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Vite a credito
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Vite a credito

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Fama, onore e gloria: chi non li desidera, nel mondo di oggi? C’è qualcuno, come il protagonista di questo romanzo, che ha un’idea un po’ ottocentesca di come procurarseli: diventare scrittore. Nel tentativo di pubblicare a tutti i costi il romanzo che lo consacrerà alla vittoria, Alex compirà il proprio personale viaggio al termine della notte, per scoprire che, forse, fama, onore e gloria non sono per tutti. Non basta desiderarli, bisogna essere disposti a molti compromessi per ottenerli. E lui, Alex, quanto è disposto a cedere? Un romanzo sulla gloria ricercata e il fallimento dietro l’angolo, dedicato a tutta una generazione di italiani che, alla ricerca di un futuro che semplicemente assomigli loro, e di una “propria” classe di appartenenza al di fuori di ogni falsità piccolo-borghese, è disposta ad affrontare qualsiasi ostacolo.
LanguageItaliano
Release dateOct 5, 2018
ISBN9788885629332
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    Vite a credito - Giuppy d'Aura

    Table of Contents

    Nota dell’editore

    Ogni riferimento ipotetico

    a fatti realmente accaduti,

    o a persone realmente esistenti è,

    per fortuna sia loro che mia,

    puramente casuale.

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    XV

    XVI

    XVII

    XVIII

    XIX

    XX

    XXI

    XXII

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Giuppy d’Aura

    Vite a credito

    ogni riferimento a persone o cose è puramente casuale.

    ritratto dell’autore in quarta di copertina: paolo scassa©

    Copyright WriteUp Site 2018©

    www.writeupsite.com

    info@writeupsite.com

    via Michele di Lando, 106 – Roma

    ISBN 978-88-85629-33-2

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,

    di riproduzione e di adattamento anche parziale,

    con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

    Non sono assolutamente consentite le fotocopie

    senza il permesso scritto dell’Autore.

    prima edizione: settembre 2018

    Nota dell’editore

    La storia è giunta alla redazione in un bel manoscritto pulito, ordinato, quasi privo di refusi, ed elegantemente impaginato con l’aulico Garamond.

    Il contrasto tra la forma e il contenuto non ha tardato a manifestarsi.

    Un romanzo dissonante, urlante, dissacrante, graffiante, vagamente immorale, privo di pregiudizi, ma vero, e sofferto, che cerca di trovare una risposta a domande scomode: cosa significa stare al mondo, oggi? Perché una intera generazione di italian* fugge all’estero? È solo la disoccupazione cavalcante a spingerl* lontano, o forse la consapevolezza di rappresentare una nuova classe sociale, che nessuno ha ancora descritto?

    L’autore, non proprio alle prime armi sia nella vita che nella scrittura, decide di tentare questa descrizione attraverso la forma del romanzo.

    La risposta alle domande di cui sopra non la trova lui, e nemmeno tanti altri che vi si provano costantemente. Tuttavia, egli riesce a fornire uno stimolo alla riflessione, abbozza delle proprie teorie, e chiude con ulteriori domande. In attesa che romanzi futuri riaprano il ciclo, e così via.

    Ogni riferimento ipotetico

    a fatti realmente accaduti,

    o a persone realmente esistenti è,

    per fortuna sia loro che mia,

    puramente casuale.

    I

    La luce accecante dell’estate romana aveva confezionato quel momento. Finalmente, si presentava davanti a me l’opportunità di sottrarmi agli orrori provinciali delle piccole case editrici dai nomi ridicoli e altisonanti, di quelle che pubblicano per lo più poeti e autori di romanzacci che nessuno legge, costringendoli dunque a comprare le copie dei propri libri, pur di fregiarsi dell’anoressica consolazione di chiamarsi scrittori.

    Ecco srotolarsi davanti a me l’opportunità della vita, proprio a un battito d’ali dalla soglia dei miei trent’anni; ed ecco arrotolarsi, sparendo dietro di me uno dopo l’altro, tutti i giorni in cui ho atteso, e sperato, e bramato, e immaginato questo momento. A dispetto di tutti, o quasi. A dispetto del villaggio triste da cui provenivo. A dispetto della gran massa della mia famiglia, e a dispetto dei miei docenti di scuole medie e superiori, i quali, non essendo mai riusciti ad insegnare in una grande città, lontani da dove erano nati, pensavano che nessun altro potesse realizzarsi scrivendo, in breve, e seguendo il proprio desiderio, anziché calcare lo stanco solco che il destino aveva tracciato loro davanti.

