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Ventinove settembre
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Ventinove settembre

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Il ventinove settembre non è giorno come un altro per i protagonisti di questo libro: è il giorno in cui si consuma un omicidio che sembra senza movente. Tina ha inciso sulla pelle quel giorno: è un ricordo doloroso, ma anche il giorno della nascita di suo figlio, ora diciassettenne, Giacomo. Tina è una donna spenta, spezzata che si trascina in una vita anonima, misurata, guardinga; anche Giacomo è un ragazzo solo, alla ricerca della propria identità e che affronta con difficoltà, chiudendosi nel mutismo, il rapporto con gli altri. Una sera di autunno Tina si lascia coinvolgere dalla sua amica Micaela a partecipare alla serata inaugurale di una discoteca. Da quel momento la sua vita prenderà una piega drammatica. Verrà infatti riconosciuta da una persona che fa parte del suo passato e che comincerà ad inseguirla. Tentando di sfuggirgli conoscerà Alex, un uomo seducente, e la sua complicata famiglia. Tra inseguimenti, omicidi e fughe si dipana la storia di un gruppo di persone legate tra loro da sofferenza e dipendenze, finché la resa dei conti si presenterà loro come una slavina, trascinando con sé tutto e tutti, fino in fondo.
LanguageItaliano
Release dateJun 18, 2018
ISBN9788833281124
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    Ventinove settembre - Maria Anna Mastrodonato

    Secretum

    Prologo:

    29 settembre

    «Sei proprio un deficiente, un cretino!» sbottò, poi fece il broncio e incrociò le braccia.

    Lui la guardò, sbuffando. Tutti gli amici gli avevano detto che stare dietro a una così avrebbe richiesto un enorme spreco di energie e di pazienza, ma cosa ci poteva fare? Nonostante il caratteraccio, lui l’amava, perché al mondo non esisteva un’altra così: era la sua metà, quella perfetta.

    Pensò di aver avuto una sfiga pazzesca a mettersi sulla strada proprio quel giorno. Era in corso una manifestazione motoristica e le strade erano già intasate. Inoltre, approfittando della bella giornata, molti si erano messi in macchina per raggiungere il mare e regalarsi un ultimo giorno d’estate.

    Avrebbe voluto una giornata serena e senza litigi: il pranzo con gli amici al mare era stato pensato per tirarla su, in un periodo tanto delicato della loro relazione.

    Adesso era contrariato e, a causa di quel traffico bestiale, sembrava che stesse andando tutto a monte: il pranzo, la loro serenità e la sua pazienza.

    Ebbe un’idea improvvisa. Si sarebbe spostato sulla corsia di emergenza. Alla peggio, avrebbe preso una multa.

    L’auto s’incanalò nella corsia vuota. In macchina calò il silenzio. La ragazza non parlava più, sapeva che lui aveva fatto quella manovra solo per zittirla. Cominciò a sfrecciare sulla corsia superando una fila infinita di vetture ferme. In un lampo un’altra macchina si immise, sporgendosi troppo. L’impatto fu lieve, ma il rumore della fiancata che si graffiava sembrò terrificante. L’auto del ragazzo sbandò, ma lui riuscì a fermarla quasi subito.

    Guardò con preoccupazione la sua fidanzata, e le chiese: «Come stai?».

    «Bene, tranquillo», gli rispose lei con voce fioca.

    La rabbia gli oscurò il giovane volto abbronzato.

    «Che incosciente, ci poteva ammazzare. Adesso mi sente!»

    Sganciò la cintura e si accinse a scendere.

    L’altra fiutò il pericolo e provò paura. Allungò la mano e gli strinse l’avambraccio, dicendo: «Lascia perdere.»

    Lui si liberò dalla presa e scese. Osservò la fiancata per constatare i danni e sentì alle spalle una presenza. Voltandosi, si trovò davanti un uomo alto quasi due metri, grosso, albino e con gli occhi di un celeste talmente chiaro da sembrare trasparenti.

