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Acqua Sporca
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Acqua Sporca

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About this ebook

“In Giappone, se un oggetto si rompe, non lo buttano via. Lo riparano. Non troverai al mondo un altro vaso identico a questo."                                                                                                                                                                                                   “È bellissimo” riesco a dire, dopo qualche istante.
“Bellissimo non direi. È bella la metafora che rappresenta. Tutto quello che è rotto può essere aggiustato... anche le persone”.

Basta un’istante perché tutto vada in frantumi e si trasformi in tormento. Manuela, diciotto anni, ha un solo desiderio: trascinarsi dietro i suoi pezzi rotti e farlo in silenzio. 
Trascorre le sue giornate ingabbiata nello stesso luogo, nel medesimo istante, il brandello di un incubo che non passa mai. Il suo cuore si spezza, l’anima si sporca. Ancora. Ancora. Ancora. 
Gli occhi verdi di Tristano sono capaci di posarsi lì dove chiunque altro sposterebbe lo sguardo. Accarezzare le ferite, coprire il frastuono, inventare nuovi colori, odori, sapori. Tristano ne è sicuro, tutto quello che è rotto può essere aggiustato.
LanguageItaliano
PublisherPubMe
Release dateMar 14, 2018
ISBN9788871639925
Acqua Sporca

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    Acqua Sporca - Francesca Persico

    ACQUA SPORCA

    di Francesca Persico

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi ed eventi

    sono frutto dell’immaginazione dell’autrice

    e non sono da considerarsi reali.

    Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari o persone,

    viventi o defunte, veri o immaginari è da ritenersi del tutto causale.

    Immagine di copertina ideata e disegnata da Caterina Caccavalle.

    A Luigi.

    Tu, sempre e soltanto tu.

    Il vento non fa rumore stanotte. Si avvolge in spire silenziose. Una busta gonfia d’aria volteggia lungo un vicolo buio dove il sole non tocca mai terra. Sale, scende, si solleva di nuovo, vola via, si perde.

    Da un portone esce una ragazza. Poco più di una bambina, è solo una macchia tremula nell’ombra. Barcolla. Si appoggia a una pietra. China il capo. Sembra sul punto di cadere. Ha un tacco rotto, le calze sfilate, la gonna troppo corta, una borsetta stretta in grembo. Fa qualche passo. Traballa. Si ferma. Proprio non ce la fa a stare in piedi. Si piega e somiglia a un ramo carico di neve. Si spezza. Vomita il suo disgusto sull’asfalto. I conati interrompono per un istante la quiete. Da una finestra in alto si ode una risata. La ragazza si tira su. Rabbrividisce. Si passa una mano sulla bocca. Riprende a camminare. Oscilla come una vecchia barca in balia di mari avversi. I suoi passi hanno il suono grave di chiodi battuti sul selciato. Scoordinati, aritmici, pesanti. Si odono sino al limitare del vicolo.

    Poi, più nulla. Solo il silenzio.

    I

    Devi trovarti un lavoro.

    Alzo la testa di scatto e fisso la donna che mi sta di fronte. Mia madre. La schiena dritta, le spalle piccole, la mano ossuta con cui si accarezza il collo. Ha il volto contratto, gli occhi ostinati, le labbra tese. Tra noi, sul tavolo, un biglietto da visita stropicciato, di carta giallina, su cui è stampato il nome di un avvocato e un indirizzo.

    Hai un colloquio fissato per la prossima settimana dice.

    Mi vedo afferrare il biglietto, strapparlo, farne mille pezzi e poi urlare. Gettare all’aria il vaso sulla credenza, afferrare una sedia, lanciarla contro il muro.

    Resto immobile. Sospiro. Papà....

    Mia madre mi interrompe sul nascere. Tuo padre ti ha procurato il colloquio.

    Mio padre non lo vedo da mesi, l’ultima volta che ho sentito la sua voce era il mio compleanno, il mio diciottesimo compleanno. Si è scusato per l’ennesimo impegno di lavoro. Sono abituata alla sua assenza. Non provo alcun dolore per il confine che ha tracciato tra me e lui, purché lui lo rispetti senza intromettersi nella mia vita, così come io non mi intrometto nella sua.

