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Guerrieri Angioini nel Regno di Sicilia
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Guerrieri Angioini nel Regno di Sicilia

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Prima opera completa su armi e armature angioine nel Regno di Sicilia, corredata da schede tipologiche tratte da sculture e gisants dell'epoca. Cenni storici e note sulle tattiche di battaglia e sulle armi medievali completano lo studio, trattato al tempo stesso con intenti divulgativi ed approfondite indagini storiografiche ed iconografiche.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJul 2, 2018
ISBN9788827835920
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    Guerrieri Angioini nel Regno di Sicilia - Vincenzo Laneri

    INDICE GENERALE

    1 - Introduzione

    2 - Vicende militari del Regno di Sicilia in epoca angioina

    - La conquista del Regno di Sicilia e le battaglie di Benevento e Tagliacozzo

    - La ripresa della guerra del Vespro e le lotte con ghibellini ed ungheresi: dal 1313 al 1373

    - Le guerre contro le potenze straniere: dal 1374 al 1442

    3 - L'arte della guerra in epoca angioina

    - Le forze armate nel basso medioevo

    - La guerra del cavaliere

    - La guerra del fante

    - La guerra del marinaio

    - La guerra dell’artigliere

    - La guerra del monaco-cavaliere

    - I nemici degli angioini

    4 - Lo sviluppo delle armi bianche nei secoli XIV e XV

    - Lo stato dell'arte: tecnologia e strategie a confronto

    - Le protezioni della testa

    - Le protezioni del busto

    - Le protezioni degli arti

    - Armi da offesa edequipaggiamento cavalleresco

    - Onore ed onorabilità

    5 - Le raffigurazione di armi nel Regno di Sicilia nei secoli XIV e XV

    - Le effigi funerarie della prima metà del secolo XIV

    - Le effigi funerarie della seconda metà del secolo XIV fino agli inizi del secolo XV

    6 - Allegati

    7 - Bibliografia essenziale

    Vincenzo Laneri

    GUERRIERI ANGIOINI NEL REGNO DI SICILIA

    tra storia ed iconografia

    Titolo | Guerrieri Angioini nel Regno di Sicilia

    Autore | Vincenzo Laneri

    ISBN | 9788827835920

    Prima edizione digitale: 2018

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Roma 73 - 73039 Tricase (LE)

    info@youcanprint.it

    www.youcanprint.it

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

    perchè una guerra sia giusta occorre che sia dichiarata da un sovrano legittimo, per una giusta causa e con una retta intenzione

    dalla Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino (1225-1274)

    INTRODUZIONE

    L’immagine olografica della città di Napoli che ancora oggi viene esportata in tutto il mondo è legata agli stereotipi di fine ottocento e di inizio novecento, in cui il sole, il mare, le canzoni e una certa bonomia a volte un po’ ingenua, hanno caricato i connotati di un popolo da sempre contraddistinto da luci ed ombre. Su questo modo di raccontare le vicende del regno e della sua storia millenaria, ha sicuramente influito la visione della vicenda post-bellica del 1860 fatta con gli occhi dei vincitori sabaudi, che avevano bisogno di screditare e minimizzare le peculiarità locali in funzione della mai compiutamente realizzata unità d’Italia. Una storia spesso misconosciuta dagli stessi napoletani, molto più inclini a bearsi, con un certo autocompiacimento delle proprie, quasi anarcoidi, forme di tolleranza, piuttosto che riflettere sui vari lasciti marziali delle molte culture che si sono succedute alla guida del paese. Senza risalire all’epoca antica, su cui pure varrebbe la pena di spendere qualche parola, ci basti pensare che nelle nostre terre, in pieno medioevo, si sono stanziati popoli bellicosi come Goti, Longobardi e Normanni, insieme a dinastie, come quelle Angioina e Aragonese, che facevano della guerra di conquista una ragione di esistenza per le loro compagini statali. Solo con l’avvento del Viceregno di Spagna e per circa un paio di secoli Napoli, divenuta colonia, non cercò una effettiva espansione territoriale, ma continuò a fornire uomini e condottieri ai sovrani spagnoli impegnati nelle guerre europee e transcontinentali. Fu proprio in questo periodo che si radicò la tradizionale insofferenza verso le autorità centrali, lascito della bellicosa nobiltà dei secoli passati. Questo retaggio ha accompagnato la nostra storia fino in epoca Borbonica, periodo in cui i valori cavallereschi di impronta romantica fecero presa anche sulla classe degli ufficiali napoletani, tra i più preparati – almeno sul piano teorico – e tra i meno pagati della penisola. Di pari passo, nelle classi basse e nei ceti popolari si diffondevano atteggiamenti di autarchia antistatalista, che finirono per alimentare le società criminali organizzate, piaga ancora oggi tristemente irrisolta. Se si osservano da vicino le logiche e le dinamiche dei conflitti di epoca angioina, non possiamo non cogliere parallelismi tra gli atteggiamenti dei boss di gomorriana memoria ed i comportamenti della classe cavalleresca: in fondo, non vi è molta differenza tra una cavalcata ed una stesa a scopo intimidatorio per le strade della città, a parte la sostituzione del cavallo con lo scooter e della spada col fucile mitragliatore.

