aveva accennato ad un saluto militare ed era entrato. Gli riusciva sempre difficile pensare alla Guardia Svizzera come ad un corpo militare, per via di quella buffa divisa, che si diceva fosse stata disegnata da Michelangelo in persona, oltre cinquecento anni prima.

    Ora stava attraversando la galleria delle carte geografiche. In realtà non aveva assolutamente bisogno di seguire la lunga guida, conosceva benissimo quel palazzo, quella galleria, le Stanze e le Logge di Raffaello. Grazie agli studi in storia dell’arte, aveva imparato a conoscere e ad amare quell’immenso museo che è il Palazzo Apostolico Vaticano.

    Ma nonostante la familiarità che aveva con quegli ambienti, il Sergente Horowitz provava un profondo senso di smarrimento, dovuto al fatto di non avere minimamente idea del perché fosse stato convocato in Vaticano.

    La stanno aspettando. Quella frase continuava a ronzare nella sua testa.

    Chi lo stava aspettando? E perché?

    Erano passate solo poche ore dalla liberazione di Roma e lui, come tutti, era ancora alle prese con i festeggiamenti. Sapeva che sarebbero durati pochissimo ed aveva intenzione di goderseli fino in fondo, prima che la marcia verso nord fosse ricominciata, verso la temibile Linea Gotica. Ma i suoi piani erano stati sconvolti da un dispaccio proveniente direttamente dall’alto comando.

    - Presentarsi domani, 5 giugno 1944, presso l’ingresso di Porta Sant’Anna, in Città del Vaticano, alle ore 7.00 p.m. –

    Alzando gli occhi dal foglio, aveva incrociato lo sguardo del suo comandante.

    Signore, è a conoscenza di un comando installatosi all’interno della Città del Vaticano?

    No, che io sappia. Ma qui è tutto nuovo e oramai non mi meraviglio più di nulla. Rispose il comandante, con quel suo solito tono giocoso che lo aiutava a mantenere alto il morale delle truppe.

    Continuava a tenere lo sguardo sulla guida rossa, finché non si bloccò di colpo. Non poteva credere ai propri occhi.

    Il pesante portone che si apriva sugli appartamenti privati del Papa era spalancato e il lungo tappeto si insinuava al suo interno, invitandolo ad entrare.

    Horowitz si guardò intorno, come a controllare che nessuno lo stesse guardando, ma non aspettò due secondi per decidersi a varcare quella soglia, penetrando così nella zona privata del palazzo, accessibile di norma solo ai componenti della curia romana.

    Male che va, dirò che mi sono perso. Pensò.

    Attraversato il primo meraviglioso salone affrescato, si ritrovò in un lungo corridoio dalle pareti bianche, dove la guida rossa era intanto diventata un enorme tappeto che copriva l’intero pavimento. In fondo scorse una larga porta di noce a due battenti e sulla sinistra notò che il corridoio svoltava con un angolo a novanta gradi. Horowitz avanzò lentamente, quando sentì delle voci. Notò sulla sinistra un’altra porta in noce scuro e in un attimo realizzò che poteva rappresentare la sua unica chance per sparire da quel posto. D’istinto afferrò la maniglia e la girò, cercando di ostentare sicurezza nei confronti delle due guardie svizzere che stavano voltando l’angolo, e che da lì a breve l’avrebbero visto. Aprì la porta e di fronte ai suoi occhi vide apparire incredibilmente una chiesa. Sembrava un miraggio, un ambiente così grande, incastrato tra i corridoi del palazzo. Dopo aver velocemente spaziato con la vista in quella inaspettata architettura, la sua attenzione fu attirata da una figura inginocchiata al centro della larga navata. L’uomo era totalmente immerso nella preghiera, tanto da non essersi nemmeno accorto dell'ingresso del militare. L’abito bianco che indossava non lasciava dubbi sulla sua identità.

    Fermo! Gli intimarono le guardie dal fondo del corridoio.

    La figura in bianco alzò lo sguardo e con aria serafica, attraverso dei piccoli occhiali rotondi, fissò l' ammutolito soldato.

    Mi scusi…. signor Papa. Gli sussurrò goffamente il militare, chiudendo velocemente il battente in noce.

    Horowitz si voltò verso le due guardie che si stavano avvicinando a passo svelto.

    Sono spacciato. Pensò.

