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Black Eagle
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Black Eagle

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29 dicembre 1944: neve e ghiaccio ricoprono la taiga siberiana come un sudario, trasformandola in un inferno bianco. Un uomo sta marciando da ore, ma non può fermarsi. I nemici del Reich sono sulle sue tracce e i documenti che ha trafugato potrebbero cambiare le sorti della guerra...

18 ottobre 1964: vent’anni più tardi, due ufficiali sovietici si imbattono in quello che sembra un vecchio arsenale abbandonato. Sono stati incaricati di scortare dei prigionieri all’isola di Sachalin, ma la scoperta che li attende stravolgerà i loro destini per sempre...

21 agosto 2001: la polizia di Atlanta è in allarme. Sospetti armati sono asserragliati all’interno di una casa e una squadra d’assalto dell’FBI è pronta a irrompere. Quasi nello stesso istante, alla base aerea di Edwards, qualcuno sta cercando di sottrarre informazioni vitali per lo sviluppo di un nuovo prototipo bellico. È solo l’inizio di una catena di eventi che si estenderà dagli Stati Uniti a Mosca, passando per le remote aree dell’Estremo Oriente. Fino a stringersi attorno ai vertici degli organi di sicurezza russi e a chi ha ordito una trama complessa, allo scopo di rovesciare gli equilibri del potere...
LanguageItaliano
PublisherHenry Duncan
Release dateApr 10, 2018
ISBN9791220031905
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    Black Eagle - Henry Duncan

    EAGLE

    29 dicembre 1944

    Distretto Nanajskij, Estremo Oriente Russo

    Afferrò la visiera del berretto e se la calò sugli occhi. Sembrava che il maglione di lana che indossava non esistesse. Il turbine di ghiaccio non accennava a placarsi e il freddo penetrava ugualmente. La neve che si era raccolta attorno al bavero del cappotto cominciò a indurirsi, mentre quella che gli si posava sul collo continuava a sciogliersi. Sentì le gocce gelide colargli lungo la schiena, ma non fece nulla per fermarle, il busto e le spalle scossi da un tremore ormai continuo.

    Poco dopo si batté le mani sulle cosce, rendendosi conto di non sentire più le dita. Avrebbe potuto togliersi i guanti e controllare, ma temeva di scoprire che erano congelate. Le sue gambe continuarono a muoversi, gli stivali che affondavano nella neve a ogni passo.

    La visibilità era al minimo e non aveva idea di dove stesse andando. Pensava di trovarsi nelle vicinanze del fiume, anche se non ne era più così sicuro.

    Vagava alla cieca, nella regione più remota di una nazione ostile. Tornare in Germania attraverso la Polonia non gli era parso fattibile. Il fronte orientale stava cedendo e i russi imperversavano lungo tutta la linea.

    In preda alla stanchezza, abbassò gli occhi sul terreno. Sotto il manto bianco che lo ricopriva, avvallamenti e rilievi si susseguivano in maniera quasi ipnotica. Per un attimo, provò l’impulso di fermarsi, sdraiarsi sulla neve soffice e riposare. Quanti soldati erano morti così, dopo ore di marcia estenuanti, attratti dal desiderio di dormire? Quanti giovani, tra le divisioni di fanteria della Wehrmacht obbligate a ripiegare?

    Si impose di reagire, scuotendo le spalle e rialzando la testa nel vento urlante. Non doveva lasciarsi andare. Pensare di coricarsi e chiudere gli occhi, anche solo per un momento, era pura follia. Sarebbe scivolato in un sonno profondo, il torpore accentuato dalla progressiva perdita di sensibilità. Il freddo lo avrebbe ghermito senza lasciargli scampo e non si sarebbe più svegliato.

    Doveva continuare a camminare.

    «Meine Ehre heißt Treue…» balbettò, i denti che battevano.

    Il pensiero di attraversare il confine gli giunse come un’eco lontana. Si era ripetuto che non doveva cadere nelle mani dei sovietici. Evitare le loro pattuglie, guadagnare la sponda opposta del fiume e unirsi alle truppe giapponesi in Manciuria. Era il piano che si era prefissato, prima di essere costretto a deviare dal percorso. Era fuggito dalla stazione di Chabarovsk in piena notte, dirigendosi ancora più a est. Aveva creduto che il difficile sarebbe stato seminare i suoi inseguitori, ma non aveva fatto i conti con la rigidità dell’inverno.

    Ora la sua unica possibilità era andare avanti. Addentrarsi sempre più in quel paesaggio desolato e ignorare gli alberi che ondeggiavano nella tormenta, come spettri. Senza fermarsi, finché non avesse trovato un riparo.

    Forse non si erano neanche dati la pena di corrergli dietro. Sapevano che si sarebbe perso in quell’inferno, finendo per morire assiderato.

    Valutò l’ipotesi, ma l’amarezza non fece in tempo ad affiorare. Il vento cambiò direzione e il grigiore che lo circondava lo stordì all’improvviso. Il piede destro affondò più del previsto e lui si sentì scivolare in avanti.

    Sprofondò nella neve senza dirigere la caduta. Si ritrovò steso sulla pancia, mentre i muscoli del collo cedevano. Il suo volto si adagiò sul manto candido, dandogli una vaga percezione di fresco. Una sensazione piacevole, come la prospettiva di chiudere gli occhi…

    No.

    Sollevandosi sui gomiti, rannicchiò le gambe e si rialzò. Rimanendo così, inginocchiato nella neve, con la testa che ciondolava piano. Riaprire le palpebre gli richiese uno sforzo immenso, ma alla fine riuscì a ritrovare l’equilibrio e a rimettersi in piedi.

