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Il braccialetto di Marilyn
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Ebook155 pages2 hours

Il braccialetto di Marilyn

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"Il braccialetto di Marilyn" è un romanzo liberamente ispirato ad alcune vicende raccontate all'autore da una simpatica coppia di veneti, emigrati negli Stati Uniti ai primi del '900 (lui) e poco dopo la grande guerra (lei) e rimpatriati negli anni '70 del secolo scorso. Al lettore può fornire l'occasione di rammentare qualcosa di un mondo tramontato per sempre, forse con nostalgia ma senza rimpianti.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJun 20, 2018
ISBN9788827836040
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    Il braccialetto di Marilyn - Luigi Crosato

    633/1941.

    Capitolo 1

    Toni era in una sorta di dormiveglia dominato dal dolore, e vaneggiava. A sprazzi riaffiorava nella sua mente un barlume di ricordo: il lampo accecante, il fango sulla faccia, il male alle orecchie …

    Era su un’autoambulanza dell’A.R.C., la Croce Rossa degli Stati Uniti d’America, quella stessa che aveva portato lui e un ufficiale della sua Compagnia Rifornimenti dalla loro base di Villafranca Veronese al fronte di guerra, dalle parti di Montebelluna. Erano appena giunti a ridosso delle linee avanzate degli Italiani, quando incapparono in un inatteso anomalo attacco del nemico, in pieno giorno e senza preparazione di artiglieria. Ora quel mezzo li riportava indietro, feriti entrambi dalla stessa granata, viaggiando al massimo della velocità consentita da una strada piena di sassi e di buche ma non troppo fangosa. Ogni tanto c’era una buca più profonda, ricordo di un colpo di mortaio della recente battaglia del solstizio, non ancora cancellato dai genieri. L’autista ne prese una in pieno, l’ambulanza rimbalzò violentemente, e Toni svenne di nuovo.

    Ci vollero alcuni giorni perché riacquistasse la vista e l’udito, nell’ospedale da campo americano nei pressi di Custoza, poco distante da Verona. Aveva numerose ferite alle spalle e agli arti superiori, ma la scheggia che gli dette più fastidio gli aveva bucato il gluteo sinistro. Per giorni e giorni dovette giacere prono, e mangiare sporgendosi fuori dalla branda, la gamella poggiata sulla cassa che conteneva i suoi beni. La cosa più complicata e dolorosa era soddisfare i bisogni corporali: occorrevano sforzi da contorsionista non sempre coronati da successo, con umiliazione sua e disappunto degli infermieri.

    E il caldo! Com’è calda ad agosto la pianura Padana! Una simile afa non l’aveva mai sentita nella Cucamonga Valley, dove pure il clima d’estate non scherza e i quaranta gradi centigradi non sono certo una rarità.

    Capitolo 2

    L’ospedale non era lontano dalla Valpolicella. Lì Toni era nato nel 1896, e da lì era partito per l’America con la sua famiglia, nel 1907. Quanto aveva pianto sua sorella Silvana! Era la maggiore dei tre figli di Bepi Lonardi, aveva sedici anni e spasimava per il figlio del pistor, che passava spesso davanti alla loro casa e la salutava con esagerata cortesia e un sorriso ebete stampato sulla faccia.

    Anche la mamma pianse tanto, mentre abbracciava le sue sorelle e  persino la suocera  e la cognata, la cui convivenza le era divenuta insopportabile. Era stata la più contenta, infatti, quando era arrivata la chiamata dall’America, sperando in una casa tutta sua, senza criticone e pettegole fra i piedi, e pazienza se s’andava lontano!

    Piero, il figlio del Totola, era emigrato per primo dalla contrada negli Stati Uniti, e dopo vicissitudini delle quali non parlava volentieri aveva trovato un buon lavoro in un grande rancho a est di Los Angeles. Lì un Italiano di Asti aveva avviato con successo la coltivazione della vite e la produzione del vino, ed era alla ricerca di bravi contadini e vignaioli, meglio se suoi connazionali, che gli permettessero di migliorare il prodotto e di guadagnare di più. Assunse Piero, quando seppe che apparteneva ad una famiglia di esperti coltivatori dell’uva Corvina, e dopo un breve periodo di prova con esito favorevole gli chiese se conosceva qualcun altro, con  esperienza da vignaiolo almeno pari alla sua, disposto a raggiungerlo in quel paradiso. Piero gli parlò del Bepi, noto in tutta la Valpolicella come maestro nel potare e scolmar le vigne, e il paron, dopo un approccio tramite il Reverendo Parroco, spedì i documenti e i biglietti del vapore per so’ pare di Toni e tutta la famiglia.

