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La Mente in Ayurveda: I fattori che determinano il destino di un individuo
La Mente in Ayurveda: I fattori che determinano il destino di un individuo
La Mente in Ayurveda: I fattori che determinano il destino di un individuo
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La Mente in Ayurveda: I fattori che determinano il destino di un individuo

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Il sé è più piccolo del piccolo, e può essere facilmente trascurato, messo da parte. È bisognoso d’aiuto, e deve essere percepito, protetto e in un certo qual modo costruito dalla coscienza, quasi che prima non esistesse del tutto e nascesse alla vita solo grazie alla cura e alla dedizione dell’uomo.
In contrasto con ciò, l’esperienza insegna che il Sé è già da molto tempo presente ed è più antico dell’Io, e che rappresenta il segreto spiritus rector del nostro destino. Il Sé in quanto tale non diventa eo ipso (da se) cosciente, ma è sempre stato insegnato, se mai lo è stato, da una tradizione, da un sapere….
Perciò come ogni altro archetipo, non può essere localizzato, confinato nell’ambito della coscienza dell’Io, ma si comporta come una atmosfera che circonda l’uomo senza limiti spaziali ne temporali ben definibili… (C.G. Jung).
All’interno della visione della mente nella Scienza vedica, l’autore enfatizza il valore dei determinanti quantistici preconcezionali che costituiscono quella “memoria olografica” quale campo morfogenetico che al livello del DNA determina l’espressione fenotipica, temperamentale, e il progetto esistenziale dell’individuo all’interno di un flusso coscenziale ben definito.
LanguageItaliano
Release dateMar 29, 2018
ISBN9788863654615
La Mente in Ayurveda: I fattori che determinano il destino di un individuo

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    La Mente in Ayurveda - Bruno Renzi

    via.

    PREFAZIONE

    Uno degli incontri fondamentali della mia vita è stato quello con Clara Mancini. Clara è stata la mia insegnante di meditazione trascendentale e mi ha introdotto nel mondo della filosofia orientale e della conoscenza vedica.

    Iniziai a meditare intorno al 1979. Ricordo che pochi anni dopo, un pomeriggio, Clara mi sventolò sotto gli occhi un foglietto di carta: era un invito, rivolto ai medici occidentali, a frequentare il primo corso full time, di dodici mesi, in medicina ayurvedica. Era esattamente il 1982.

    Provenivo da una formazione medica ortodossa e, sino ad allora, non avevo mai sentito parlare di medicine non convenzionali: quindi, non avevo la più pallida idea di cosa fosse la medicina ayurvedica, se non che rappresentasse la medicina tradizionale indiana, una medicina caratterizzata dall’approccio olistico all’individuo; in sostanza, non ne sapevo nulla.

    Avevo una vita professionale già decisamente avviata e pensavo che fosse praticamente impossibile potersi sganciare dall’ospedale e dal centro che dirigevo, ma oggi posso comprendere che spesso la traccia della nostra esistenza è già ben determinata nei recessi più profondi della nostra anima e nella nostra infinita linea evolutiva.

    Altre volte, nella mia vita, eventi apparentemente casuali avevano rappresentato dei punti di svolta o, se vogliamo, indicazioni finalizzate a perseguire una strada tracciata da parti profonde dell’essere: questo avvenne esattamente in questa circostanza, poiché, seguendo un desiderio ispirato e non del tutto razionale, decisi di partire per gli Stati Uniti per frequentare questo corso. Riuscii perfino a ottenere una posizione di comando presso la Maharishi International University con lo scopo di approfondire le correlazioni tra i princìpi di base della medicina ayurvedica e le neuroscienze; ero l’unico italiano di un gruppo molto piccolo di sette medici.

    Seguirono dei mesi non semplici di adattamento a un sistema di vita e di studio completamente diverso da quello che avevo conosciuto in Europa, ma comunque stimolante: quello che doveva essere un periodo di approfondimento di un sistema di medicina alternativo, di fatto, costituì la più bella esperienza della mia vita sia per la conoscenza acquisita che per la struttura di lavoro a cui Maharishi Mahesh Yogi ci sottopose.

    Questo periodo di studio e le esperienze di vita vissuta per sedici mesi – il corso, infatti, si protrasse ulteriormente – trasformarono profondamente la mia visione dell’esistenza. Ancora oggi, quel processo di cambiamento non è cessato, ma si è trasformato in un processo evolutivo continuo.