    Lentamente mosse un passo, poi un altro. Si sentiva ancora disorientato, ma riprese a camminare.

    «Meine Ehre heißt Treue…» canticchiò.

    Non si trattava solo della sua sopravvivenza. Le informazioni su cui aveva messo le mani erano di vitale importanza per l’alto comando. Doveva trovare il modo di comunicarle a Berlino.

    Il vento sembrò rispondergli, aumentando di intensità. Lui lo ignorò, estraniandosi dalla realtà e lasciando lo sguardo libero di vagare nella bufera. Gli alberi si erano fatti più radi, ma per il resto era impossibile distinguere qualcosa. C’erano solo neve e grigiore, ovunque.

    Non sarebbe morto laggiù, si ripeté. Aveva un compito da portare a termine. Doveva cercare di concentrarsi, mettere un piede davanti all’altro e andare avanti.

    Se solo avesse potuto fermarsi un momento…

    Fu molto tempo dopo che vide una luce. Il bagliore tremolante di un lume, nient’altro che un luccichio nella nebbia.

    Continuò in quella direzione finché non vide delinearsi i contorni di una baracca. Un vecchio capanno da caccia dall’aspetto trasandato, che si reggeva su travi di legno marce. Il tetto era ricoperto di neve e si era inclinato da un lato, sporgendo pericolosamente in avanti.

    Ricadde sulle tavole di legno della veranda, stremato. In qualche modo, riuscì a trascinarsi su un fianco e a sollevare il braccio. Il pugno chiuso si abbatté sulla porta senza produrre alcun suono.

    Abbassò la testa, sentendo che le energie lo stavano abbandonando. Il vento continuava a fischiargli nelle orecchie, ma il tonfo poteva essere stato attutito dal guanto. Forse aveva semplicemente bussato con meno forza di quella che serviva.

    Risollevò il pugno, ma la porta si spalancò all’improvviso e una tozza figura si stagliò sulla soglia. Un uomo basso e grasso, in un giaccone imbottito che lo avvolgeva come un sacco. Lo vide chinarsi su di lui, il volto incorniciato da una folta barba e gli occhi piccoli. Poi si sentì afferrare e venne trascinato all’interno. Il turbine di neve che gli roteava attorno da ore scomparve, l’oscurità squarciata dal debole chiarore di una lampada.

    L’uomo lo abbandonò in un angolo e tornò a occuparsi della legna. Tra sacchi di patate e cataste di ceppi, c’era una vecchia stufa annerita. Lo sconosciuto si chinò sulla pentola che poggiava sulla piastra, controllando l’acqua. Doveva essere ancora lontana dal punto di ebollizione, perché subito dopo l’uomo aprì lo sportello e vi infilò altri due pezzi di legno.

    Il tedesco lo studiò, raddrizzando le spalle contro il muro e cercando di mettersi a sedere. Lo sconosciuto portava un colbacco, stivali in feltro e quella giacca imbottita dal taglio inconfondibile.

    Una telogrejka.

    Era un soldato.

    Non perse tempo a chiedersi cosa ci facesse lì, in quella baracca fatiscente nel bel mezzo del nulla. Riusciva a pensare solamente ai documenti che aveva nascosto nella fodera del cappotto. L’intorpidimento gli impediva di muoversi e se il russo avesse deciso di perquisirlo non sarebbe stato in grado di opporsi.

    Come se gli avesse letto nella mente, l’altro si voltò e lo scrutò tra le fessure delle palpebre. Poi richiuse lo sportello della stufa e tornò verso di lui.

    Ignorando il dolore che gli infiammava gli arti, il tedesco infilò la mano nello scarpone incrostato di ghiaccio. Le dita tremolanti si chiusero attorno al calcio della Mauser HSc che portava alla caviglia. Il soldato si accorse del movimento e accelerò il passo. Scattò in avanti nel tentativo di immobilizzarlo, ma non fu abbastanza rapido. L’avversario rinunciò ad estrarre, sollevò il piede e gli sparò attraverso la fondina nascosta. La prima detonazione risuonò come uno scoppiettio strozzato, ma la seconda riecheggiò con potenza tra le quattro pareti della baracca. Brandelli di tela e pezzi di suola vennero proiettati da un lato, mentre i proiettili centravano il bersaglio.

    Il russo ricadde su un fianco. Cercò di tenersi sollevato su un gomito, poi stramazzò sul pavimento e non si mosse più. La bocca era rimasta contratta in una smorfia di sconcerto, gli occhi piccoli puntati verso il soffitto.

    Dall’inizio della guerra, nessun tedesco si era più spinto tanto a est. Probabilmente il russo non ne aveva mai visto uno in vita sua e se aveva capito la provenienza del malcapitato a cui aveva offerto riparo lo aveva fatto troppo tardi.

    L’ufficiale del Sicherheitsdienst osservò il corpo inerte con una punta di rammarico. Pochi mesi prima il suo reparto era stato accorpato alle SS, ma nel profondo rimaneva un soldato. Proprio come l’uomo che aveva appena ucciso. Il russo gli aveva aperto la porta della sua baracca salvandolo da morte certa e lui lo aveva ripagato nel più brutale dei modi, approfittando del primo istante in cui l’altro gli aveva voltato le spalle. Una condotta riprovevole per un soldato e indegna per un ufficiale.

    D’altra parte, aveva una missione da portare a termine. Non poteva concedere il minimo vantaggio ai suoi nemici e tutto ciò che si frapponeva tra lui e il confine, a quel punto, non gli era che d’ostacolo. Non poteva certo sparare alla tormenta, che tuttavia era quasi riuscita a ucciderlo, ma era stato abbastanza veloce da neutralizzare il soldato sovietico. Doveva convincersi che quella morte servisse a riequilibrare le sue sorti e quella convinzione doveva bastare.