    Del trasferimento in America Toni aveva un bruttissimo ricordo. Si imbarcarono a Le Havre, un porto francese che raggiunsero con un interminabile affumicante viaggio a tappe in treni affollati, impaccati come sardine su scomodi sedili di legno. La decantata refezione a spese della compagnia di navigazione, che conquistarono a Modane dopo un’ora di fila, si rivelò un panino raffermo imbottito da un pezzetto di carne dura come il cuoio, un uovo sodo e due foglie di insalata appassita, il tutto ricoperto da una specie di crema che non piacque a nessuno dei Lonardi, e un quarto di litro di vino annacquato.

    Sul piroscafo uomini e donne di terza classe furono sistemati in camerate diverse e prendevano i pasti separatamente. Ognuno ottenne una stretta cuccetta di un letto a castello, due coperte e uno strano cuscino cilindrico, senza lenzuola. Il vitto abbondava di patate, cipolle e uova sode, e ignorava totalmente riso e polenta. Nessuno però ebbe modo di dolersene, perché la nave, non molto grande, trovò mare mosso appena uscita dal porto e ballò tremendamente per tutta la traversata oceanica. Gli sfortunati passeggeri stavano tutti male, Toni non mangiò quasi niente nella dozzina di giorni di navigazione, anzi restituiva subito al bugliolo quel poco che ogni tanto riusciva a mettere nello stomaco. La camerata puzzava in modo disgustoso, e non si poteva salire in coperta a prendere una boccata d’aria fresca per la pioggia e le ondate che ogni tanto sorpassavano le murate.

    Arrivarono a New York pallidi e deboli da non stare in piedi, pochi ebbero la forza di esultare alla vista della statua della Libertà. Dopo l’attracco, mentre le guardie controllavano i passaporti e i bagagli dei ricchi sistemati sui ponti superiori, Toni e i suoi familiari furono avvicinati da un incaricato del futuro datore di lavoro, che li informò su ciò che li aspettava nelle prossime ore, li tranquillizzò, disse loro di non preoccuparsi dei bagagli caricati nella stiva, che avrebbero ritrovato al loro arrivo nel rancho di destinazione. Dopo un po’ furono chiamati col megafono e, ricevute le loro Inspection Card, lasciarono il piroscafo per il traghetto diretto al centro di immigrazione di Ellis Island, i documenti ben stretti in mano.

    Nella sala di registrazione non persero molto tempo. Separati ancora una volta i maschi dalle femmine, alcuni medici li visitarono sommariamente e li passarono a burberi agenti, che seduti dietro scarne scrivanie esaminarono con attenzione i documenti e rivolsero agli adulti qualche incomprensibile domanda, accontentandosi di risposte tipo "Sior, mi non capisso!"

    Usciti dalla grande affollata sala, si ritrovarono tutti ai piedi di una scala che dava all’esterno, dove incontrarono di nuovo il loro angelo custode. Solo molto tempo dopo si resero conto di quanto erano stati fortunati al loro arrivo in America, ascoltando altri immigrati che raccontavano di giornate intere di attesa nella sala di registrazione, di documenti e bagagli rubati, di imbroglioni che inducevano gli Italiani a cambiare in dollari le loro poche lire ad un tasso truffaldino, di famiglie smembrate perché qualcuno dei componenti, segnato col gesso con una croce sul petto e una sulla schiena, era stato rispedito dai medici al piroscafo senza alcun possibile rimedio.

    Quella notte dormirono a New York, loro cinque in una stanza di una locanda che parve loro lussuosa, con tre letti, un lavandino, uno specchio e la luce elettrica, nessun paragone coi loro lumi a petrolio, che pure erano moderni e non si trovavano certo in tutte le case dei contadini della Valpolicella.