    L’importanza che rivestì la categoria dei miles in epoca Angioina, è ancora oggi testimoniata dal grande numero di sepolture custodite prevalentemente nelle tre grandi basiliche regie napoletane e in altri immobili museali o ecclesiastici, presenti, con ampia distribuzione geografica, nelle provincie dell’ex Regno di Sicilia. La consuetudine funeraria dell’epoca ha prodotto numerose sculture che effigiano il defunto nei suoi attributi di nobile cavaliere – ovvero, secondo la moda corrente, nella veste di combattente armato - imprescindibile elemento decorativo di gisant di sarcofagi e lastre tombali terragne.

    In questo modo si è resa disponibile una grande mole di informazioni sull’armamento indossato nei secoli XIV e XV, ad integrazione dei pochi resti originali sopravvissuti; in particolar modo per gli armamenti italo-angioini, l’estrema deperibilità delle protezioni organiche, diffusamente utilizzate in alternativa o ad integrazione di quelle metalliche, ha reso ancora più difficile la sopravvivenza di questi apparati difensivi fino ai giorni nostri, di estrema rarità persino nelle collezioni oplologiche più antiche. Per questo motivo si rende oltremodo necessario uno studio multidisciplinare di questa particolare tipologia di armamenti, che possa ovviare ai limiti costituiti dalla scarno numero di resti materiali ed integrare le informazioni ottenibili dalle fonti con quelle ricavabili dalla lettura stilistico-morfologica delle opere d’arte ad oggi classificate. Nella consapevolezza dei limiti di questo approccio, scopo del presente lavoro sarà individuare, laddove possibile, la più probabile evoluzione cronologica degli armamenti nel regno angioino di Sicilia, provando a riassumerne i risultati mediante schede e ricostruzioni grafiche opportunamente predisposte.

    Tuttavia, partendo dall’assunto che ogni manufatto prodotto dall’uomo è un risultato peculiare e non casuale di una specifica cultura, si è posta la necessità di approfondire alcune scelte in funzione della storia militare, artistica e sociale del periodo in esame. Senza avere l’illusione di poter esaurire tutti gli argomenti - lavoro che esulerebbe dai nostri intenti – si è richiamata l’attenzione del lettore su alcuni aspetti particolari che, in apposti capitoli, sono stati poi descritti a carattere generale; argomenti che invece richiederebbero ciascuno un’opera a parte, soprattutto quelli legati alla genesi ed allo sviluppo della figura del cavaliere.

    Per analoga esigenza di sintesi, per tutte le effigi studiate sono state proposte schede riassuntive con una veste grafica unificata, in modo da consentire una migliore lettura d’insieme dei caratteri tipologici che li accomunano a dispetto del differente livello di dettaglio, conservazione e qualità artistica che avrebbe richiesto uno specifico approfondimento storico-morfologico per ogni singolo manufatto.

    Infine, nella speranza di offrire un minimo contributo alla riscoperta della nostra storia in generale e di quella materiale in particolare, sono state riproposte alcune ipotesi ricostruttive delle insegne araldiche di ciascun cavaliere, anche laddove non presenti sull’effige originaria; l’intento è di offrire ulteriori spunti di ricerca per storici professionisti, studiosi di genealogie e per chiunque avesse voglia di contribuire ad un lavoro che, per gli innumerevoli limiti dell’autore, in questa sede può essere soltanto proposto.