    Quest’avvocato è un suo amico, una brava persona. La voce di mia madre subisce una strana inflessione, diventa un sussurro, una preghiera. Ѐ un lavoro semplice, devi solo archiviare i fascicoli, tenere a posto le carte. Potresti avere di più, fare di più se solo tu lo volessi. Adesso è severa, contrariata, si schiaccia di nuovo contro lo schienale della sedia. Mi rimprovera. Tutto il suo corpo, rigido e arrabbiato, mi rimprovera. Eri una brava studentessa una volta, potresti ancora studiare, laurearti. Diventa nuovamente implorante, speranzosa, la sua rigidità si sbroglia tutta d’un colpo. Manuela, se accettassi di iscriverti all’università, non vi sarebbe alcun bisogno, per te, di lavorare.

    Afferro il biglietto da visita, mi alzo, lo infilo in tasca. Lei mi osserva delusa, non dice più niente. Farò il colloquio. Dimmi solo quando ci devo andare.

    ******

    Quanta merda ti sei messa in faccia?. Giacomo mi guarda di sottecchi. Tamburella le dita su un ginocchio. Per l’occasione ha indossato giacca e cravatta. In una mano stringe ancora le chiavi della macchina e lo fa come se volesse disintegrarle. Mio fratello, in questo momento, vorrebbe scavare una buca profonda e buttarcisi dentro. Ѐ colpa delle mie unghie mangiucchiate ricoperte di un lugubre smalto nero, dei miei occhi seppelliti da uno strato volgare di eyeliner ancora più nero, della macchia di caffè che sporca la mia maglietta, degli schizzi di fango sui miei stivali.

    Sembri una stracciona sussurra, gettando nervosamente lo sguardo tra le quattro pareti della sala d’attesa vuota.

    Le sale d’attesa sono tutte uguali. Spoglie, impersonali, puzzano di gente che va e di gente che viene, impalpabili accenni di vite che si fermano solo un istante, stufe di aspettare, felici di andarsene. Questa non ha neppure una finestra, vi aleggia un sentore di fumo vecchio, di mozziconi spenti ansiosamente durante l’attesa.

    Una donna con gli occhiali sbuca da una porta, preceduta da un lieve cigolio. Sorride senza ragione. Ѐ pagata per sorridere, essere cordiale con tutti. Io non faccio differenza e non importa che io abbia un aspetto zingaresco. Una volta uscita da qui, sfumerò velocemente tra i suoi ricordi. Sarò solo il racconto di una tizia un po’ sopra le righe che, una volta, è passata da queste parti per un colloquio. Di me resteranno solo lo smalto nero, il trucco fuori luogo e la macchia di caffè sulla maglietta. L’avvocato vi sta aspettando dice e la mano rivolta alla porta segue le sue parole.

    Ci alziamo, io e Giacomo, la seguiamo lungo un corridoio. Entriamo in una sala illuminata da grandi finestre. Il chiarore del giorno mi piomba addosso. Ѐ un riflettore acceso sull’accozzaglia di abiti che ho avuto il coraggio di indossare. I miei jeans sono perfino bucati. Cinque teste si sollevano da pile di codici e austeri tomi infarciti di anguste parole, una penna smette di scrivere, la fotocopiatrice nell’angolo continua a sputare fogli. Lei non si è accorta di me.

    Di qua dice la donna con gli occhiali.

    La seguo per prima. Giacomo, imbarazzato, farfuglia un Buonasera.

    Dopo aver fatto ingresso in un altro corridoio, sentiamo ridacchiare alle nostre spalle. Un suono fastidioso, di scherno, che ci accompagna fino alla scena del secondo atto di questa inutile giornata. Un’altra stanza, un avvocato panciuto dietro una scrivania, un mucchio di carte sparse in ogni dove e un’immensa libreria che ricopre tutta la parete alle sue spalle.