    Il mattino dopo presero il treno per Los Angeles, un lunghissimo veloce convoglio sul quale trascorsero comodamente quattro giorni e quattro notti. Per dormire si tiravano i sedili, che diventavano quasi letti. Tre volte al giorno passava un nero che suonava una campanella e si andava a mangiare nell’apposita vettura, tutta roba buona, anche se c’era troppa carne e mancava la polenta.

    A Los Angeles li aspettava un altro incaricato del padrone, che dopo aver ritirato i bagagli li condusse a un camion adattato al trasporto di passeggeri. In un paio d’ore di tragitto su strade polverose giunsero infine al rancho.

    Capitolo 3

    Il rancho era una tenuta di grandezza inimmaginabile per un Veneto, inferiore solo alla vastità dei latifondi dell’Italia centro-meridionale. Il camion aveva percorso alcuni chilometri dopo aver oltrepassato l’ingresso, due pali ai lati della strada che sorreggevano un cartello a forma di arco. Le coltivazioni principali erano il vigneto e l’agrumeto, ma c’erano anche terreni a grano patate e mais, e pascoli per mucche e cavalli.

    Si fermarono non in una corte o davanti a una casa colonica, ma al centro di un villaggio di edifici in legno, dei quali uno era bello e ben rifinito, su due piani, mentre gli altri, di diverse dimensioni, somigliavano piuttosto a baracche e avevano solo il piano terra.

    La casa per la famiglia di Toni era ancora in costruzione, fu quindi preparato velocemente un alloggio provvisorio in parte di un magazzino con l’ingresso indipendente. Lo spazio fu diviso in tre locali mediante pareti realizzate con cassette da frutta sovrapposte tenute unite con paletti e corde. Il mobilio fu poca cosa, brande per tutti, un tavolo, altre cassette da frutta utilizzabili come sedie o comodini. L’unica fornitura che calmò un poco la mamma e lenì la sua delusione per un’accoglienza ben diversa da quella immaginata, fu una cucina a legna con un piano cottura di ghisa e numerosi sportelli, che i locali chiamavano stove: in Valpolicella era ancora sconosciuta, sarebbe arrivata parecchi anni dopo e l’avrebbero chiamata cucina economica.

    L’alloggio definitivo fu pronto pochi giorni dopo, una casetta di legno col tetto a due spioventi, quattro locali più un servizio, una porta sul davanti preceduta da un piccolo giardino, un’altra sul retro seguita da un orticello, due finestre su ciascuno dei lati. Il mobilio era accettabile, costituito da veri letti, tavolo, sedie, un cassettone, due armadi. Tre cose non piacevano alla mamma: le pareti di legno e non di solida pietra, le stanze minuscole, la lontananza della fontana cui si doveva attingere l’acqua. Ma dovette rassegnarsi, non c’erano alternative e le belle forti comode case in muratura col pozzo in cortile, a dieci metri dalla cucina, erano lontanissime e ormai irraggiungibili. Col tempo, però, la casetta le piacque sempre più, dipinta d'azzurro, con una graziosa palizzata e un’aiola fiorita all’ingresso, i pomodori, l’insalata e le piante aromatiche sul retro, le tendine ricamate alle porte a vetri e alle finestre, le tavole del pavimento lucide da specchiarsi.

    Nel villaggio abitavano pochi anglo-americani, ispanici indigeni e neri, parecchi italiani e messicani immigrati da poco. Molto opportunamente, il paron aveva ottenuto dall’Arcivescovo di Los Angeles un prete cattolico ispanico che di domenica diceva la messa nella cappella del rancho e gli altri giorni tentava di insegnare l’inglese a chiunque lo volesse, al mattino ai bambini e nel tardo pomeriggio a piccoli e grandi, senza limiti di età. Toni fu costretto da suo padre non solo a frequentare le lezioni del mattino, ma anche ad accompagnare i suoi familiari a quelle della sera. Sua sorella e suo fratello maggiore, sedici e (quasi) quindici anni, la mattina erano impegnati, essendo stati assunti rispettivamente come mungitrice e addetta all’allevamento dei polli e dei conigli, e come aiutante di so’ pare nelle vigne, con un modesto ma graditissimo salario.

    Toni no, era troppo piccolo

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