    In quel giorno di metà luglio, alla temperatura di ben quaranta gradi, che l’afa cittadina scaraventava sulla mia pelle, io stavo per incontrare uno dei grandi editori della penisola, il quale aveva accettato un incontro con me grazie agli sforzi della mia agente. Era stata lei a raccontargli del mio ultimo premio, Miglior Racconto Breve, vinto in un festival di tutto rispetto, almeno per un esordiente.

    Dire addio al piccolo e improduttivo editore, che succhiava la mia linfa come un vampiro, era tutto ciò che desideravo. Dire addio a lui, e pubblicare il romanzo che avevo finalmente finito di scrivere.

    A Roma, di piccole case editrici–vampiro, come quella che mi aveva pubblicato fino ad allora, ce n’erano, e ce ne sono molte.

    Esse organizzano festival popolati solo di sedicenti poeti piccolo–borghesi di mezza età, meglio se pezzi infinitesimali degli ingranaggi burocratici della nazione — impiegati delle poste, o di qualche banca che, con non poca ironia, si autodefinisce etica; uffici comunali; dicasteri; monasteri e ministeri — possibilmente con gli occhiali, camicie bianche a righe e completi di grisaglia, acquistati sempre dalle mogli, con giacca a tre bottoni tutti chiusi fin sopra, nel tentativo di tenere a bada il ventre etilico. Tali ragionieri, geometri, orfani di qualche liceo classico mai giunti alle soglie dell’università, poiché approdati al posto fisso troppo in fretta, si recano lì, in quelle serate letterarie, a leggere ognuno la propria poesiola, ascoltando in solitudine l’eco della propria voce.

    Gli spettatori e i letterati, sui palchi di quei reading, finiscono d’altra parte per assomigliarsi sempre, ognuno con la radicata convinzione della mediocrità degli altri, mai disposto a dubitare di sé, ognuno pronto a elogiare il proprio vicino di sedia, con la sola speranza di ricvere in cambio lo stesso trattamento.

    Queste case editrici sono consessi di tante persone in cui ognuna si masturba senza interesse per gli altri; e tuttavia, i relativi editori si fanno foraggiare da questo sistema perverso, in cui si scrive troppo e si legge troppo poco. Pubblicare, infatti, sembra a costoro il surrogato di un titolo di studio, del famoso pezzo di carta. È un riconoscimento borghese inutile e velleitario come altri, in quanto i libri pubblicati vengono poi esposti in bella vista nel tinello di casa, per mostrare agli ospiti quali intellettuali abitino quelle mura.

    Poi, ogni tanto, questi piccoli editori pieni di debiti e rifiutati da qualunque libreria che possa definirsi tale, decidono di pubblicare a proprie spese un autore, per così dire, leggermente sopra la media abituale, per dare l’impressione che il livello sia alto: questi, in genere, sono gli autori che aprono le loro tristi serate di letteratura e poesia.

    Io arrivai ad essere uno di questi. Il mio editore, infatti, mi dipingeva come l’astro nascente di Lande Desolate, declamando a gran voce il mio terzo posto al festival letterario, colui che col suo successo avrebbe trascinato tutti gli scrittori della casa editrice (leggi: i colleghi dal cazzo piccolo) un po’ più in alto.

    Ero stato scelto nella speranza di riscattare la genìa di quegli strozzini, poveracci e illetterati che in quei circoli sono definiti editori. C’è da aggiungere che la scelta non era ricaduta su di me per una qualche lungimiranza del mio editore dell’epoca, Michele Caropreso, ma solo perché mi aveva scovato tra i vincitori di un premio regionale di scrittura. Il mio racconto era arrivato al terzo posto. I primi due erano già stati contattati da altri editori, e così rimanevo io. Il terzo posto di un premio regionale, sicuramente il primo nella sua casa editrice. E così divenni il regnante dalla normale statura, sovrano di un popolo di nani.

    Ero giovane, acerbo, inesperto, con l’unico obiettivo di pubblicare il prima possibile. Così accettai la sua proposta.

    Oggi però, Roma aveva preparato il mio riscatto. L’ufficio dell’editore era in pieno centro, davanti a una chiesa barocca e ad una fontana zampillante, come in ogni piazza romana che si rispetti. Quando aprii la porta, il vento dell’aria condizionata mi investì, restituendomi quella beatitudine che l’afa dell’autobus mi aveva negato. Lui era in piedi, mi dava le spalle e guardava fuori da una enorme finestra, che era l’unica fonte di luce in quella stanza. La sua ombra si allungava dietro di lui, sulla scrivania in noce, solida, liscia ed elegante come una bara. Su quella bara giaceva il mio manoscritto.

    «Siediti pure» disse l’editore dandomi subito del tu, come la mia giovinezza e inesperienza esigevano. La sua voce era bassa e greve, come una tosse catarrosa. Mi sedetti sul bordo della sedia, occupando il minor spazio possibile, e senza abbandonarmi alla morbidezza del cuscino, con l’obiettivo di brillargli davanti.