    VICENDE MILITARI DEL REGNO DI SICILIA IN EPOCA ANGIOINA

    La conquista del Regno di Sicilia e le battaglie di Benevento e Tagliacozzo

    La sconfitta di Manfredi a Benevento segna l’inizio della dominazione del casato francese degli Anjou sul Regno di Sicilia, prima appartenuto alla casa normanna di Altavilla e poi a quella sveva di Hohenstaufen.

    Le campagne militari in cui il nuovo re di Sicilia fu coinvolto, sono molto significative di una sua certa attitudine bellicosa: ultimo dei sette figli di Luigi VIII, il futuro Carlo I di Sicilia era nato nel 1227; per la sua condizione di cadetto, aveva scarse possibilità di succedere al padre o a qualcuno dei suoi fratelli maggiori sul trono di Francia, ed era quindi destinato alla carriera ecclesiastica. Invece, per la prematura morte di Giovanni e di Filippo Dagoberto, fu nominato successore dei diritti del primogenito Luigi IX ed investito delle contee di Angiò e Maine nel 1246.

    Da questo momento in poi il giovane Carlo cominciò a manifestare un grande interesse per le armi, intervenendo alla testa di un contingente militare negli scontri per la successione al titolo di conte di Provenza, che acquisì sposandone l’erede Beatrice. Appena due anni dopo, nel 1248, si imbarcò insieme al fratello Luigi IX alla volta dell’Egitto in una crociata che si dimostrerà fallimentare: infatti Carlo, pur distinguendosi nella battaglia di Mansura, nel 1250 venne fatto prigioniero dalle forze mamelucche e liberato solo a seguito di riscatto. Da un punto di vista strettamente militare questa impresa outremar si era conclusa con un evidente insuccesso, ma sarebbe stata molto istruttiva per il futuro re di Sicilia: qui infatti ebbe modo di conoscere - e sperimentare ai suoi danni – tattiche di battaglia ben diverse da quelle europee, di cui si daranno alcuni accenni nel capitolo dedicato alla guerra nel secolo XIV.

    Nello stesso anno, alla morte di Federico II Hohenstaufen, papa Innocenzo IV rivendicava la sua autorità feudale sul regno di Sicilia - risalente all’epoca Normanna - opponendosi al legittimo erede al trono Corrado IV ed avviando trattative con tutti i principi europei e con lo stesso Carlo, per una successione dinastica più gradita al papato.

    Dopo diversi anni di contrapposizione politica e militare tra Chiesa e Regno di Sicilia, l’avvento del francese Urbano IV sul soglio di Pietro fece precipitare ulteriormente la situazione: nel 1264 Carlo, accettando l’offerta del pontefice, aprì le ostilità nei confronti del nuovo re di Sicilia, Manfredi - figlio illegittimo di Federico II e fratellastro del defunto Corrado IV – ed inviò un contingente di cavalieri provenzali a Roma ove, nel frattempo, era stato nominato senatore a vita. Il suo legato Jacques de Gantelme, si trovò però ben presto in difficoltà contro le truppe di Pietro di Vico, partigiano dello svevo, che era entrato nel territorio della Chiesa ed aveva attaccato diversi centri papalini; Carlo fu così costretto ad organizzare un contingente di rinforzo in tutta fretta, nell’attesa di poter ottenere i finanziamenti promessi dal papa per la successiva, pianificata invasione del regno di Sicilia.

    Il suo avventuroso arrivo nella città eterna con una flotta di sole 40 navi – di cui 27 galee da guerra - e 1.500 uomini - di cui 500 erano cavalieri ed un migliaio fanti o balestrieri - fu sufficiente ad allontanare la minaccia sveva da Roma, mentre l’esercito principale si preparava ancora ad attraversare le Alpi: la spedizione terrestre, di ben altra entità, era guidata dai più esperti rappresentanti della élite militare francese e da un cospicuo nucleo di nobili cavalieri provenzali i quali, al termine della conquista, sarebbero rimasti nel sud Italia a costituire la nuova classe dirigente del regno, come ad esempio gli stessi Gantelme e i de Baux (italianizzati in Cantelmo e del Balzo). L’armata angioina - che annoverava circa 3.000 cavalieri e forse 10.000 fanti - attraversò Piemonte, Lombardia, Emilia, giungendo nelle Marche quasi senza opposizione da parte delle truppe degli alleati di Manfredi. Alcuni capisaldi ghibellini nel bresciano, posti a difesa degli attraversamenti sul fiume Oglio dal marchese Oberto Pelavicino - principale alleato di Manfredi nel nord Italia - furono presi d’assalto e rapidamente conquistati senza alcuna necessità di lunghe ed estenuanti operazioni di assedio. Questa capacità era il segno evidente di una versatilità tattica dei francesi, che mostravano preparazione e professionalità a dispetto di una certa boria che gli veniva attribuita. In ogni caso, i tentativi di Manfredi di molestare l’avanzata del nemico si dimostrarono del tutto inconcludenti e furono ben poco incisivi fino all’estate del 1265, quando riuscì a raccogliere un forte esercito da campagna mobilitando i suoi cavalieri tedeschi, i feudatari locali, le truppe saracene e vari contingenti mercenari. Nonostante questo imponente e dispendioso spiegamento di forze, lo svevo se ne rimase inspiegabilmente inattivo ai confini del regno, effettuando solo piccole puntate offensive verso Orvieto, senza mai provare ad attaccare decisamente Roma o la colonna francese che, del tutto indisturbata, raggiunse la città eterna nell’inverno del 1265.