    Non di là, quella è la cappella privata di sua Santità. Gli disse uno dei gendarmi, abbozzando un piccolo sorriso.

    La stanno aspettando….prego da questa parte. Aggiunse l’altro, invitandolo a seguirli verso la porta in fondo al corridoio.

    Ma chi mi sta aspettando? Si domandò il sergente Horowitz, che ancora non poteva credere di aver visto Sua Santità, e soprattutto di averlo salutato chiamandolo ‘Signor Papa’.

    Erano quasi venti minuti che stava aspettando, seduto al grande tavolo della biblioteca privata di Sua Santità, nel palazzo apostolico. Certo non era una cosa che accadeva tutti i giorni, ma se proprio doveva attendere tutto quel tempo, avrebbe preferito farlo in uno dei tanti saloni affrescati, ammirando magari uno dei capolavori di Raffaello. Ed invece era lì in silenzio, con altri due militari che come lui, non avevano minimamente idea del motivo di quella strana convocazione. Si alzò e si diresse alla finestra. Piazza San Pietro era vuota sotto la pioggia battente, e forse per questo motivo era ancora più bella, soprattutto osservandola da quel punto di vista privilegiato. Il colonnato del Bernini era perfetto nella sua forma ogivale, con le due fontane piazzate esattamente nei fuochi dell’ellisse e il grande obelisco egizio al centro. Per un attimo spostò l’attenzione dalla piazza al proprio riflesso nel vetro della finestra. I piccoli occhi neri erano ancora vispi, nonostante il resto della faccia denunciasse tutti i suoi anni, e forse anche qualcuno in più. Di sicuro la guerra non gli aveva fatto bene. Erano passati ormai cinque anni da quando era partito dalla sua Napoli, e dopo molte battaglie aveva quasi raggiunto i cinquant’anni. La sua attenzione si spostò poi lentamente sugli altri uomini presenti in quella biblioteca. In fondo al lungo tavolo era seduto un colonnello dell’esercito americano, dal volto tondo. Da quando era arrivato non l’aveva visto alzare, nemmeno per un attimo, lo sguardo dai documenti che stava leggendo. Alle sue spalle, accomodato su una sedia dorata addossata al muro, c’era un cardinale, anche egli perso nei propri pensieri. Aveva i capelli ricci e degli occhiali tondi, molto simili a quelli che aveva visto indossare al papa, sulle foto dei giornali.

    Forse è una moda in voga in Vaticano. Pensò il militare. Dall’altro lato del tavolo sedeva un giovane aviere scelto dell’esercito italiano. Doveva avere poco più di vent’anni e un' innata curiosità che spingeva il suo sguardo sveglio tra i molti volumi che affollavano gli scaffali di quella biblioteca. Di fronte a lui era seduto un robusto caporale dell’esercito britannico di Sua Maestà. Una montagna umana dai folti baffi, che ricoprivano completamente il labbro superiore. Si vedeva lontano un miglio che era annoiato da quella lunga attesa. Ed infatti, pochi secondi dopo, sbottò alzando la voce.

    Andiamo, non è possibile che ci teniate chiusi qui dentro senza nemmeno dirci il motivo. Disse sbattendo con forza i palmi delle mani sul lucido tavolo di mogano.

    Caporale O’Malley, abbia un po’ di pazienza, tra poco verrà messo a parte della situazione, stiamo aspettando…

    Il colonnello fu zittito dallo spalancarsi della porta.

    Due guardie svizzere avevano accompagnato all’interno della stanza, un piccolo sergente americano dai ricci capelli neri e lo sguardo stralunato, che subito si mise sull’attenti per presentarsi all’ufficiale.

    Lupus in fabula. Disse il colonnello alzandosi in piedi.

    Comodo…comodo, sergente Horowitz, prego si sieda. La stavamo aspettando.

    Questo lo avevo capito. Ma chi siete? Pensò Horowitz, accomodandosi in quella che subito riconobbe come la biblioteca privata di Sua Santità, mentre le guardie che lo avevano accompagnato uscirono velocemente dalla stanza, richiudendo la porta.

    Senza inutili convenevoli, passerei subito alle presentazioni. Sono il colonnello Louis Mansrey, dell’esercito americano. Sono stato chiamato in Vaticano ieri, non appena le operazioni militari lo hanno permesso. Fece una piccola pausa, bevendo un sorso d’acqua dal bicchiere che aveva davanti.