    Inizialmente non mi resi conto di quanto profondo fosse tale processo di cambiamento: il seme che era stato innestato avrebbe dato i suoi frutti progressivamente nel tempo. Di certo ricordo che, quando tornai in Europa, la mia visione dell’uomo, come medico, era cambiata divenendo molto più estesa: l’attenzione non era più limitata a processi biomolecolari, ma si era estesa a campi molto più vasti.

    In quegli anni esisteva ancora una forte scissione fra il mondo psichiatrico a orientamento psicodinamico e il mondo dell’ortodossia medica, di indirizzo prevalentemente biologico. Dopo tale esperienza, la scissione in me divenne ancora più profonda e avevo difficoltà a integrare le conoscenze che avevo acquisito con il mondo della medicina istituzionale in cui ero inserito.

    Mi resi conto che non era facile introdurre certi concetti, che sembravano prettamente esotici, all’osservatore e all’uomo occidentale. Così seguì un periodo iniziale di silenzio e poi una seconda fase, in cui io e altri professionisti aprimmo la strada all’inserimento e alla diffusione delle medicine non convenzionali, tentando di far comprendere l’importanza che avrebbe avuto un lavoro di integrazione. Tutti gli anni Novanta furono spesi nella divulgazione e nel porre l’enfasi sulla promozione della salute e sull’idea della possibile integrazione delle medicine non convenzionali con la medicina allopatica.

    Nel 2002 ebbi anche la determinazione di avviare il primo Centro di Medicina Psicosomatica e Funzionale Integrata, che integrava princìpi di base e metodologie ayurvediche nel trattamento dei disturbi psicosomatici, all’interno di una struttura pubblica di grande rilievo come l’Ospedale Polo Universitario Luigi Sacco di Milano: questo centro ha rappresentato la prima esperienza in Italia di integrazione di una medicina non convenzionale all’interno di una struttura pubblica; era, quindi, un’esperienza pilota e innovativa.

    Presso questo centro avevo creato una piccola équipe di lavoro: ci occupavamo sostanzialmente, in modo innovativo, di disturbi psicosomatici o disfunzionali in una nuova ottica di educazione alla salute; in sostanza, ci interessava rimettere in equilibrio la fisiologia delle persone attraverso un approccio integrato e abbandonando la logica della terapia sintomatica che tendeva a cronicizzare le disfunzionalità presenti. Il nostro obiettivo era la promozione della salute e la riorganizzazione funzionale della fisiologia, determinando un naturale e fisiologico miglioramento con la scomparsa dei sintomi.

    Non desidero entrare nei dettagli – per altro complessi e articolati – delle procedure che utilizzavamo, poiché non pertinenti a questo lavoro, ma nel periodo in cui ebbi modo di dirigere quel centro abbiamo trattato quasi duemila pazienti e circa il 60% delle persone trattate ha avuto sensibili miglioramenti o addirittura la scomparsa dei disturbi.

    Avevo deciso di utilizzare solo parzialmente le conoscenze ayurvediche nelle procedure integrate che avevo creato, poiché altre metodologie più sostanziali non erano ammissibili all’interno di una struttura pubblica: non sarebbero state comprese né erano percorribili dal punto di vista amministrativo.

    Avevo avuto modo di studiare, nel periodo in cui avevo lavorato per il MIU (Maharishi International University), anche la sezione riguardante l’impostazione e il trattamento delle patologie mentali: nel nostro percorso formativo avevamo coperto una buona parte della conoscenza ayurvedica tranne la sezione riguardante le patologie mentali, il Bhuta Vidya; essendo psichiatra, questa sezione per me era di fondamentale importanza e, quindi, decisi di approfondirla attraverso degli studi personali.

    Inizialmente non avevo fatto attenzione a questa mancanza, forse perché lo studio della medicina ayurvedica è talmente vasto che non poteva essere coperto esaustivamente in un periodo di tempo così breve; in genere la formazione in medicina ayurvedica nelle università indiane viene effettuata in sei anni con percorsi residenziali.

    In un secondo momento, mi resi conto di una certa reticenza nell’affrontare il Bhuta Vidya da parte dei vaidya, i medici ayurvedici che erano i nostri maestri: reticenza in parte dovuta al disinteresse rispetto alla patologia mentale e in parte alla mancanza di un reale approfondimento della conoscenza in quel campo.