    Spostò lo sguardo sui sacchi di provviste, pensando a quello e ad altre cose. Pensando che poteva avvicinarsi alla stufa, concedersi finalmente un po’ di riposo e, magari, prepararsi anche da mangiare.

    Pensando a tutto, tranne al fatto che quella non fosse soltanto una semplice baracca.

    La botola nel pavimento si aprì con un cigolio e ricadde con un tonfo. Ne vennero fuori altre tre o quattro soldati che si guardarono attorno con aria circospetta. Videro il corpo del compagno riverso sul pavimento e individuarono l’intruso quasi nello stesso momento. Le espressioni sgomente si fecero furenti e in un attimo gli furono addosso.

    «Fermo, fermo!» intimarono a più riprese, mentre lo immobilizzavano.

    Lo perquisirono, sfilandogli i guanti e la sciarpa. Uno di loro trovò la Mauser, la mostrò ai compagni e se la infilò nella cintura. Poi lo sollevarono, trascinandolo via. Lo calarono attraverso la botola come un tappeto arrotolato, tenendogli le gambe bloccate. Quindi gli si riunirono nuovamente attorno e lo spinsero in avanti.

    Sotto la baracca si celava un ampio locale sotterraneo, parzialmente illuminato da due file di lampade ricaricabili. Una gran quantità di casse occupava la maggior parte dello spazio, insieme a mucchi di paglia su cui erano stati accatastati pezzi di ricambio per i mortai, fucili ed esplosivi.

    Un arsenale.

    Il tedesco imprecò tra sé e avanzò lungo il passaggio. Sorreggendolo e spintonandolo, i soldati lo condussero all’estremità opposta del bunker, dov’era stato approntato un ufficio. Uno dei ragazzi bussò alla porta, attese l’invito di quello che doveva essere l’ufficiale in comando e sparì all’interno.

    C’erano un’altra mezza dozzina di soldati, lì attorno. Sedevano su delle brande e badavano ai fatti loro, ma vedendo sopraggiungere il gruppo in compagnia di un prigioniero avevano cominciato a scambiarsi cenni e occhiate.

    Il soldato che era entrato nell’ufficio riapparve e intimò al tedesco di entrare a sua volta. A fatica, gambe e braccia ancora intorpidite dal freddo, quest’ultimo obbedì. Varcò la soglia con la sensazione che mille aghi gli si stessero infilando alla base del cranio, ma si sforzò di apparire impassibile.

    Un uomo in divisa sulla quarantina lo accolse da dietro una scrivania. Aveva il volto scavato e un fisico molto più asciutto rispetto ai ragazzoni di guardia all’arsenale, ma dava ugualmente l’impressione di tenere tutto sotto controllo. Fissò lo sconosciuto con un sorriso indecifrabile, non propriamente malevolo. Forse era solo grato del fatto che qualcosa avesse interrotto la monotonia di quell’assegnazione.

    «Come si chiama?» indagò, dopo aver fatto segno al soldato che poteva andare.

    La porta dell’ufficio si richiuse con un soffio.

    «Patrušev» mentì il tedesco. «Igor Patrušev.»

    «Ha un documento?»

    «Nella tasca interna della giacca.»

    Il tedesco lasciò che l’ufficiale sovietico si avvicinasse e lo scrutasse, come per assicurarsi che quell’ospite inatteso non intendesse compiere gesti inconsulti. Allo stesso modo, lasciò che allungasse la mano per scostargli un lembo del cappotto e rovistasse in cerca della tasca.

    Aveva davvero un documento che lo identificava come Igor Patrušev. Il suo vero nome era Dieter Engel, ma quella seconda identità era la sua copertura. Lo era sempre stata, sin da quando aveva iniziato a lavorare come spia per l’Abwehr.

    «Cosa ci fa da queste parti?»

    I suoi occhi si posarono sulla carta topografica appesa alla parete. Una rappresentazione dell’area in cui si trovavano, al confine con i territori occupati dai giapponesi. Il punto più adatto per attraversarlo era in corrispondenza della città di Blagoveščensk, ma proprio per quel motivo era lì che i sovietici stavano ammassando il grosso delle loro forze. Così aveva scelto di proseguire, sperando di aggirarle e di entrare in Manciuria da est.

    «Mi sono perso.» si limitò a dire.

    «Cos’è successo con quel soldato, su di sopra?»

    «Gli ho chiesto ospitalità e mi sono addormentato. Quando mi sono risvegliato, l’ho sorpreso a frugarmi nelle tasche e mi sono spaventato. Ho sparato per difendermi.»

    L’ufficiale soppesò le sue parole, guardandolo da sotto in su. Non gli credeva, ma al tempo stesso era ben lontano dall’immaginare quale fosse la verità.

    «Mi dia un momento.» disse, dirigendosi alla porta.

    Il tedesco non si lasciò sfuggire l’occasione. La carta appesa alla parete non era l’unico elemento utile in quell’ufficio. Nell’angolo alla sua sinistra, sorretto da una rastrelliera, c’era un mitra PPSh-41. Non sapeva se fosse carico, ma non importava. Il soldato che era entrato prima di lui aveva consegnato all’ufficiale in comando la sua Mauser e la pistola giaceva sul ripiano della scrivania, in bella vista.

    Dovette muovere soltanto un passo per afferrarla.

    «Fermo.» intimò, un attimo prima che l’ufficiale girasse la maniglia.