    Il cardinale, Monsignor Richard Kunst, qui presente… Riprese il colonnello, indicando il prelato seduto alle proprie spalle. …Mi ha pregato di raggiungerlo all’interno delle mura vaticane per un affare della massima urgenza e di radunare, il più velocemente possibile, una squadra di professionisti, attualmente impegnati nello sforzo bellico. E’ per questo che siete qui, non per il ruolo che ricoprite nei vostri rispettivi eserciti, ma per le vostre conoscenze come civili.

    Il colonnello fece un’altra pausa, questa volta non per bere, ma per guardare negli occhi i presenti, cercando di leggere le loro reazioni a quella notizia. Si soffermò su ognuno di loro e notò l’impaziente caporale dell’esercito inglese, ostinarsi a guardare in cagnesco il cardinale tedesco.

    Il caporale Flynn O’Malley, granatiere dell’esercito britannico. Riprese il colonnello. Il soldato finalmente distolse lo sguardo dal cardinale per riportarlo sull’ufficiale in piedi a capotavola, che lo stava presentando. Signore, sono un volontario irlandese, prego. Non c’è niente di britannico in me. La mia isola è un’altra.

    Il colonnello lo guardò divertito Certo, caporale. Comunque non si preoccupi. Come le dicevo il motivo per cui è qui non ha niente a che vedere con il suo esercito. L’ufficiale abbassò gli occhi per consultare un attimo i fascicoli che aveva dinanzi.

    A quanto mi dicono, lei è uno dei migliori archeologi in circolazione, specializzato nel periodo paleocristiano. Ha effettuato molti scavi, in quest’ultimo periodo nell’area meridionale del mediterraneo, ottenendo incoraggianti risultati.

    O’Malley guardò il colonnello con aria sorpresa. Dove ha preso quelle informazioni? I risultati di quegli scavi non sono ancora stati divulgati. Pensò, ma decise di dire altro. Vedo che è ben informato. C’è scritto niente lì sulla mia maestria nel gioco del golf e nel bere alcool? Disse con tono di sfida.

    Il colonnello rise a quella che prese come una divertente battuta. No, mi sa che le mie fonti non sono poi così affidabili. Disse, riprendendo poi le presentazioni.

    Di fronte a lei è seduto l’aviere scelto, Luigi Pastori. Giovane chimico italiano.

    Beh, non sono certo un luminare, ma stavo facendomi una discreta reputazione, prima che cominciasse questa guerra. Spiegò il giovane aviere, passandosi una mano tra i capelli neri arruffati.

    Il colonnello proseguì Non sia modesto. Lei è un ottimo chimico. Ha collaborato negli ultimi anni attivamente con il suo collega americano Willard Frank Libby. Le mie fonti dicono che state lavorando su un metodo chimico che permetterà in futuro di poter datare con esattezza qualsiasi reperto.

    Il giovane aviere era visibilmente orgoglioso del proprio lavoro.

    Tutti avrete notato il sergente americano, Elijah Horowitz, storico dell’arte, specializzato nel rinascimento italiano. Continuò Mansrey.

    Si….scusate il ritardo, ma capirete, per me entrare in questo palazzo, equivale a un giro di giostra per un bambino. Mi sono perso a guardare le meraviglie di questo posto. Disse con un certo imbarazzo il sergente.

    E poi abbiamo il capitano Filippo Russo. Continuò il colonnello.

    Noto storico italiano, specializzato nel periodo medievale, che ha contribuito a trovare e preservare buona parte del patrimonio artistico e culturale di questo bel paese.

    O meglio di quello che ne resterà dopo questa dannata guerra! Chiosò amaro il capitano, completando la frase di Mansrey.

    Bene, mi fa molto piacere conoscere questi illustri colleghi… Sbottò O’Malley. …Ma potremmo sapere perché diavolo siamo qui?

    Questa sua voglia di tornare velocemente a combattere, le fa molto onore, caporale…. . Gli uomini si guardarono intorno senza capire immediatamente da dove provenisse quella voce dal marcato accento tedesco. Poi improvvisamente si voltarono a guardare il cardinale che, per tutto il tempo della presentazione, era rimasto seduto alle spalle del colonnello, a fissare il pavimento. Lentamente il prelato si alzò e si avvicinò al tavolo.