    Restò agghiacciato nell’accorgersi che impugnava una pistola. L’uomo non gli diede il tempo di parlare. Alzò la mano e sparò.

    Uno, due, tre colpi.

    Più che il dolore, l’incredulità si dipinse sul volto del ragazzo. Si portò le mani all’addome, dove si allargavano a vista d’occhio macchie di sangue. Sentì le urla della compagna che, nel frattempo, era scesa dall’auto e guardava la scena.

    Il ragazzo sbiancò, sentendo l’alito della morte arrivare gelido. Stupito, si voltò a guardare la sua fidanzata. Non poteva finire così. Lui l’amava.

    Non può finire…

    Si accasciò.

    Lei cercò di raggiungerlo, ma si arrestò alla vista del sangue che, in rivoli, le si avvicinava ai piedi.

    Cominciò a strillare, le mani nei capelli.

    Il killer era l’immagine del diavolo, con i capelli bianchi e gli occhi di ghiaccio. Puntò la pistola verso di lei, che se ne accorse e fissò quegli occhi inumani. Sembrava sul punto di sparare, ma ebbe un momento di esitazione. Il suo terribile sguardo celeste scese sul ventre della donna: era incinta.

    Lei sentì la propria fine avvicinarsi e si cinse il pancione con le braccia, come per difenderlo.

    Aveva pensato mille volte di abortire, ma amava il suo ragazzo; per lui si era battuta contro tutti e solo per lui aveva portato avanti la gravidanza.

    Non merito questa creatura, pensò, non sono degna dell’amore del mio uomo.

    Durò un secondo, anche se parve un’eternità. Staccò lo sguardo da quegli occhi glaciali, cercò oltre la macchina: il cadavere giaceva vicino alla portiera, afflosciato come un palloncino sgonfio, immerso in una pozza di sangue.

    Intorno, tutto sembrava procedere al rallentatore. Dalle macchine ferme e incolonnate provenivano movimento e urla. La gente cercava un nascondiglio, scappando lontano da quella follia.

    Ogni cosa le arrivava attutita, ovattata, come se al mondo, in quel momento, ci fossero solo lei e il killer.

    Sentì un calcetto del bambino e pensò che, senza il suo uomo, la vita non sarebbe più stata degna di essere vissuta.

    Scusa, amore.

    La ragazza si sentì pronta per il proprio destino e provò a recitare mentalmente una preghiera. Alzò lo sguardo, cercando gli occhi freddi dell’assassino.

    Le tremavano le gambe, era consapevole che non avrebbe potuto fare nulla; l’urina le scese lenta e calda lungo le gambe.

    Si guardarono ancora, per un momento, poi la tensione divenne insopportabile e lei sentì un ronzio nelle orecchie. Infine vide solo buio.

    Prima parte:

    29 settembre

    Anch’io, un giorno, ho amato follemente.

    Quattro matrimoni e un funerale.

    «Muto, quanti anni fai oggi?» disse Riccio rollandosi una canna.

    «Diciassette», rispose Giacomo, appoggiato al muro.

    «Forte, fratello. Festeggia, vuoi un tiro?» chiese, mentre si accendeva lo spinello.

    «Lo sai che quella roba mi fa cagare. Una volta l’ho provata e mi sono troppo stranito.»

    «A me fa stare solo bene.»

    «Vedrai come starai bene dopo, in classe, tra le grinfie di quella di matematica!»

    «E secondo te perché mi sto facendo una canna?» rispose Riccio, sfottente.

    Giacomo scosse la testa.

    «Quella ti ha puntato, ripeterai il quarto anche quest’anno.»

    Riccio non rispose. Guardava il cielo e i suoi lunghi dread castani ondeggiavano al vento tiepido di fine estate.

    «Cosa posso fare con Marta? Dammi una mano, un consiglio!»