    Tu devi essere Manuela, la figlia di Enrico. Piacere, Ugo De Novis. Mi stringe la mano. Non strabuzza gli occhi, non fa smorfie, il suo naso non si arriccia. Nessuna delle sue reazioni è quella che mi sarei aspettata. Sprofondo sconfortata su una sedia, mentre Giacomo gli stringe anche lui la mano nerboruta e si spreca in interminabili convenevoli.

    Studi giurisprudenza, vero, Giacomo? Tuo padre me lo ha detto. A che anno sei?.

    Al terzo, ma sono un po’ indietro con gli esami.

    Quando ti sarai laureato passa da qui. Ti terrò un posto libero.

    Mio fratello sorride. Vorrei provare il concorso in magistratura.

    Alzo gli occhi al cielo. Non lo sopporto quando fa il tipo distinto. Mio fratello è tutto fuorché questo tizio ben educato e cordiale che mi siede accanto.

    Certo afferma l’avvocato. Tuo padre mi ha detto anche questo, ma metti caso ti venisse voglia di fare il libero professionista, sai già a chi rivolgerti. Gli occhi piccoli, a dispetto delle sopracciglia folte tra cui spicca qualche pelo bianco, si soffermano su di me. Hai portato il curriculum?.

    Infilo la mano in tasca. Gli porgo un foglio ripiegato in quattro parti e trattengo il desiderio beffardo di sorridere. Sono proprio curiosa di vedere la faccia che fa.

    L’avvocato inarca un sopracciglio. Prende il foglio, lo lascia scivolare sulle sue carte. Lo dispiega e resta a fissarlo. Giacomo si tende. Ѐ una molla tirata sino all’estremo, quando, sbigottito, si volta nella mia direzione.

    È bianco. L’avvocato De Novis, visibilmente perplesso, sventola il foglio e devo ammettere che è un po’ buffo con l’espressione confusa. È in bianco. Non c’è scritto niente. Lo gira e rigira tra le mani, poi lo mette giù. Mi fissa e capisce che non è un errore, né uno scherzo. Un foglio bianco... riflette, facendo cenno a Giacomo di stare zitto. Stava per dire qualcosa, mio fratello, chiedere scusa al posto mio. Un foglio bianco per descrivere se stessi. Ti confesso che lo trovo poetico continua e, d’un tratto, ride. Tuo padre me lo aveva detto che hai un gran senso dell’umorismo.

    Ora sono io ad aggrottare la fronte. Mi alzo, pronta ad andarmene. Non ho alcuna intenzione di farmi prendere in giro da nessuno, men che meno da questo singolare sconosciuto.

    Siediti. L’avvocato adesso è serio.

    Giacomo resta seduto al suo posto. Siediti, Manuela bisbiglia.

    Mi siedo.

    Giacomo, tu puoi andare dice l’avvocato. Tua sorella è assunta. Puoi passare a riprenderla per le otto.

    Spalanco gli occhi. Mio fratello fa spallucce, mentre si avvia alla porta. Lo osservo andar via senza emettere un suono.

    L’avvocato solleva il telefono. Dice a qualcuno, dall’altra parte, di accompagnarmi nella mia stanza. Ti troverai bene qui con noi afferma, subito dopo aver riagganciato. Mi aspetto solo che tu svolga bene il tuo lavoro. Tutto qua. Ora puoi andare, io ho un processo complicato domani e devo concentrarmi.

    Sospetto abbia un grosso debito con mio padre se ha accettato di prendermi, così, a scatola chiusa e conciata in maniera davvero discutibile. Esco dalla stanza. Mi appoggio al muro. La vista si affievolisce in puntini bianchi. Abbasso le palpebre.

    Respira, Manuela, respira...

    La donna con gli occhiali si schiarisce la voce. Io sono Miriam, la segretaria. Devi venire con me.