    Quello si bloccò, voltandosi di tre quarti. Se fosse riuscito a farsi scudo di lui, forse avrebbe avuto ancora una possibilità di andarsene da lì.

    Ma era destino che tutti i suoi sforzi dovessero essere vanificati.

    Davanti alla minaccia dell’arma puntata, il russo sgranò gli occhi e avvicinò la mano alla fondina.

    «Fermo!» ripeté il tedesco, inutilmente.

    L’altro estrasse la sua arma ed Engel gli sparò. Guardò l’ufficiale nemico andare giù come un manichino di pezza, imprecando nuovamente tra sé.

    Non attese di scoprire come avrebbero reagito i soldati che si trovavano oltre la soglia. Girando attorno alla scrivania, prese il mitra e controllò il caricatore. Si voltò appena in tempo per vedere la porta che si apriva. Sparò una breve raffica per convincere i soldati a indietreggiare. Il PPSh-41 scalciò con forza e i proiettili forarono il compensato, scagliando frammenti in ogni direzione.

    La porta sbatté, poi si riaprì. Cigolò sui cardini come per lamentarsi del trattamento subito, ma senza che ci fosse nessuno a spingerla. Chiunque avesse girato la maniglia doveva essersi ritratto all’istante.

    Il tedesco si immaginò i soldati che saltavano giù dalle brande e mettevano mano ai fucili, preparandosi a circondarlo.

    Con mille cautele, si avvicinò allo stipite e si mise in ascolto.

    «Tenente!» chiamarono alcune voci, cercando di capire cosa ne fosse stato dell’ufficiale.

    «Vieni fuori, bastardo.» urlò un altro.

    Lui li ignorò, riflettendo sulle opzioni a disposizione.

    Il suo sguardo si posò sul documento che lo identificava come Igor Patrušev. L’ufficiale lo aveva lasciato cadere quando era stato colpito. Aveva perso il conto delle volte in cui aveva dovuto esibirlo, chiedendosi se quell’identità fittizia lo avrebbe infine salvato o tradito.

    In quel momento, invece, non faceva che pensare alle carte che aveva cucito all’interno della fodera. Ormai gli era chiaro che le circostanze non gli fossero favorevoli e che, probabilmente, non avrebbe più rivisto la Germania.

    Ma non poteva arrendersi. Doveva riuscire, o morire nel tentativo.

    «Mi senti?» gridò il soldato di poco prima. «Vieni fuori!»

    Un rumore di passi gli disse che i più temerari stavano cominciando ad avvicinarsi. Le sue dita si serrarono attorno all’impugnatura del mitra. La circolazione si stava riattivando e gli sembrava di aver riacquistato una certa sensibilità.

    Senza pensare più a nient'altro, si sporse oltre la soglia e fece fuoco.

    18 ottobre 1964

    Distretto Nanajskij, Estremo Oriente Russo

    La colonna si fermò in mezzo al sentiero. L’aria attorno ai radiatori si addensò in nuvolette biancastre, mentre il gorgoglio dei motori si opponeva al silenzio.

    «Ti dico che non c’è nessun sentiero.» ripeté il maggiore Oleg Losinski, nel veicolo di testa.

    Dmitrij Sergačev osservò il suo sottoposto con un mezzo sorriso.

    «Fidati, c’è.»

    Scesero dal camion quasi nello stesso momento. Era un vecchio ZiS-151, cinque tonnellate e mezzo di acciaio per quasi sette metri di lunghezza. Poteva trasportare fino a una quindicina di soldati ed era identico agli altri sei che lo seguivano. Solo che gli altri non trasportavano soldati.

    «Forza, scendete anche voi.» intimò Losinski.

    Gli uomini obbedirono prontamente. Erano intirizziti dal freddo e mettersi al lavoro era di gran lunga preferibile all’idea di passare un altro minuto a bordo del camion.

    «Prendete delle pale e mettetevi a scavare.»

    Sergačev lasciò che fosse il compagno a dirigerli e approfittò della sosta per osservare il paesaggio.

    Il sentiero attraversava diagonalmente una fitta foresta. La maggior parte delle conifere era ricoperta di neve, ma i rami delle piante decidue si intrecciavano tra loro come tante braccia protese verso il cielo. Si erano fermati nell’unico punto in cui gli alberi si facevano più radi, aprendosi a ventaglio su entrambi i lati. Sergačev notò che non c’erano bacini nelle vicinanze, né corsi d’acqua.

    Difficile che quella radura fosse opera della natura.

    Il suo sguardo si posò su un rigonfiamento del manto innevato che ricopriva il terreno. Una collinetta, o un accumulo nevoso.

    «Prendi la mappa.» disse Losinski, tornando verso di lui.

    Più avanti, i soldati avevano messo mano alle pale e stavano rimuovendo il primo strato di neve.

    «Non serve» lo tranquillizzò Sergačev, accompagnando l’affermazione con un cenno. «Mi ricordo di questo posto.»

    Per Losinski era la prima volta, ma lui era già stato lì. Circa nove mesi prima, aveva viaggiato su un convoglio come quello, lungo lo stesso sentiero. In quell’occasione si erano affidati a una guida orocia e a Sergačev era bastato per memorizzare il tragitto.

    Losinski annuì, strofinandosi le mani davanti alla bocca.

    «Beh, spero che sia come dici. Non c’è un accidente di niente qui, a parte i lupi.»

    «Io non ne ho visti.»

    «E io non vedo l’ora di arrivare su quella maledetta isola.»

    Si riferiva all’isola di Sachalin, la loro destinazione finale. O meglio, il punto d’arrivo del loro viaggio d’andata. Una volta consegnato il carico, sarebbero stati liberi di tornare indietro. Per i prigionieri che stavano scortando, invece, era un’altra storia. Per quegli sventurati, Sachalin rappresentava davvero la destinazione finale.