    «Te lo dico, subito così da risolvere questa faccenda. Ho visto quello che hai scritto, sono contento per il tuo premio e Carla è un’agente rispettabile, se no non ti avrei mai incontrato, ma, vedi, il tuo manoscritto davvero non fa per me. Non è pubblicabile».

    In un secondo sentii le mie aspettative frantumarsi, e il mio umore cambiare come se qualcuno lo avesse messo nella centrifuga di una lavatrice. Lui si girò verso di me lanciandomi, con le sue palpebre obese e cerchiate di scuro, un’occhiata triste, paternalistica e sbrigativa. Quella sua occhiata mi lasciò immobile, come fossi divenuto una fotografia di me stesso, prigioniero in una cornice d’argento, l’ennesima fotografia incorniciata da aggiungersi alle altre ordinate sulla sua scrivania.

    «Vuoi che sia sincero? Son stato per quasi quarant’anni in quest’industria sai…» mi disse, e io annuii come se la mia testa fosse tirata da un filo invisibile che non mi era dato gestire.

    «Ecco, non posso dire che il tuo manoscritto sia brutto, perché non lo è. Io qui non mi curo di grande letteratura, ma di libri che possano vendere. E questo libro non farebbe un euro. Inoltre, e te lo dico in modo spassionato, non è neanche così bello e innovativo da volermi far rischiare. Ci sono troppi avverbi, e ancora più aggettivi. Troppi e mal digeriti, tipici dello scrittore che non controlla la sua scrittura. Mi dispiace, ma io punto sempre su chi sa gestirla bene, così da evitare eventuali rimanenze di magazzino che nessuno leggerebbe, neanche gratis. Salutami Carla».

    Con questa frase, accompagnata da un gesto svelto delle sue dita grassocce, e pronunciata quasi come fosse una sola e interminabile parola, mi invitò ad andare via. Su uno dei due lati del mio viso, le labbra si levarono in un sorriso, un sorriso che coinvolgeva il volto solo per metà. Così, con un profilo felice e l’altro impassibile, lo fissavo e cercavo di capirlo; spavaldo, il mio sorriso a metà giudicava il suo paternalismo e il finto fare bonario, e il darmi del tu quando non invitato a farlo. Dalla centrifuga delle mie emozioni, estrassi un po’ di odio e un po’ di acume, ossia le due cose che nella vita ho sempre saputo gestire meglio.

    «La ringrazio molto per questa sincerità. Neanche Gide capì Proust quando lo lesse per la prima volta, e non lo pubblicò. Poi ebbe a pentirsene per tutta la vita».

    Forzai un sorriso e gli strinsi la mano, flaccida come il resto del corpo, andando via carico di risentimento, come se quello fosse un attacco alla mia persona: l’antico giudizio paternalistico oggi riecheggiava nella sua bocca, dopo che già, tempo addietro, il maestro di scuola, un genitore o il prete, lo avevano pronunciato durante la mia infanzia in provincia, ed era rimasto a rimbalzare muto nell’aria, finché un’altra bocca non si era incaricata di dargli voce, ancora.

    Nella mia mente questo era successo oggi, e invece, nella realtà, era solo una normale e lecita opinione editoriale. Tornato in strada, in mezzo al caldo spesso e candito di Roma, desiderai solo di annichilire quell’uomo che liquidava così me, il mio libro, e la mia scrittura, l’unica certezza che avevo nella vita.

    I quaranta gradi mi appiccicavano addosso la camicia che avevo comprato per l’occasione, e con essa i jeans verdi. Le scarpe di tela viola mi facevano bollire i piedi, e tutto mi era scomodo. Volevo fuggire e non sapevo dove, volevo farlo esplodere, il bastardo, come una di quelle balene in putrefazione sulle spiagge che, gonfie di gas, si disfano spargendo le loro carni morte ovunque. E volevo mandare avanti il tempo di cinque anni, quando sarei stato ricco, ma soprattutto famoso, con il mio grande Libro in mano, a guardare quel grande Editore, e rifiutare di pubblicare con lui.

    Presi il cellulare, bollente anch’esso, e cercai il numero di Antonio. Il telefono dall’altra parte squillò, odioso e insistente, e appena sentii che qualcuno rispondeva, prima ancora che riuscisse a finire il «Pronto…» rituale, avanzai la mia richiesta: «Vengo da te, devo scopare».

    II

    Le mie labbra piene e avide si uniscono alle sue, strappandogli via baci, saliva e lingua; lui, divertito e incerto, chiude la porta blindata dietro di me, e dopo un pugno di secondi mette la sua mano sulla mia, e mi accompagna nella sua stanza da letto, che

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