    Sebbene il Bhuta Vidya sia considerata normalmente come la psichiatria ayurvedica o come la medicina psicosomatica, il termine bhūta fa riferimento alle diverse dimensioni dell’esistere: in particolare, si riferisce all’esistenza degli esseri invisibili, o spiriti, in un’accezione comune e normalmente intesa sia dal vaidya – medico ayurvedico o colui che conosce – che dai cultori dell’Āyurveda in Occidente.

    In quanto scienza degli spiriti, rimaneva e rimane tuttora poco comprensibile agli occhi della medicina occidentale e, per tale motivo, questa sezione dell’Ayurveda è poco nota, poco studiata e poco divulgata in ambito medico; gli stessi vaidya, pur essendone a conoscenza, tendono a non correlare le patologie a questa dimensione.

    Suśruta descrive in tal modo il Bhuta Vidya: "Prende il nome di Bhuta Vidya quella sezione dell’Ayurveda che ha come proposito la cura, mediante riti di pacificazione, offerte, rituali eccetera delle possessioni da parte di entità catturatrici quali Deva, Asura, Gandharva, Yakṣa, Rākṣasa, Pitr, Pisaca, Naga eccetera." (S.S. sut. 1. 8.)

    Ho deciso di descrivere in questo lavoro la complessa visione ayurvedica della mente nella sua più profonda natura e mi riservo di estendere in un secondo momento l’approfondimento dei dettagli della nosografia ayurvedica rispetto alla patologia mentale e la classificazione delle varie metodologie di cura. Nella descrizione della complessità della mente, utilizzando una chiave di lettura neuropsicofisica, comprenderemo come l’individuo nella sua dimensione biopsicofisica possa entrare in risonanza con dimensioni diverse dell’esistere che non sono solo quelle immediatamente percepibili e comprensibili con i nostri sensi.

    La risonanza si verifica nei confronti di complessi vibrazionali che possono avere una loro autonomia e che possono creare disfunzionalità all’interno della realtà biopsicofisica dell’individuo: questi complessi vibrazionali possono essere di diversa natura e avere una loro caratteristica specifica; possono persistere all’interno della mente individuale, assumendo un potere invasivamente destrutturante sul funzionamento fisiologico della mente.

    La visione energetica od olografica dei complessi vibrazionali costituirà, come vedremo, una possibile comprensione del Bhuta Vidya, nel tentativo di rendere attingibile a una mente occidentale la scienza degli spiriti comunemente accettata in un contesto culturale che fa riferimento a diversi millenni or sono.

    Avevo una certa consapevolezza di quanto premesso e pensavo che questo argomento potesse essere compreso all’interno di studi antropologici o storico-filosofici riguardanti la conoscenza ayurvedica. Solo recentemente – intendo negli ultimi anni – ho maturato l’idea di presentare a un lettore occidentale e ai medici che hanno avuto una parziale formazione in medicina ayurvedica la concezione della mente in Ayurveda, nonché secondariamente un approfondimento rispetto alla visione delle patologie mentali dal punto di vista ayurvedico.

    Sottolineo che questa scelta è avvenuta di pari passo con una serie di esperienze evolutive recenti, che mi hanno consentito di avere una visione della complessità dell’essere umano: tali esperienze sono state illuminanti, costituendo dei tasselli mancanti che mi hanno permesso di avere un quadro più completo e più comprensibile del tema che affronterò in questo lavoro.

    L’intenzione principale è quella di presentare una visione dell’uomo nel sistema di riferimento vedico, in cui l’essere umano ha una sua progettualità evolutiva strutturata all’interno di linee esistenziali flessibilmente definite; un individuo inserito in un ciclo evolutivo cosmico eterno, in cui l’aspirazione prevalente è ritornare a immergersi nella sostanza originaria.

    La coscienza è prioritaria ed è la realtà senziente che organizza un eterno sogno cosmico di creazione e dissoluzione. Ogni dimensione configurata percorre questo ciclo all’interno di quella eternità che è. La mente e la psicopatologia ayurvedica sono un riflesso, semplicemente un riflesso, di questo gioco cosmico e in questo senso devono essere intese: come realtà qualificate che si reificano nella capacità percettiva dell’essere umano; esse, però, sono solo una dimensione possibile, coesistente insieme ad altre prospettive possibili. Il gioco di Dio ha infinite forme.