    …..Ma la prego di adeguare il suo linguaggio al luogo nel quale si trova. Il monsignore completò severo la propria frase.

    O’Malley si alzò di scatto guardando con rabbia il cardinale. Io non prendo ordini da un prete, soprattutto se tedesco. Spostò la sedia e fece per andarsene. Il colonnello gli prese il polso bloccandolo. Lei prende ordini da me, e finché non la congedo resterà qui seduto ad ascoltare. E’ chiaro?

    Il caporale O’Malley guardò con aria di sfida il colonnello. Sapeva che la convocazione ufficiale, che aveva ricevuto dal comando generale della sua armata, rendeva quell’uomo di fatto un suo diretto superiore. Sentendosi poi addosso gli occhi di tutti, decise di risedersi tuonando: E comunque, se lo vuole sapere, mi preme di tornare a festeggiare, non a combattere.

    Horowitz non riuscì a trattenere una risata, che velocemente si propagò sulle labbra di tutti, stemperando così la tensione che si era creata. L’unico che sembrava non aver apprezzato quella battuta era proprio il cardinale Kunst, che restava impassibile ad osservare quella strana brigata, da dietro i suoi occhialetti tondi. Il monsignore decise di riprendere la parola, facendo ripiombare la stanza nel più assoluto silenzio. Signori, quando vi avrò detto il motivo per cui siete stati convocati qui, non avrete più molto da ridere.

    2

    MIT

    Cambridge, Massachusetts

    Giorni nostri

    "…… ‘ Ridere’ è una delle forme di comunicazione più immediate ed universali che esista sulla faccia della Terra, perché usualmente spontanea. L’uomo fece una lunga pausa cercando di indovinare nella penombra della platea i volti degli studenti. Se avete in animo di conoscere un uomo, allora non dovete far attenzione al modo in cui sta in silenzio, o parla, o piange; nemmeno se è animato da idee elevate. Nulla di tutto ciò! – Guardate piuttosto come ride. Questo sosteneva Fëdor Dostoevskij, e credo che non ci sia niente di più vero al mondo". Un sonoro applauso inondò l’aula del Kresge Complex, mentre la potenza dei faretti veniva lentamente aumentata, riportando luce nell’enorme sala.

    Henry Walton era in piedi di fronte a quella moltitudine di gente che lo applaudiva, un po’ imbarazzato. Non si era ancora del tutto abituato a tenere conferenze e soprattutto non riusciva ad abituarsi alla parte 'spettacolare' di quel lavoro. Lo stare su un palco, come un attore, sotto la luce dei riflettori, a parlare di fronte ad un pubblico, non lo faceva sentire a proprio agio. Lui che da sempre era abituato a restare dietro le quinte, studiando nei minimi dettagli strategie di comunicazione per politici, aziende o agenzie governative. Ma quella serie di meeting, organizzata da una delle più importanti associazioni del settore, lo aveva portato ad ‘esibirsi’ in tutto il mondo, insieme ad altri luminari della comunicazione, o come venivano chiamati con un’astuta mossa di marketing, ‘Guru’. Henry non si sentiva per niente un guru, la sola parola lo faceva sorridere, forse perché lo portava ad immaginarsi vestito con un kurta pajama bianco, di lino indiano. In realtà aveva avuto la tentazione di presentarsi vestito in quel modo alla prima conferenza a cui lo avevano invitato, ma poi si era detto che, se quell’associazione era disposta a pagarlo profumatamente, facendolo viaggiare in tutto il mondo, solo per enunciare alcune delle sue teorie, allora forse non era il caso di contraddirli e metterli in imbarazzo.