    A questo punto Manfredi, attendendo l’attacco da un momento all’altro, fu costretto a suddividere le proprie forze lungo il confine per controllare tutte le strade di accesso ai suoi territori. Questi distaccamenti, oltre ad essere praticamente inutilizzabili in caso di battaglia campale, si dimostrarono anche incapaci di presidiare le fortificazioni strategiche come Rocca d’Arce e San Germano: la prima, benché ben munita, si arrese quasi subito senza opporre una efficace resistenza e la seconda dovette subire un devastante attacco che i francesi condussero ancora una volta di slancio, evitando così le consuete operazioni di assedio. Nonostante avesse solo una funzione di disturbo nei confronti delle retrovie angioine, in quanto la linea difensiva principale era attestata sul caposaldo di San Germano nei pressi dell’attuale Cassino, la rocca era il primo vero ostacolo fortificato sulla strada di Carlo.

    Non è questa la sede per un’analisi esauriente dell’architettura militare e delle tecniche ossidionali del periodo in esame, ma alcuni cenni possono essere utili ad una migliore comprensione delle dinamiche che portarono al crollo del sistema difensivo svevo. In epoca medioevale le fortificazioni avevano un ruolo strategico importantissimo, in quanto consentivano a pochi uomini di controllare un territorio di vaste dimensioni o di presidiare uno specifico passaggio naturale; per installare un parco macchine di assedio ad una roccaforte di pietra erano necessarie infatti una logistica complessa e una competenza non alla portata di tutti. Non siamo a conoscenza di quanti uomini fosse costituita la guarnigione di Rocca d’Arce all’epoca dell’assedio di Carlo, ma nel 1268 sappiamo essere composta da uno scutifer e quaranta servientes, un numero considerevole che testimonia l’importanza del castello anche dopo la conquista del regno da parte degli angioini. D’altra parte, la posizione naturale della fortificazione - posta a quasi 500 metri s.l.m. su un colle noto come Monte Arcano, a circa nove chilometri di distanza dal ponte di Ceprano sul fiume Liri attraversato dai francesi appariva veramente inespugnabile: tre versanti della collina erano particolarmente scoscesi ed inaccessibili, mentre il lato sud era l’unico raggiungibile mediante una strada che doveva essere poco più di una mulattiera. Le scarne strutture superstiti del castello non ci aiutano a comprendere la sua effettiva conformazione dell’epoca, ma è lecito immaginare che la cinta muraria fosse integrata da quella del castrum Arce e del castrum Rocce Archis , due borghi fortificati posti sulle pendici del colle. E’ stato infatti ipotizzato un sistema difensivo a schema triangolare, con un vertice in sommità costituito dalla rocca vera e propria e due vertici inferiori imperniati su borghi abitati difesi da torri e cortine murarie, secondo una tipologia di insediamento fortificato abbastanza comune nella zona. I resti archeologici testimoniano la presenza di cisterne e di apprestamenti difensivi risalenti alla metà del secolo XIII, che ci fanno capire come questa struttura non fosse un apparato obsoleto, ma era invece del tutto adeguata a respingere l’attacco condotto dal conte di Provenza.