    Gli studiosi che si sono occupati di testi vedici o di conoscenza vedica si sono sempre trovati ad affrontare una scelta metodologica nell’impostazione e nel progredire del loro lavoro: attenersi alla traduzione letterale del testo, che va compreso nella matrice storico-culturale del periodo in cui esso è stato redatto, oppure tentare delle chiavi interpretative nella ricerca delle corrispondenze fra i princìpi e l’impostazione metodologica della medicina ayurvedica e la medicina dei nostri giorni.

    Nella stesura di questo lavoro ho scelto di non attenermi all’ortodossia, ma l’utilizzo di un’adesione letterale ai testi diviene stimolo anche per alcune riflessioni sulla visione dell’essere umano; riflessioni personali, comunque, non molto distanti da alcune impostazioni filosofiche ben note al mondo occidentale.

    Sono consapevole del rischio di allontanarmi dalla purezza dell’insegnamento che è connesso anche alla struttura linguistica del sanscrito, ma, come accennato prima, la mia intenzione non è quella di una mera registrazione e traduzione dei testi classici, bensì quella di poter creare un ponte, una chiave di lettura interpretativa, utile per il lettore occidentale; è comunque una visione che ha la funzione di stimolare ulteriori approfondimenti e ricerche.

    Inizialmente affronterò in questo lavoro la concezione della mente in Ayurveda, costruendo un mosaico che comprende le radici storiche e filosofiche di tale concezione, nonché una visione cosmogonica basilare per la comprensione di tale concetto. Quindi, descriverò il valore basilare della coscienza con una chiave di lettura fisico-quantistica, ma anche la natura della mente in Ayurveda, la struttura della personalità e i fattori che intervengono nella determinazione di tale struttura; le determinanti quantistiche del temperamento e il rapporto fra struttura di personalità e progetto esistenziale.

    In un secondo lavoro affronterò la patologia mentale secondo la nosografia ayurvedica con riferimenti alla nosografia occidentale; approfondirò le metodologie terapeutiche con indicazioni relative ad alcune preparazioni ayurvediche che vengono usate nel trattamento di tali patologie, nonché la descrizioni di una serie di terapie rituali che comunque vengono descritte nei testi classici.

    Mi scuso sin da ora per l’incompletezza di alcune sezioni e per la complessità dei princìpi presentati, ma l’essere umano, nella visione radicata nella conoscenza vedica, è profondamente complesso, costituendo una configurazione unica all’interno della totalità infinitamente dinamica che è il Brāhman.

    1.  INQUADRAMENTO STORICO DELL ’AYURVEDA

    La storia della medicina è storia e medicina al tempo stesso: come storia deve dare un ordine cronologico e specificare date e periodi ben definiti riguardanti i grandi pensatori nell’ambito della conoscenza medica e delle pratiche mediche; come medicina, deve rappresentare il graduale dispie-garsi delle idee che si sono strutturate a partire dalle credenze più antiche.

    Si dovrebbe trattare di una transizione graduale, o radicale, da una fase a un’altra: dai primi concetti della medicina fino alla scoperta e all’utilizzazione delle piante, dei prodotti animali e minerali; un sistematico studio e osservazione dei processi dell’organismo umano sia in condizioni di salute che in uno stato di malattia. Oggi è lecito chiedersi se, nonostante lo studio degli storici e orientalisti, si sia nella posizione di compilare un quadro della storia della medicina in India.

    La risposta è purtroppo negativa e le ragioni di questa condizione sono molto varie: la prima di queste è che la storia della medicina è parte della storia nazionale e regionale e, finché la cronologia della storia politica e culturale dell’India non verrà del tutto definita, non sarà possibile tentare una descrizione dell’evoluzione della medicina all’interno della storia indiana, per quanto la medicina, la scienza e la filosofia siano importanti, essendo un aspetto della vita totale dell’intera vita nazionale.

    Le difficoltà incontrate in ogni tentativo di scrivere una storia dell’evoluzione della medicina in India sono state pienamente considerate da Castiglioni nel suo lavoro intitolato Storia della medicina, nel capitolo dedicato alla medicina persiana e indiana: non vi è nulla di certo prima del 326 a.C., cioè prima dell’invasione di Alessandro Magno, né vi sono attestazioni storiche attendibili di qualsiasi altro aspetto storico che risalgano a un periodo antecedente il VI secolo a.C., ossia al periodo che fa riferimento al Buddha.