    Complimenti Henry. Esclamò Nora, l’organizzatrice dell’evento, con il suo inconfondibile accento francese. Le tue conferenze sono sempre così…..illuminanti. Disse, e con un sorriso si diresse verso l’uscita dell’aula, dove altri professori la stavano aspettando. Nora Landis era una infaticabile organizzatrice di eventi filantropici e culturali. Francese d’origine, aveva però stabilito il quartier generale della propria organizzazione a New York. Henry la guardò allontanarsi, avvolta nel suo petite robe noir, con un’andatura ancora sensuale, nonostante la sua non più giovanissima età e pensò che, forse, era giunto il momento di prendersi un po’ più sul serio, a cominciare soprattutto dal proprio aspetto. Si girò verso le grandi vetrate dell’aula, che davano su un magnifico prato rischiarato qua e là da qualche lampione e si concentrò sul proprio riflesso. Non era sicuramente brutto, sul metro e ottanta, occhi verdi e capelli castani. In realtà non aveva niente di particolarmente sexy, ma doveva ammettere di avere un certo ascendente sulle donne, merito forse anche di quella sua aria da giovane intellettuale. Molto giovane paragonando i suoi quarantadue anni agli oltre settanta di media dei suoi colleghi. Quello su cui forse doveva lavorare davvero era il proprio abbigliamento. Si ostinava a presentarsi a quelle conferenze, dove tutti i relatori erano vestiti in modo elegante, con i suoi pantaloni cachi, una camicia di jeans e una giacca blu di maglina. Ogni tanto variava il colore dei pantaloni, ma proprio non riusciva a vedersi in un completo scuro.

    Che fai, non vieni? La voce di Nora lo ridestò da quelle elucubrazioni, riportandolo nell’aula conferenze, circondato dalle molte persone che gli facevano i complimenti e lo ringraziavano per la splendida 'lecture' a cui aveva dato vita. Henry si congedò velocemente dai propri ammiratori, prese da sotto il podio la sua inseparabile borsa di cuoio, e corse verso il capannello di persone che lo stava aspettando all’ingresso dell’aula.

    La città di Boston sfilava veloce dietro i finestrini, mentre la Lincoln nera percorreva Storrow Drive, Henry osservava il Charles River che placido fluiva verso il mare. Non sembra cambiata molto questa città. Esordì, voltandosi verso Nora che gli sedeva accanto.

    Cosa? Rispose Nora, che era evidentemente distratta.

    Non tornavo in questa città da quando frequentavo Harvard. Oramai sono passati più di quindici anni, e devo dire di non notare particolari cambiamenti. Commentò Henry.

    Sì è vero, ma credo che sia questo il suo fascino. Gli rispose Nora, digitando un numero sul proprio cellulare. Henry tornò a far scivolare il proprio sguardo sulla liscia superficie del fiume.

    Si… pronto, sono io… Nora cominciò a parlare al telefono. Sì, certo… noi passiamo un attimo in hotel. Siamo all’Eliot Suite, come al solito…. Diciamo alle nove a L’Espalier. Nora si rivolse improvvisamente ad Henry.

    Per te va bene alle nove? Gli chiese.

    Si, è ok. Rispose Henry, guardandola incuriosito.

    Ok , va bene anche ad Henry. Ci vediamo lì, allora. Disse Nora, chiudendo la telefonata.

    Devo farti conoscere una persona. Disse poi, lanciando ad guardando Henry un sorriso complice.

    Posso sapere con chi stavi parlando? chiese l’uomo.

    Chiaramente no. E’ una sorpresa. Gli rispose Nora, che non accennava a far sparire quel sorrisetto malizioso dalle proprie labbra.

    La Lincoln planò silenziosa davanti all’ingresso dell’Eliot Suite, uno degli alberghi più esclusivi di Boston. Henry alzò lo sguardo ammirando la sua facciata anni ’20. Certo che le cose sono davvero cambiate, da quando frequentavo Harvard con una borsa di studio. Pensò Henry, attraversando la bellissima hall dell’albergo.

    Ci vediamo di sotto alle nove meno un quarto, il ristorante è qui vicino. Disse Nora, mentre i due uscivano dall’ascensore che li aveva trasportati all’ultimo piano.

    Henry fece scivolare la carta magnetica nel lettore che sbloccava la serratura della porta, ed entrò in camera. Gli addobbi che notò in giro, gli fecero ricordare che mancavano solo due giorni al Natale. Era una festa che gli piaceva. Non la trovava triste, come molti suoi amici single che, durante le feste, cadevano in uno stato di depressione acuta, pensando alla solitudine che aleggiava nelle loro tristi vite. Anche se non aveva figli, né tanto meno una moglie, Henry adorava le lucine che addobbavano gli alberi e i canti che si sentivano in giro per le strade. Forse perché gli ricordavano la propria infanzia, la propria famiglia che non vedeva da molto tempo, e che l’indomani avrebbe finalmente raggiunto a San Francisco. Entrò in bagno per aprire l’acqua della doccia. Non aveva molto tempo per rimettersi in ordine. Dal sorrisino di Nora, aveva capito che l’ospite della loro cena sarebbe stata una donna, ed era bene prepararsi al meglio, considerando che nemmeno ricordava più quanto tempo fosse passato dal suo ultimo incontro galante. Guardò il proprio riflesso e si accarezzò la corta barba incolta che avvolgeva il suo mento. Forse la dovrei tagliare… però così darei l’idea di essermi preparato per fare colpo. No…meglio di no, e poi la barba incolta mi dona. Punterò tutto sull’abito. Uscì dal bagno e aprì la valigia appoggiata in fondo al letto. Né tirò fuori una giacca tutta stropicciata. La appoggiò sul materasso, passandoci su con forza il palmo della mano. Poi si bloccò di colpo.