    «Perché non ci sei mai stato» replicò Sergačev, continuando a fissare quello strano rigonfiamento nella neve. «Non c’è niente neanche laggiù. Io non vedo l’ora di tornare a Mosca.»

    Losinski si lasciò sfuggire un sorriso provocatorio.

    «Sachalin, Mosca, non fa poi molta differenza per me» commentò. «Io non sono nelle grazie di Grečko.»

    Andrej Antonovič Grečko era un maresciallo dell’Unione che si stava preparando a scalare i vertici delle forze armate. Durante la Grande Guerra Patriottica era stato compagno d’armi di Brežnev ed era da sempre la miglior assicurazione per la carriera di Sergačev.

    «Ma sei nelle mie, di grazie» ribatté quest’ultimo. «Per ora.»

    L’altro ridacchiò tra sé. Era un gioco che portavano avanti da anni. Losinski era un buon ufficiale, ma non godeva di molti appoggi. Inoltre era di origine polacca, il che probabilmente gli avrebbe negato l’accesso a una posizione di prestigio. Non poteva fare altro che affidarsi a Sergačev e sperare che l’amico fosse destinato a diventare generale.

    «Vorresti dire che…»

    Non finì la frase. Seguendo lo sguardo di Sergačev, i suoi occhi avevano finito per posarsi sulla collinetta che aveva attirato l’attenzione del compagno. In quel preciso momento, il rigonfiamento parve collassare su se stesso e la neve che lo ricopriva sprofondò, rivelando una cavità.

    I due ufficiali si scambiarono uno sguardo sbigottito.

    «Vieni» propose Sergačev. «Andiamo a vedere.»

    Losinski pensò di dissuaderlo, ma inutilmente. L’amico si era già avviato, incamminandosi nella neve alta fino al ginocchio. Impiegò quasi due minuti per percorrere i primi venti metri, ma alla fine giunse in prossimità di quella strana escrescenza nevosa. I suoi piedi calpestarono una superficie dura e lui allungò le mani. Lì, dove una parte della collina era sprofondata, sporgevano delle travi di legno. L’ufficiale le ripulì dalla neve e finalmente capì di cosa si trattava.

    Erano i resti di una baracca.

    Scavalcò le travi più basse ed entrò nel buco che si era formato sotto i loro occhi. Resa instabile dal tempo e dalle intemperie, e appesantita dalla neve, una parte del tetto era crollata. Sergačev si ritrovò al centro di un locale che una volta doveva essere stato chiuso da quattro pareti. Un vecchio rifugio, o la dimora di un cacciatore del luogo.

    Il suo piede sfiorò quello che poteva sembrare un altro paletto di legno. Abbassò lo sguardo e quasi sobbalzò, riconoscendo il profilo di un arto congelato.

    Una gamba.

    Semisommerso da neve e altri rottami, il resto del corpo si lasciava solo intuire.

    «Hai trovato qualcosa?»

    Losinski lo aveva raggiunto con un paio di soldati. Lui gli indicò il corpo, mentre continuava a ispezionare la baracca.

    «Ma che diavolo…» sentì mormorare l’amico.

    Sulla destra c’era una vecchia stufa su cui poggiava una pentola vuota. Sergačev si ritrasse, muovendo un passo all’indietro e facendo per voltarsi.

    «Fermo!»

    L’ammonimento di Losinski era arrivato appena in tempo. Le travi del tetto che avevano ceduto si erano ammassate sul pavimento, ricoprendolo quasi interamente.

    Tranne in un punto.

    Sergačev si chinò, osservando i contorni sfaccettati del passaggio in cui aveva rischiato di cadere.

    «È una botola.» constatò.

    «Una cantina?» ipotizzò Losinski, accovacciandosi a sua volta.

    «No, guarda.»

    Una scala si dilungava verso il basso, i pioli in ferro e gli staggi saldamente ancorati allo strato di terreno sottostante. I due ufficiali si scambiarono una seconda occhiata, ma questa volta Sergačev non disse niente. Si sporse sopra la botola, si aggrappò alla scala e cominciò a scendere.

    «Restate qui.» disse Losinski ai soldati che lo avevano accompagnato, apprestandosi a seguire l’amico.

    Si ritrovarono ai piedi della scala, nel cono di luce che proveniva dall’alto.

    «E adesso?» domandò.

    Intendeva sottolineare il fatto che erano stati due idioti a scendere là sotto senza una torcia. Era ovvio che il sotterraneo fosse immerso nel buio.

    «Aspetta.» fece Sergačev, avanzando di un passo.

    Era sceso un attimo prima di lui e i suoi occhi si erano abituati all’oscurità. Seguì la parete a tastoni, finché non trovò ciò che cercava. La sua mano si chiuse attorno a una leva già sollevata, per cui la abbassò e la sollevò di nuovo.

    Non accadde nulla.

    Riprovò ancora, finché il circuito elettrico non rientrò in funzione. Il silenzio venne rotto da un forte scatto metallico e due file di lampade sfarfallarono nel buio. Non si accesero tutte, ma la luce bastò a tratteggiare il perimetro di un ampio locale sotterraneo. Molto più ampio della baracca soprastante e stipato di casse di ogni dimensione. Erano ovunque, ammonticchiate una sull’altra. Tranne che nel mezzo.

    I due ufficiali avanzarono lungo il passaggio e presero a guardarsi attorno.

    «Quelle sono lampade ricaricabili» notò Losinski, trasognato. «Si usavano nella Grande Guerra.»