    Gli storici affermano che molto del materiale in nostro possesso – quali le tavole, le iscrizioni in pietra e i resti trovati negli scavi – neces-siti ancora di un’esatta collocazione storica da parte degli esperti, mentre l’unica risorsa a cui possono fare riferimento è rappresentata dai testi religiosi dei Veda – soprattutto la sezione dei Brāhmaṇa, cioè quella dei commentari alle quattro Saṃhitā – e dai Purāṇa, ovvero dei testi sacri hindū destinati all’educazione religiosa degli appartenenti alla casta più infima e delle donne, a cui era proibito l’accesso allo studio dei Veda.

    L’India è stata soggetta a invasioni straniere di epoca in epoca e molto materiale di valore – sotto forma di opere letterarie, editti, iscrizioni, pitture e altre forme artistiche – è stato distrutto o depredato.

    Quest’aspetto è ancora più accentuato, se si parla di medicina ayurvedica: larga parte della letteratura antica e del materiale appartenente alle varie branche della medicina è andato perduto durante le invasioni e le dominazioni straniere, determinando l’oblio di buona parte della conoscenza medica.

    Così la medicina vedica è stata lungamente offuscata all’interno di un processo di decadenza della cultura indiana: se, da un lato, poco è stato fatto per il recupero e la preservazione di questa conoscenza, dall’altro osserviamo una cieca accettazione di tutta la conoscenza tramandata, senza alcuna analisi o validazione in relazione alle varie asserzioni; nello stesso tempo sono stati effettuati degli approcci superficiali e spesso parziali, che ne hanno determinato la non accettazione.

    È compito degli storici e degli studiosi dell’Ayurveda tentare una ricostruzione fedele della storia della medicina indiana e della sua prima evoluzione, enfatizzando la sua validità di allora, di adesso e di sempre.

    Gli scavi di Mohenjo-daro e Harappa hanno riportato indietro di migliaia di anni gli studiosi, riconducendoci a un periodo precedente rispetto a quello a cui abbiamo fatto risalire i primi cenni storici; essi hanno riportato alla luce ampie strade, acquedotti, fognature, bagni e altre caratteristiche sanitarie della vita domestica e civica, rivelando un senso della salute e della sanità altamente sviluppato. È naturale supporre che un tale senso civico, sanitario e domestico fosse basato e sup-portato da una conoscenza in campo medico non affatto inferiore.

    Le innumerevoli iscrizioni, tavole e il materiale che attende di essere analizzato e decifrato produrranno ricchi risultati pertinenti alla saggezza medica raggiunta da quella civiltà.

    Lo studio dei Veda può rappresentare una fonte preziosissima per la ricerca medica che potrebbe portare alla luce materiale di notevolissimo valore in campo clinico: l’Atharvaveda assume un particolare significato in questo contesto.

    In India alcune pratiche terapeutiche e alcune formulazioni e processazioni dei fitocomplessi vengono tramandate oralmente lungo linee generazionali dei vaidya: questa conoscenza non è strutturata in alcun documento o Saṃhitā.

    Esiste un variegato campo di medicina sacerdotale, magica ed empirica – corredato anche da particolari manipolazioni oftalmiche, chirurgiche e mediche antiquate, ma spesso efficaci – che può essere opportunamente studiato, compreso e incorporato nella storia della medicina.

    La letteratura del periodo postvedico – i Brāhmaṇa, i Tantra, il Rāmāyaṇa, il Mahābhārata e i Purāṇa – contiene, così come la letteratura dei tempi classici, innumerevoli riferimenti e argomenti medici che devono ancora essere analizzati e codificati; anche la letteratura del Buddhismo e del Jainismo è una fonte fertile di informazione per la storia della medicina.

    I monumenti antichi – sotto forma di iscrizioni, tavole di pietra e lamine di metallo – sono una fonte produttiva: gli editti di Aśoka, che raccolgono gli editti di Dario il Grande sulla roccia di Behistun, in Persia, contengono riferimenti a conoscenze di tipo medico e a regolamenti sanitari, oltre a enfatizzare l’attenzione verso la sofferenza correlata ad alcune malattie, nonché l’utilità degli ospedali.

    Molto materiale di un certo valore potrebbe essere raccolto da queste e altre fonti come pitture e altre forme artistiche, quali fregi, affreschi e icone, che sono ancora conservati in caverne e templi: si pensi ad Ajanta, a Ellora e ad alcuni stūpa buddhisti di Amaravati e Nagarjunakonda, che contengono molto materiale di notevole interesse per la ricerca storica in campo medico.