    «Muto, ma ancora non l’hai capito? Quella è una gran stronza. Te l’ho detto mille volte, quella è una che ti riempie di ciance e poi si guarda tutti i maschi che passano come una gatta in calore. Sei stato fortunato che ti abbia lasciato. Lo so io chi se la prenderà, adesso, la fregatura!»

    Giacomo si rabbuiò. Se Riccio non fosse stato il suo unico amico lo avrebbe preso a calci. Poco più in là si stavano affollando studenti ancora abbronzati dagli ultimi giorni di mare. Loro, invece, stavano defilati dietro a un muretto.

    Riccio continuò: «Vedi come sei? Tu non l’hai capita. Le ragazze non sono come noi, non vogliono solo scopare. Quelle vogliono anche parlare, vogliono sentire cose sdolcinate. Se ti chiamano Muto ci sarà un perché!»

    Giacomo detestava quel soprannome. Muto. La sua faccia si rabbuiò ulteriormente.

    Riccio buttò il mozzicone.

    «Andiamo fratello, è ora.»

    Il rumore ritmico degli articoli passati in cassa era diventato, negli anni, la colonna sonora della sua vita. Pensava che il suo mondo ormai si limitasse al supermercato in cui lavorava, alla famiglia e a quel bip insistente. Eppure quel lavoro era una finestra sull’universo: si ritrovava davanti famigliole perfette come quelle del Mulino Bianco; uomini trascuratissimi separati da poco che pian piano evolvevano in esseri che scambiavano le ricette di "Cotto e mangiato" con le loro vicine per poi comparire un giorno al fianco di una nuova compagna; bambini che si trasformavano da sbarbati in adolescenti con i tatuaggi; ragazzine che venivano prima con Cicciobello, poi con Ken e infine con il fidanzatino. Aveva osservato così tante cose da quella sua posizione privilegiata che spesso aveva pensato di scriverci un libro. Come in tutte le medaglie, però, c’era il rovescio. Odiava l’indifferenza delle persone. I clienti non la vedevano, era come se fosse stata trasparente: mentre passavano in cassa la spesa, parlavano di fatti personali davanti a lei, si raccontavano cose intime che non avrebbero detto a nessuno. Aveva udito conversazioni telefoniche tra amanti; aveva scoperto insospettabili gay nelle vesti di amorevoli mariti o solerti mogliettine; era a conoscenza delle cose più strane, come, per esempio, le condizioni di salute di una signora malata di cancro, scoperto quando le erano spuntati dei peli scuri sul mento. Questa sensazione di invisibilità da un lato la faceva soffrire, dall’altro era l’unico incentivo per continuare quel lavoro. La curiosità verso il mondo altrui la sospingeva giorno dopo giorno, permettendole di proseguire un’attività alienante che qualche volta rischiava di portarle via anche l’anima.

    Negli anni aveva cambiato tante colleghe: da loro lo zoccolo duro era costituito dalle veterane e, anche se lei non aveva che trentasette anni, era una di loro. Era facile stancarsi, ma lei, soprattutto all’inizio, aveva resistito per suo figlio e per suo padre: tutta la sua famiglia.

    L’ultima mezz’ora del turno era sempre la più difficile. Si guardò intorno per vedere dove fosse Micaela: sul loro gruppo WhatsApp fervevano i preparativi per la serata di sabato. Decise di cercarla alla fine del turno. In quel giorno così difficile, il suo personale giorno della memoria, desiderava il calore umano.

    La sofferenza, per lei, era un cane affamato che non si saziava mai; il sollievo dal ricordo era di breve durata, poi mordeva sempre più forte, nonostante gli anni.

    Prima di andare a fumarsi la consueta sigaretta cercò Micaela. Fumava solo in quel giorno e fumava una sola sigaretta. Era diventato un rito.

    Micaela era la sua migliore amica e anche l’amica migliore che le potesse capitare. La trovò al suo reparto, stava aiutando un paio di clienti. Tra loro bastò un’occhiata. Appena riuscì a liberarsi, Micaela la raggiunse al solito posto dietro al magazzino.