    Sergačev annuì, indicandogli una catasta di vecchi fucili Mosin-Nagant.

    «Già.»

    Le pile di casse si interruppero di colpo. Una gran quantità di rottami era ammassata alla base della parete sulla destra, come se tutto ciò che aveva occupato quella parte del locale fosse stato spazzato via.

    «Quelle sono ossa.» esclamò Losinski, con un nodo alla gola.

    Nel mare di schegge e pezzi di metallo c’erano altri resti umani. Non corpi interi stavolta, ma singoli arti, sezioni di arti e persino semplici moncherini, misti a brandelli di tessuto e lembi di uniformi.

    «Dev’esserci stata un’esplosione» intuì Sergačev. «Ha ucciso i soldati che si trovavano qui.»

    In realtà, il disordine faceva pensare che alcuni di quei pezzi fossero stati successivamente trascinati e spostati.

    L’ufficiale avanzò di un altro passo, sentendo qualcosa sbriciolarsi sotto le suole degli stivali. Potevano essere granelli di terra, o frammenti d’osso più piccoli.

    «Dove vai?» chiese Losinski.

    Sergačev si strinse nelle spalle, continuando a setacciare il pavimento con lo sguardo.

    «Una carica difettosa può aver ucciso questi soldati» rifletté, «ma non il tizio che abbiamo trovato di sopra.»

    Sul fondo c’era una specie di ufficio. Si reggeva su dei profilati in alluminio e un’unica parete di compensato lo separava dal resto. La porta era chiusa, la superficie raggrinzita e crivellata di buchi di proiettile. Sergačev cercò di aprirla, ma era incastrata. Allora strinse la maniglia con entrambe le mani, sollevò e spinse. La porta grattò sul pavimento e si aprì. Si ritrovò di fronte ad altri due corpi. Il primo giaceva ai suoi piedi, le braccia raggomitolate attorno a un mitra PPSh-41. L’altro era lì vicino, i resti decomposti all’interno di una divisa sgualcita.

    Si chinò su quello in abiti civili, osservando le macchie sbiadite sul suo torso. Più o meno alla stessa altezza, nella parete di compensato, c’erano altri cinque o sei fori di proiettile. Quindi si avvicinò a quello con la divisa, lasciando scorrere lo sguardo sugli elementi dell’ufficio.

    Alle sue spalle, Losinski si chinò sul primo corpo.

    «Sembra mummificato.» mormorò.

    Sergačev si avvicinò alla scrivania, indugiò sulle pagine aperte di un quadernetto e tornò a rivolgersi all’amico.

    «Credo di capire» affermò. «Quel tipo dev’essersi trincerato qui dentro. I soldati gli hanno sparato attraverso il compensato, ma lui è riuscito a rispondere. Probabilmente ha colpito una delle casse che contenevano le granate per i mortai e l’esplosione ha messo fine al combattimento.»

    Nonostante il pallore che gli ricopriva il volto, Losinski riuscì ad abbozzare un sorriso.

    «Ah sì, eh? E il tizio che abbiamo trovato di sopra?»

    Sergačev aggrottò la fronte.

    «Forse ha ucciso anche lui, prima di scendere.»

    L’amico scosse la testa, poco convinto. Riabbassò lo sguardo sul corpo senza vita e gli scostò un lembo della giacca. Un gesto automatico, prima di ricordarsi che stavano parlando di un morto. Fu allora che il suo occhio cadde sul documento che giaceva in terra, parzialmente nascosto. Afferrandolo dal bordo della custodia, lo sfilò da sotto il braccio del cadavere

    «Guarda» disse, mostrandolo a Sergačev. «È un passaporto interno.»

    L’altro allungò il collo, incuriosito.

    «C’è un lasciapassare?»

    «No, solo un permesso permanente. Intestato a un certo Igor Patrušev.»

    Sergačev si inginocchiò accanto a lui. Prese il documento e se lo rigirò tra le mani, mentre il compagno riprendeva a frugare il cadavere.

    Un permesso di residenza per la città di Mosca. Non dovevano essercene stati in giro molti, durante la guerra. Forse Patrušev era stato un ufficiale dei servizi informativi.

    O una spia.

    «Qui c’è qualcosa.» lo avvisò Losinski.

    Sergačev lo vide togliersi i guanti e tastare la giacca del morto. Ne aveva rivoltato un lembo, premendo sulla fodera interna fino a far emergere delle linee in rilievo.

    «Aspetta.» disse Sergačev, posando il documento.

    Sfilò il coltello dalla fondina e tagliò la cucitura lungo il bordo della fodera. La lama si aprì un varco nel tessuto, permettendogli di infilarvi la mano. Quando la ritrasse, stringeva un astuccio in cuoio. Lo aprì, tirò fuori un blocco di fogli ripiegati e li sparse davanti a sé.

    Impiegarono alcuni secondi per capire di cosa si trattasse. Si scambiarono un’altra occhiata, poi Sergačev si rialzò e tornò alla scrivania. Controllò l’ultima annotazione sul quadernetto, avvertendo un senso di agitazione crescente.

    «Ventinove dicembre del ’44» lesse. «Venti giorni prima della liberazione di Varsavia.»

    Losinski annuì, continuando a sfogliare i documenti.

    «Non c’è dubbio, questi sono… Oh, merda.»

    Lo sguardo di Sergačev saettò verso il compagno.

    «Che c’è?»

    L’altro scosse la testa, incredulo.

    «Vieni a vedere questa roba.» riuscì a dire, la voce ridotta ad un sussurro.

    Sembrava incapace di credere ai propri occhi. Sergačev tornò accanto al corpo e si unì a lui nella lettura. Il secondo incartamento non aveva niente a che fare con il primo, ma le informazioni che conteneva non erano meno importanti. C’era anche un secondo documento di identità. Il documento di un ufficiale delle SS.