    Ecco perché appare inspiegabile l’insignificante resistenza offerta dalle truppe sveve, tanto da far pensare ad un tradimento da parte dei difensori. Forse, più realisticamente, il castellano, trovandosi di fronte ad un potente esercito munito delle macchine da lancio fornite dai papalini – i famigerati trabucchi - e spaventato dal massacro subito dai militi e dai civili dei castelli bresciani di Capriolo e Palazzolo che avevano cercato di impedire l’attraversamento dell’Oglio, avrà ritenuto insufficienti le sue forze per una difesa prolungata, optando per la resa patteggiata. Poiché le cronache degli eventi che portarono alla caduta di Rocca d’Arce sono discordi, è possibile ipotizzare un breve scontro a ridosso delle mura della cinta esterna, più basse e meno munite di quelle della rocca; successivamente, una volta penetrati i nemici nel perimetro inferiore dell’abitato, i difensori avranno ritenuto inutile ogni ulteriore resistenza. D’altra parte, in quel momento il morale delle forze sveve era notevolmente minato dai continui successi ottenuti dagli invasori, a fronte dell’immobilismo del re; questi appariva ai suoi sudditi incerto e timoroso, al punto che in diverse città del regno già scoppiavano tumulti e rivolte contro la casa Hohenstaufen, a causa della pesante imposizione fiscale richiesta per l’assoldamento dei mercenari. La città di Cava fu addirittura rasa al suolo per rappresaglia dalle truppe regie e certamente questo atto di estrema crudeltà non contribuì a migliorare il clima di fiducia nei confronti di Manfredi. Carlo, viceversa, sulle ali dell’entusiasmo era giunto ai piedi del monte di Cassino, nei pressi del borgo all’epoca noto come San Germano, e si accingeva a porre sotto assedio le fortificazioni sveve che si appoggiavano al fiume Gari ed alle rovine di epoca romana poste sul declivio del monastero. Questo borgo era la più importante linea di difesa a ridosso del confine - scelta da Manfredi perché da qui passava la strada di fondovalle che collegava Roma con Napoli - tanto da farla presidiare dalle sue truppe migliori, un migliaio di cavalieri tedeschi e circa 3.000 arcieri saraceni. Questi in particolare, avevano provveduto a munire l’antico anfiteatro romano, ancora integro ed ulteriormente fortificato con opere provvisionali. I francesi, nonostante la posizione vantaggiosa occupata dal nemico, attraversarono il fiume Gari che, per la piccola portata d’acqua in quella stagione non costituiva un vero e proprio ostacolo e poi, ancora di slancio, assaltarono le fortificazioni sotto una pioggia di frecce e sassi. Un aspetto che illustra molto bene le tattiche adoperate dagli attaccanti ci è dato dalla cronaca del Villani, che ci riferisce come durante l’assalto alle mura, oltre a scudi di legno di svariate dimensioni, i cavalieri angioini abbiano adoperato anche le selle dei loro stessi cavalli quali protezioni improvvisate. In qualche modo pare che i francesi siano riusciti a sfondare le difese dell’anfiteatro e, una volta penetrati all’interno della cavea, per i saraceni non ci fu più scampo. I cavalieri tedeschi ed i saraceni superstiti furono inseguiti sino alle porte del borgo di san Germano, dove pare che una delle porte fosse stata lasciata aperta per accogliere i fuggitivi; i francesi riuscirono così ad entrare prima che questa potesse essere richiusa ed iniziò la carneficina: i saraceni, in quanto infedeli, furono tutti uccisi dagli uomini di Carlo, che alla partenza da Roma erano stati investiti dal papa anche del ruolo di crociati, mentre i tedeschi furono tenuti prigionieri in attesa di riscatto. Dopo questa chiara vittoria, la strada verso le terre del Regno di Sicilia era spalancata; ormai solo una battaglia campale avrebbe potuto decidere le sorti dello scontro: e questa era ormai all’orizzonte.

    Manfredi, nell’incertezza sul percorso che i nemici avrebbero intrapreso per penetrare nel regno, aveva tenuto presso di sé il maggior numero di uomini come riserva strategica e si era attestato a Capua, la principale città della Terra di Lavoro, confidando nel fiume Volturno come ostacolo naturale; tuttavia l’esercito, reclutato con criteri feudali, non gli dava ampie garanzie di coesione e compattezza ed il territorio era diventato ormai poco sicuro per l’agitazione di diverse località campane e della stessa Capua. Egli faceva grande affidamento sui cavalieri pesanti reclutati in Germania e sui fidi saraceni di Lucera, ma molto meno sulle leve locali e feudali: particolarmente infide erano le milizie comunali, che non erano presenti a causa dell’ostilità di molte città regnicole; erano invece intervenuti diversi contingenti dei comuni del nord Italia, così come quelli guelfi militanti in campo angioino che si erano distinti negli scontri precedenti, laddove i suoi alleati ghibellini avevano inanellato una serie di sconfitte. Ecco perché Manfredi probabilmente decise di abbandonare Capua per dirigersi verso le più fedeli terre pugliesi, confidando di riunirsi anche al contingente dei circa 1.000 cavalieri pesanti distaccati in Abruzzo sotto il comando di Corrado di Antochia.