    Ma che sto facendo? Sto cercando di stirare una giacca con la mano?! Rifletté sorridendo. Penserò dopo a come vestirmi. Tirò fuori gli altri abiti dalla valigia e si diresse verso il bagno, lanciando un’ultima occhiata alle mille lucine bianche che addobbavano, giù in strada, le chiome degli alberi.

    3

    Harvard University

    Cambridge, Massachusetts

    Giorni nostri

    (10 ore prima)

    Le chiome degli alberi filtravano la luce del sole, permettendo ad Howard di vedere la traiettoria del pallone.

    Vai, corri Tim! Gridò, effettuando un lancio lungo verso il compagno di corso.

    Sperava quell’anno di convincere il coach a farlo entrare nella prima squadra dell’università, i Crimson.

    Tim riuscì a prendere il pallone, aveva una buona presa anche se era chiaro che per lui non ci sarebbe mai stato un posto in squadra. Era troppo mingherlino per quello sport.

    Dai ora tocca a te! Urlò Tim con tutto il fiato che aveva in gola. Protese il braccio all’indietro ed effettuò un lancio lunghissimo, ma per dare maggiore rotazione al pallone, sbagliò clamorosamente traiettoria. La palla ovale volò almeno tre metri sopra la testa di Howard, impossibile da prendere, scavalcando una recensione metallica e finendo in un area riservata, che sorgeva proprio accanto ad un piccolo edificio, interdetto agli studenti.

    Cavolo.. Pensò Howard …ed ora che facciamo? Tim si avvicinò all’amico di corsa ed insieme raggiunsero la recinzione. Un telo nero non permetteva di guardare oltre e nulla lasciava presagire cosa ci fosse all’interno. I due ragazzi seguirono il perimetro della rete fino ad un piccolo cancello chiuso da un lucchetto.

    Che fate?. Improvvisamente una voce alle loro spalle li fece sobbalzare. I due si voltarono preoccupati, e videro una bella ragazza con un cappottino nero, un buffo cappello rosso in testa da cui spuntavano dei lunghi capelli biondi, ed uno zainetto in spalla.

    Ah Stephany, sei tu. Che paura. Disse Tim, guardando la ragazza negli occhi.

    Il pallone è finito dentro. Tu sai che c’è lì?

    No, ma potremmo scoprirlo subito. Disse Stephany, mentre guardava il tipo di lucchetto che bloccava la porta.

    Ma no, è solo un pallone, non ne vale la pena. Commentò Howard.

    Se c’è una porta chiusa a chiave, vale sempre la pena di aprirla. Rispose la ragazza, prendendo due forcine dalla tasca.

    Non dirmi che sai aprire il lucchetto con quelle? Disse Tim, guardandola sbalordito.

    Ma per chi mi hai preso? disse Stephany, levandosi per un attimo il cappello, e fermandosi i capelli con le due forcine. …E poi sarebbe effrazione con scasso. Aiutatemi a scavalcare. E senza nemmeno dare il tempo ai due di controbattere, mise un piede in mano ad Howard, si isso al di sopra della recinzione, e con un balzo atletico fu dentro.

    Ehi, non ve ne andate. Disse Stephany.

    Hai pensato a come farai ad uscire. Disse Howard, ma subito Tim lo zittì, salutando con un gesto della mano una guardia giurata che passava poco distante da loro.

    Stephany si girò verso il prato vuoto addossato al muro del piccolo edificio, molto simile ad un cortile sul retro di una abitazione. Vide in un angolo la palla ovale dei ragazzi, la prese e con forza la lanciò al di fuori.

    "Ragazzi, eccola che

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