    «Oggi è la giornata annuale del fumo», disse sorridendo la rossa. «È il compleanno di Giacomo!»

    Lei assentì, ma non parlò. Micaela restò qualche secondo in silenzio prima di ritrovare la solita verve.

    «Hai visto che stanno organizzando la seratona anni ’80 per l’apertura della stagione?»

    Lei annuì di nuovo, guardando la sigaretta. Micaela continuò: «L’inizio della stagione all’Aftereight mi mette tristezza, è come se ricominciasse l’inverno. Devi riporre le scarpe estive, le maniche corte, le gonne e i vestiti per metterti i maglioni e gli stivali: mi mette veramente malinconia.»

    Tina sembrava assente e Micaela la rimproverò.

    «Adesso basta brutti pensieri, li vedo scorrere nella tua testa come i sottotitoli di un film. Vai a casa, fatti una doccia, prepara un bel pranzetto per i tuoi uomini e una torta per Giacomo. Sabato si balla!»

    Si scambiarono un sorriso.

    Micaela le piaceva per la sua naturale predisposizione all’ottimismo, qualità di cui lei era del tutto sprovvista. Era leggera e fantasiosa, chiacchierava spensierata di vestiti, incontri, amicizie. Dopo un’attenta descrizione degli uomini che ci sarebbero stati all’inaugurazione, Micaela guardò l’orologio e sbuffò: doveva rientrare.

    Si salutarono con un abbraccio.

    La sigaretta bruciava a vuoto e Tina osservò il fuoco che rodeva la carta. Pensò che la sua vita si stesse consumando per inerzia. Ringraziò mentalmente Micaela per la pazienza che aveva nei suoi confronti.

    La sua amica era il suo unico contatto con la società; la trascinava nella vita degli altri, faceva da ponte tra la tristezza e la realtà. Spesso era l’ancora che la tratteneva dal lasciarsi andare alla follia. Non aveva ancora trentasette anni e se ne sentiva addosso ottanta.

    Una volta terminato il turno, Tina comprò una torta per il compleanno di Giacomo, poi prese la macchina.

    Lungo la strada venne assalita dai ricordi. Il cane nero morse con forza e il dolore le fece salire le lacrime agli occhi.

    Non devo pensarci mai più, si disse. Oramai erano passati tanti anni. Doveva pensare solo a suo figlio e a suo padre. La fitta di dolore la prese allo stomaco, avrebbe voluto tanto un uomo accanto, che condividesse la sua misera esistenza, ma non riusciva a legarsi di nuovo a qualcuno. Era troppo spaventata e timida. In tanti anni che frequentava Micaela e la comitiva dell’Aftereight, aveva visto tutte le amiche che si trovavano un compagno, si lasciavano e ne trovavano un altro.

    Storie su storie.

    Lei era sempre ai margini e non faceva parte del gioco. A volte partiva con una storia di sguardi, ma tutto finiva lì, perdeva l’interesse e aveva quella stramaledetta paura che la perseguitava.

    A volte si ribellava alla sua stessa estraneità. Voleva essere agente della sua vita, ma non riusciva a rompere la capsula di gelo che la conteneva. Sentiva che sarebbe rimasta intrappolata lì dentro per sempre se non avesse fatto qualcosa per spezzare il maleficio che la imprigionava.

    Frequentava assiduamente la comitiva di Micaela perché le dava la sensazione di sentirsi viva, di appartenere a un gruppo, di condividere la strada dell’esistenza con qualcuno; la sua vita si riempiva con le esperienze degli altri.

    Assorta nei pensieri, Tina non si accorse di essere arrivata a casa.

    Entrò nell’appartamento e il solito caos l’accolse. Quel disordine era la ciliegina sulla torta della sua giornata. Avrebbe voluto uscire, sbattere la porta dietro di sé e andare, senza una meta, lontano da tutto e

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