    Altra fonte ricchissima è rappresentata dalla letteratura medica in sanscrito: facciamo riferimento ai vernacoli, le tradizioni orali e gli scritti folkloristici, come anche ad alcuni proverbi. Inoltre, si può attingere anche dalla letteratura medica dei paesi confinanti e dalla letteratura generale, come le memorie di viaggiatori in transito e di pellegrini dei paesi circostanti, con i quali l’India ha avuto contatto sin dai tempi più antichi.

    Alcune pitture e sculture nei templi e nelle tombe, raffiguranti gli dèi e le dee pertinenti alla medicina o quelli che impersonavano malattie, sono utili oggetti di ricerca.

    Abbiamo così varie rappresentazioni di Dhanvantari, Pūtanā e altre rappresentazioni allegoriche di affezioni di vario tipo o rappresentazioni di Hārītī, dea e angelo protettore dei bambini. Una statua di questa dea è stata ritrovata a Sehri-Bahlol ed è attualmente presente nel museo di Peshawar; si ritiene che Hārītī sia la consorte di Kubera, il dio della salute.

    Certamente non possono essere trascurati altri studi riguardanti altre scienze come l’astronomia, le scienze politiche, lo studio dei metalli e della botanica e anche la conoscenza degli effetti delle pietre preziose o la gemmologia: aree che gettano una vasta luce su altri aspetti della medicina.

    Lavori come il Brihat Jataka, il Rasa Shastra (processazione dei metalli al fine di produrre formulazioni terapeutiche) sono ancora disponibili e contengono riferimenti medici, dai quali la ricerca si aspetta di scoprire un completo significato.

    Si ritiene che, se queste fonti fossero state analizzate con lo scopo di fare ricerca finalizzata alla storia della medicina, avremmo ottenuto una visione adeguata dell’evoluzione della medicina in India sin dai tempi più antichi, con il ritorno alla civilizzazione della valle dell’Indo, oltre alla possibilità di riunire date sparse in un unico ordine cronologico.

    Quest’indagine consentirebbe di uscire da una dimensione di mistero, dalle leggende pittoresche e dai miti. È interessante notare come Castiglioni, nel suo volume della storia della medicina, osservi che l’India offre tutte le attrazioni di un largo e meraviglioso museo, nella medicina come in altri campi: le pratiche magiche delle persone primitive, il culto delle pietre e degli alberi, la credenza in amuleti e portafortuna, l’esistenza di medici viaggiatori e dottori ambulanti di formazione greca, scolastica, dogmatica, nonché le più moderne specializzazioni che si trovano nell’attuale pratica medica.

    Tutte le varie fasi dell’evoluzione della scienza, della medicina, della pratica istintiva, empirica, magica, religiosa, sacerdotale, metafisica e scientifica sono rappresentate in questo paese.

    Nonostante tutto quello che abbiamo affermato, per quanto riguarda la determinazione degli aspetti cronologici, non si ha nessun riferimento che ci guidi nell’excursus rispetto ai cenni storici della medicina in India, a parte l’invasione di Alessandro e il tempo del Buddha.

    Così come vedremo in seguito, i grandi vaidya della medicina, quali Bharadwaja, Atreya, Divodosa e Suśruta, sono anteriori a Buddha e al Mahābhārata; alla luce della storia tradizionale del popolo indiano, non si possono dare delle date esatte riguardo al periodo in cui essi operarono.

    Gli scavi della valle dell’Indo rivelano la probabilità di un lungo e intenso periodo di civilizzazione e di progresso degli studi di medicina, così come si può dedurre dai documenti della conoscenza vedica. È proprio in quel periodo che, in concomitanza con i rituali sacrificali, le assemblee e le speculazioni a esse associate, emerse un metodo sistematico e razionale di esposizione della medicina e della filosofia. Questo è conosciuto come il grande periodo brāhmaṇa della filosofia o anche periodo saṃhitā, periodo della codificazione sistematica della medicina.

    Questo periodo potrebbe essere correttamente definito come l’era della medicina in India: l’Ayurveda in seguito raggiunse la sua fase di maturità, emergendo da una dimensione ritualistica caratterizzata dall’uso di farmaci semplici, incantesimi e riti magici e organizzandosi come scienza della salute.

    Questo periodo durò dal tempo di Atreya sino alla fine del VII secolo d.C., protraendosi quasi fino all’inizio dell’invasione musulmana dell’India.