    Mentre il conte di Provenza attraversava il Volturno presso Telese per evitare il ponte fortificato di Capua, il re di Sicilia prendeva la strada per le Puglie; era inevitabile che i percorsi dei due schieramenti si incrociassero nella valle del fiume Calore nei pressi di Benevento, dove sarebbe avvenuta la battaglia decisiva: siamo ormai giunti a febbraio del 1266.

    A questo punto è opportuno aprire una breve parentesi sugli equipaggiamenti utilizzati e su alcune peculiarità delle due compagini, che ci aiuterà a comprendere meglio le particolari tattiche adottate dai combattenti, secondo il condivisibile assunto che le prime condizionano le seconde, e viceversa. Aspetto importante da tenere presente è che talune di queste specificità ce le ritroveremo anche nel 1300 - secolo di riferimento per il nostro studio - in considerazione del fatto che una trentina di anni, in termini evolutivi delle armi medioevali, non sono considerati un periodo estremamente lungo; inoltre, nonostante mostrassero una certa omogeneità, nemmeno i cavalieri coinvolti nello scontro di Benevento erano riconducibili alla medesima tipologia. I tedeschi erano prevalentemente mercenari, appartenenti ad una classe sociale ben caratterizzata, quella dei ministeriales; questi erano originariamente uomini di condizione servile, dediti al servizio dei nobili in qualità di domestici combattenti; successivamente si erano trasformati in una piccola nobiltà rurale di militi professionisti, i quali avevano partecipato a quasi tutte campagne al servizio degli Hohenstaufen ma che, se non ricevevano il pattuito stipendio, erano pronti ad abbandonare per passare al servizio di chiunque li ingaggiasse. Essendo dei veri e propri professionisti, non appena ne avevano l’occasione, investivano parte dei guadagni in armi ed equipaggiamenti sempre più efficienti ed avanzati. Anche gran parte dei francesi che combattevano a cavallo erano degli assoldati, simili ai ministeriales tedeschi, nel senso che non erano obbligati a seguire il principe per dovere feudale, ma solo dietro compenso. Sappiamo inoltre che molti di loro erano definiti semplicemente servientes, sergenti: questo significa che non possedevano la veste giuridica di cavaliere e pertanto non erano di origine nobile, in quanto gli aristocratici non ancora addobbati sarebbero stati identificati come scutifer, scudieri, fino al momento dell’investitura. Anch’essi, quindi, possono essere considerati professionisti della guerra, cui partecipavano per ottenere bottino o benefici ed eventualmente migliorare la propria posizione sociale. Poi vi erano i veri e propri cavalieri feudali, legati mediante giuramento al proprio principe, con cui avevano relazioni di vassallaggio o parentela e l’obbligo di fornirgli guerrieri e seguirlo personalmente nelle campagne militari. Tra questi nobili, alla metà del 1200 si poteva incontrare la più ampia gamma di tipologie; non siamo ancora agli estremi che ritroveremo nel secolo successivo, dove rango cavalleresco e funzione militare non sempre coincideranno, ma molti di loro, seppur degnamente equipaggiati, non avevano più l’addestramento o la professionalità necessaria a sostenere uno scontro campale; questa sembra essere stata anche la condizione prevalente tra i guerrieri feudali al seguito di Manfredi. Analogamente, tra i contingenti forniti dalle comunità guelfe e ghibelline ai loro rispettivi alleati, si potevano incontrare nobili cavalieri con i loro seguaci o semplici cittadini di origine borghese che militavano a cavallo solo perché il loro censo li obbligava a dotarsi di cavalcatura.

    Per quanto riguarda i combattenti appiedati, i più professionali e meglio pagati erano considerati i balestrieri; ve ne erano molti al seguito del conte di Provenza, mentre le fonti non ne riportano altrettanti per il re di Sicilia. Quest’ultimo

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