    La seguo di malavoglia. Trascino i piedi, sperando che si indispettisca, ma non sembra accorgersene. L’archivio è l’ultima stanza in fondo, accanto al bagno riservato al personale. Un quadrato di spazio delimitato da alti scaffali di acciaio. Su ogni mensola, faldoni numerati che scoppiano di documenti. Dietro quei numeri, storie, regole violate, gratuite cattiverie umane, gesti disperati e scelte opportunistiche. Da una finestra piove un fascio di luce impolverata che illumina un tavolo su cui sono poggiate piccole torri di carte e fascicoli. Seduto al tavolo, un ragazzo intento a visionare delle foto. Sono quasi sicura stia fissando un cadavere.

    Tristano, ti presento.... Miriam si interrompe. Non mi hai detto il tuo nome.

    Manuela borbotto.

    Ti presento Manuela conclude lei. Ugo l’ha appena assunta. Ci darà una mano a tenere in ordine questo studio.

    Auguri! esclama lui e non si riferisce certo al fatto che ho appena trovato lavoro. I suoi occhi verdi si soffermano sui miei abiti, la bocca sorpresa si tende verso il basso.

    Non posso fare a meno di notare la sua camicia stropicciata, le maniche arrotolate sugli avambracci, il colletto spuntato.

    Nemmeno tu sei un fiore dico.

    Lui accenna un sorriso. Touché ribatte. Ammucchia le foto, le infila in un fascicolo. Vi lascio lavorare. Accosta la sedia al tavolo e se ne va.

    Cosa devo fare?. Nessuno me lo ha ancora spiegato.

    Non è un lavoro difficile. Devi essere qui ogni giorno alle tre in punto. Miriam prende un’agenda nera di pelle e la apre. Per prima cosa dovrai segnare tutti i rinvii delle udienze. I fascicoli li troverai qui sulla scrivania o ti verranno consegnati nel mentre. Afferra una cartellina di cartoncino blu e mi mostra il suo contenuto. All’interno di ogni fascicolo troverai una scheda aggiornata con il motivo del rinvio ed eventuali adempimenti da preparare per la prossima udienza. Devi segnare tutto sull’agenda. Poi puoi riporre i fascicoli al loro posto, aiutandoti con lo schedario. Mi indica dei contenitori rettangolari di plastica allineati sul tavolo. Ne apre uno. I cartoncini sono ordinati in ordine alfabetico per i cognomi dei clienti dello studio. A ogni pratica corrisponde sempre un numero. Per i nuovi clienti dovrai compilare un cartoncino nuovo, assegnare il numero in progressione al fascicolo e compilare la scheda tecnica. Rispondi sempre al telefono, mi mostra uno di quei telefoni da ufficio pieni di pulsanti laterali, perché se a qualcuno serve un fascicolo glielo devi portare tu. I numeri degli interni sono segnati nella prima pagina dell’agenda. Emette un breve sospiro. Per il momento questo è tutto, poi imparerai da sola, vedrai.

    Scannerizzare i documenti e conservarli attraverso un sistema condiviso tra tutti i pc dello studio non sarebbe più semplice? chiedo.

    Miriam resta un po’ sorpresa dalla mia proposta, poi scoppia a ridere. Sì, sarebbe più semplice, ma Ugo non è al passo coi tempi in queste cose. Non si fida della tecnologia moderna. Ora ti lascio cominciare. Bisogna riordinare tutti quei verbali di udienza. Con un cenno del mento mi indica blocchi di fogli per me tutti uguali. Io torno alla mia postazione. Fa per toccarmi la spalla, ma qualcosa la ferma. Forse si è solo accorta della improvvisa tensione che mi ha messo questo suo breve accenno di contatto. Non gradisco che la gente mi tocchi.

    Resto sola, a guardare dalla finestra la vita che scorre.

    ******

    Siedo sul terrazzo. Scruto il mondo da lontano. Non mi avvicino, non lo sfioro, non lo fisso mai negli occhi. Ha uno sguardo maligno il mondo, come avesse il diavolo dentro. E ride. Spesso lo sento ridere, quando fa buio, quando non c’è nessuno in casa, quando sono distratta. Lui ride, mi respira sul collo, fa scivolare un dito gelido lungo la mia schiena, mi sussurra versi bestiali nelle orecchie.