    Un tonfo improvviso li fece quasi trasalire.

    Si voltarono di scatto, sporgendo lo sguardo fuori dalla porta. Il rumore era risuonato da un punto alle loro spalle, tra le file di casse che ingombravano il sotterraneo.

    «Cos’è stato?» chiese Losinski, lasciando cadere tutto quanto e mettendo mano alla pistola.

    Sergačev raccolse i fogli, cercando di dominare i nervi.

    «Calmati» disse. «Saranno i nostri.»

    Il tonfo si ripeté.

    Qualcosa di pesante era caduto su una di quelle casse. O si era lasciato cadere.

    «Merda, ma cos’è stato?» ripeté Losinski.

    Il suo volto era una maschera di cera, la fronte imperlata di sudore.

    «Usciamo» tagliò corto Sergačev, rialzandosi in piedi. «Torniamo di sopra.»

    L’altro non se lo fece ripetere. Abbandonando i corpi privi di vita, varcarono la soglia dell’ufficio e riattraversarono la parte del locale devastata dall’esplosione. Poi si infilarono nel passaggio tra le casse di munizioni, procedendo alla svelta.

    Un rumore sommesso, completamente diverso dal tonfo che avevano udito per ben due volte, ruppe improvvisamente il silenzio. Mischiandosi al suono dei loro passi, in crescendo. Come un rantolo gutturale e profondo.

    Sembrava il respiro stesso del diavolo.

    «Lo senti?» balbettò Losinski, sempre più pallido.

    Tutt’intorno, le poche lampade che si erano accese continuavano a tremolare nella penombra. C’era qualcosa, lì sotto con loro.

    Sergačev annuì, la bocca contratta in una smorfia.

    «Corri» lo spronò. «Non fermarti. Se…»

    Non riuscì a terminare la frase. Il suo occhio captò un movimento, nient’altro che un’ombra al margine del suo campo visivo. Poi l’ombra spiccò il volo e piombò addosso ai due uomini con violenza inaudita.

    Sergačev rotolò sul pavimento, sbattendo il mento e le ginocchia. La sua prima reazione sarebbe stata quella di rimettersi in piedi, ma per qualche motivo rimase sdraiato e strisciò in avanti.

    Il rantolo riecheggiò di nuovo.

    In preda al panico, il giovane ufficiale si sollevò su un gomito e si voltò. Losinski era rimasto indietro. Diversamente da lui, aveva cercato di rialzarsi e si era messo a sedere, voltandosi in direzione dell’ombra che li aveva atterrati. Ora i suoi occhi erano fissi in quelli del mostro.

    Il gigantesco felino ricambiò lo sguardo con aria arcigna e la parte superiore della bocca si sollevò, a scoprire le zanne affilate. Poi il rantolo si trasformò in ruggito e l’animale avanzò.

    Era una tigre siberiana di almeno due metri.

    Losinski alzò la pistola, ma la tigre gli si avventò contro e le possenti zampe lo inchiodarono al suolo.

    Sparale, pensò Sergačev, senza riuscire a parlare. Le urla del compagno gli lacerarono la mente, impedendogli di reagire. Poteva estrarre la propria arma e fare fuoco, ma rimase immobile.

    «Dmitrij!» gridò ancora Losinski, un attimo prima di soccombere.

    Si dibatteva furiosamente, mentre gli artigli gli scavavano dei solchi nella carne. Le maniche della giacca e dell’uniforme erano già intrise di sangue.

    Sparale, sparale.

    Poi le zanne della belva si aprirono la strada fino alla sua gola e si serrarono. Le sue grida si spensero di colpo, la sua schiena si irrigidì e la lotta cessò. Sergačev osservò il corpo dell’amico che si accasciava al suolo, mentre la vita lo abbandonava.

    Gli occhi della tigre si spostarono su di lui.

    Aveva le fauci ancora strette attorno alla gola di Losinski, la peluria chiazzata di goccioline rossastre. Sparì con un balzo, trascinandosi dietro il corpo dell’ufficiale e tornando a nascondersi tra le ombre del sotterraneo.

    Sergačev si scosse di colpo. Come se una scarica elettrica lo avesse attraversato, si rialzò, indietreggiò sulle gambe malferme e corse via. Il silenzio venne rotto da un nuovo ruggito, ma ormai era proiettato in avanti. Raggiunse la scala senza più voltarsi e si arrampicò su per i pioli come un forsennato.

    «Compagno colonnello!» esclamò uno dei soldati, vedendolo ricomparire.

    «Cos’è successo, compagno colonnello?» indagò l’altro.

    Dovevano aver sentito le urla di Losinski, ma si erano ben guardati dal muoversi.

    «Via, via!» rispose Sergačev.

    Era troppo terrorizzato per badare a qualsiasi altra cosa che non fosse il rantolo di quella bestia feroce. Sentiva il suo fiato sul collo, come se fosse ancora dietro di lui.

    «Bruciate tutto.» aggiunse solamente, tornando in superficie.

    «Cosa? Ma…»

    «Chiudete quel buco e bruciate tutto.»

    I due commilitoni si scambiarono un’occhiata, poi il più vicino mise mano a una granata, tolse la sicura e la gettò nella botola. L’esplosione risuonò in modo distorto, facendo tremare le tavole di legno della baracca.

    Sergačev la udì appena, gli stivali che tornavano a sprofondare nella neve. Arrancò fino al camion e agitò un braccio per richiamare il resto degli uomini.

    «Attenti!» urlò qualcuno.