    Questo millennio fu il periodo di maggiore prosperità dell’Ayurveda: l’età d’oro della storia medica dell’India, paragonabile a quella di Ippocrate e Galeno in Occidente. A questa fase seguirono secoli bui di stagnazione, trascuratezza e decadenza: i testi originali caddero in disuso e le nobili professioni del chirurgo e del medico vennero discreditate; grazie al lavoro di alcuni commentatori, come Mādhava, Chakrapani, Sargandhara e Bhavamishra, la purezza delle tradizioni e della conoscenza fu preservata in questo periodo di oblio.

    È necessario ricordare che, al tempo di Mādhava, il grande impero Vijayanagar del Sud era il baluardo della cultura sanscrita e della scienza. Il grande commentario vedico di Sāyaṇa e quello nidāna di Mādhava indicano una rinascita delle tradizioni vediche nella filosofia, nella scienza e nell’arte. L’evoluzione della scienza vedica nel Sud si strutturò in quel corpo di conoscenze noto come Siddha; quest’ultimo, con altre tradizioni culturali dell’area meridionale, aveva ricevuto uno stimolo dai governatori dell’impero dei Vijayanagar ed è proprio grazie alla persistenza di quest’ultimo e alla spinta rinascimentale operata da questi governatori che, ancora oggi, possono riscontrarsi tracce delle antiche pratiche della medicina Siddha e delle tradizioni locali di Agastya (Ṛṣi Agastya).

    Questo rinascimento ebbe breve vita e il suo sviluppo cessò con il diffondersi dell’oscurità e dell’instabilità politica in India durante il periodo della dominazione musulmana e delle successive vicissitudini dei Moghul, dei Marāthā e delle progressive intrusioni delle compagnie delle Indie orientali.

    Con il successivo insediamento del governo britannico, la scienza, la cultura e la medicina furono patrocinate dallo Stato e furono eliminati tutti i tentativi di recupero del sistema di medicina indiano.

    Soltanto nell’ultimo periodo della dominazione britannica l’Ayurveda fu riconsiderata sia dai governanti che dai governati, in parte come risultato degli studi degli orientalisti occidentali e in parte per la crescita dello spirito nazionalista e il rinascimento culturale in India.

    Con il raggiungimento della piena indipendenza, l’India ha ritrovato se stessa e ha dovuto fare le sue scelte: si configuravano, da un lato, il richiamo imperativo dello spirito della scienza in ogni cuore desideroso di migliorare seguendo lo stimolo di confronto con le altre nazioni del mondo; dall’altro, l’attaccamento a un passato glorioso, ma apparentemente in disarmonia con quello che comunemente veniva considerato valido e ragionevole.

    Oggi noi ci confrontiamo con un mondo modellato sullo spirito della scienza sperimentale, analitica nel metodo e verificabile solamente con i metodi di laboratorio, che non tollera astrazioni che non possono essere messe in provetta, per quanto valide esse possano apparire; la difficoltà del compito, però, è ridimensionata, quando ci ricordiamo che fra noi e l’era vedica c’è stato un periodo di sperimentazione e ricerca secondo a nessuno nella storia della medicina e, cioè, la fase scientifica della medicina in India. L’istinto è la prima compulsione che l’organismo animale sente nella scelta di ciò che è buono e benefico per la sua sopravvivenza e per la sua protezione; nei primi uomini ciò si sviluppò all’interno di una facoltà più alta, chiamata intuito.

    I sostenitori dell’Ayurveda sapevano che la capacità protettiva era strutturata nella vita stessa e acquisiva varie espressioni nella pianta, nell’animale e nell’uomo, in rapporto alle diverse esigenze: la pianta sviluppa le sue spine e uno spesso rivestimento per proteggere la sua vulnerabilità; gli animali e gli uccelli conoscono, tramite l’istinto, quale particolare azione o cosa possa aiutarli a superare un’afflizione e, allo stesso modo, l’uomo primitivo vedeva naturalmente, con lo sguardo della mente, la misura e le cose che lo risollevavano dalle sofferenze.

    Nel Charaka si afferma che non c’è mai stato un periodo in cui l’Ayurveda non fosse esistita: Il corso della vita trascinava nelle sue correnti il suo stesso sostentamento e la saggezza protettiva, che divenne manifesta all’inizio di ogni ciclo del tempo e ai profeti. In questo senso si

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