    A pochi metri dalla baracca, una forma flessuosa saltò fuori dalla neve. Il manto striato della tigre balenò sul tappeto bianco, mentre decine di colpi di fucile esplodevano in contemporanea.

    «Via, andiamo via.» ordinò Sergačev, senza neanche voltarsi.

    I soldati spararono qualche altro colpo all’indirizzo dell’animale in fuga, poi si riunirono attorno al veicolo di testa. L’autista riaccese il motore e gli uomini risalirono a bordo. Pale e fucili ricaddero sul fondo del cassone con un clangore metallico.

    «Aveva ragione, compagno colonnello» disse un giovane sergente, aprendosi un varco nella calca. «Abbiamo trovato il sentiero.»

    Sergačev annuì a malapena. Pensava ancora alla tigre, quel mostro famelico emerso dalle tenebre. Li aveva lasciati entrare nel sotterraneo rimanendo nascosta fino all’ultimo e tagliando loro la via di fuga.

    Ecco perché non c’erano lupi nei dintorni.

    «Dov’è il maggiore Losinski?» chiese qualcuno.

    Sergačev non rispose e ai suoi uomini non restò che scambiarsi occhiate lugubri, mentre il camion ripartiva.

    Poi l’intera colonna si rimise in moto, lasciandosi alle spalle la radura e addentrandosi nella foresta.

    Alcune ore più tardi, Sergačev aprì la giacca e abbassò gli occhi sui documenti che aveva raccolto. Le pagine erano sporche e stropicciate, ma il contenuto risultava chiaramente leggibile. Guardò i soldati che sonnecchiavano attorno a lui, poi rilesse tutto l’incartamento.

    Quando la tigre si era lanciata addosso a Losinski, aveva fatto una scelta. Aveva scelto di infilare quei documenti sotto la giacca, rinunciando ad estrarre la pistola. Quei fogli erano costati la vita del suo migliore amico, ma allo stesso tempo poteva trarne un grande vantaggio.

    Non sapeva ancora come avrebbe fatto, ma si rendeva conto delle possibilità. Se avesse giocato bene le proprie carte, non avrebbe più avuto bisogno dell’aiuto di nessuno.

    Sarebbe stato quell’incartamento ad assicurargli la carriera.

    1.

    21 agosto 2001

    La maschera antigas le premeva sul viso come una seconda pelle. Era collegata alle bombole con un tubo che si dilungava oltre la sua spalla sinistra, per lasciare libera la destra. La valvola convogliava il respiro all’esterno, ma le lenti erano rigate e ossidate. Era come osservare il mondo attraverso due oblò incrostati di sale.

    «Prima squadra pronta.»

    Quel pomeriggio, il mondo girava attorno a un’abitazione nella periferia di Atlanta. Una casa a due piani, la facciata verniciata di bianco e le finestre serrate. Restituivano un’immagine opaca del cortile, il fondo cosparso di erbacce.

    «Seconda squadra pronta.»

    C’erano molte altre case, lì attorno. Si susseguivano ai lati della strada, ostinatamente, più o meno tutte identiche.

    Solo che le altre case non erano state circondate dalla polizia.

    «Fermi!» gracchiò improvvisamente una voce. «Rimanete ai vostri posti.»

    Gli assaltatori imprecarono tra i denti. Uno di loro imprecò più forte degli altri e diede un pugno alla fiancata del suv.

    Joey appoggiò un ginocchio a terra e si tolse sia l’elmetto che la cuffia. Ciocche di capelli biondi ricaddero sulla maschera che le copriva il volto. Cercò di domarli, approfittando della pausa per recuperare l’elastico. Si erano preparati a entrare per due volte ed entrambe le volte avevano dovuto interrompere l’azione all’ultimo.

    «Ma cosa aspettano?» mormorò uno dei suoi compagni.

    «Non ci pensare» replicò un altro. «Almeno là dentro avranno il tempo di preparare il caffè.»

    «Al diavolo.» aggiunse un terzo.

    Cominciavano a dare segni di nervosismo. La colpa era di quelle dannate tute NBC. Tute anticontaminazione, dotazione standard contro il rischio biologico. Non proprio l’ideale dopo un’ora di attesa sotto il sole, con una temperatura che sfiorava i trenta gradi.

    Joey spostò lo sguardo sulle auto della polizia. Bloccavano la strada in entrambi i sensi, a formare un perimetro sicuro. Gli agenti erano appostati dietro alle portiere e tenevano le pistole puntate contro la casa. Oltre lo sbarramento, alcuni ufficiali parlottavano con degli uomini in abito scuro. Sostavano in piedi, accanto ad un veicolo privo di contrassegni.

    L’agente speciale inviato dall’ufficio territoriale di Atlanta sedeva al posto del passeggero. Stava parlando al cellulare, mentre con la sinistra reggeva il ricevitore della radio. Era stato lui a dare l’ordine di irrompere e, successivamente, il contrordine. Mezz’ora prima, i ragazzi del CNU avevano aperto un canale di comunicazione con gli uomini all’interno della casa. Non sembrava che ne avessero ricavato un granché, ma per qualche motivo lui era ancora al telefono.

    «Quello gli sta raccontando la storia della sua vita.» mormorò lei, unendosi ai borbottii dei compagni.

    «Joey, rimettiti l’elmetto.»

    I suoi occhi incrociarono quelli del caposquadra. Wesley Hoyt, un omone di centodieci chili per un metro e novanta di altezza. Era in testa alla fila, accovacciato dietro al fanale di coda del suv. Il fatto che i suoi si lasciassero andare a commenti liberatori non lo disturbava, ma lei aveva assecondato i compagni per

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