    Dovresti proprio smetterla di startene tutta sola a fissare il nulla.

    Non fisso il nulla replico al bel ragazzo dagli occhi chiari che è apparso nel mio orizzonte. Luca ha denti bianchi, mani sottili, unghie curate. La sua camicia emana una gradevole nuance maschile. E allora, che mi dici di questo nuovo lavoro? chiede, mentre si sporge dalla balaustra di ferro. Un camion dei traslochi ha bloccato il traffico e giù è un putiferio di clacson contrariati che strimpellano, inquinando la città di rumori sgradevoli.

    Ѐ solo un lavoro rispondo. Un lavoro stupido, potrebbe farlo anche un bambino di sei anni, purché abbia imparato a leggere e contare. In realtà non mi dispiace. Dopo la prima settimana, ho capito come muovermi tra i faldoni e impiego poco a rinvenire fascicoli e a sistemare le carte. Il resto del tempo, se nessuno mi chiama, lo passo a leggere i miei libri. In fondo non è poi così diverso di quanto facevo a casa per ammazzare la noia, con la sola differenza che adesso posso contare su qualche soldo che prima non avevo. A tal proposito Luca mi sorride.

    Direi che è un buon giorno per fare shopping annuncia, sfregandosi le mani.

    Dovrai aspettare che io prenda il primo stipendio replico divertita. Luca è l’unico essere umano che mi diverte davvero.

    Facciamo che oggi pago io e, appena intaschi il primo assegno, mi restituisci quanto speso.

    Mi sembra un buon compromesso. Non ho ragioni per rifiutare, benché non sia malata di shopping. Gli unici raptus ingovernabili mi vengono in libreria, luoghi da cui Luca si tiene alla larga, almeno se ci sono io. Una volta entrata è difficile farmi uscire.

    Il mio migliore amico preferisce i negozi di scarpe. In centro ne hanno aperto uno nuovo ed è il primo posto in cui mi trascina. Ne prova a decine e io resto seduta a guardarlo muovere i piedi davanti allo specchio come fosse un ballerino di tip-tap. E non importa quanto costino e se non ha abbastanza soldi per comprarle. Lui le prova ugualmente, gli occhi gli brillano, tutto il suo volto sorride. Usciamo a mani vuote, seguiti dallo sguardo seccato del commesso. Compriamo noccioline tostate e mandorle ricoperte di caramello dai carrettini lungo la strada. Le finiamo in un lampo e le ricompriamo di nuovo. Un euro, solo un euro per un boccone di felicità. Acquisto l’ennesimo paio di Converse, un berretto di lana grossa, e un capo vintage, un giubbotto di pelle con le borchie e le cerniere che risale agli anni ottanta. Luca si concede un boa di piume dorate, un cappello da cow boy e un paio di stivali con la punta. Indossiamo tutto subito, lasciando nelle buste i vestiti con cui siamo usciti. Somigliamo a due attori di un film trash.

    Prima di rientrare, ci fermiamo in una caffetteria del centro ed è allora che, tra tante facce sconosciute, ce n’è una che mi stordisce. Ѐ seduto al tavolo all’angolo. Sorseggia cappuccino. Mangia biscottini di pasta frolla da un piattino di fine porcellana. Sul volto ha un filo di barba pungente. Accanto a lui una ragazza, tutta boccoli e pelle diafana, ride di qualcosa che lui ha detto. E ride anche lui. Una risata d’impeto che mi fa salire un reflusso acido di mandorle e noccioline alla gola. Ha il suono stridente di una brusca frenata sull’asfalto. Mi soffoca l’udito.

    Luca mi passa un braccio sulle spalle. Anche lui lo sta guardando. Torniamo a casa dice.

    II

    Manuela, sono Ugo.

    Abbasso il volume della televisione. Ciao, Ugo dico sorpresa. Il mio capo non mi ha mai telefonato prima d’ora, senza contare che è domenica pomeriggio.

    Non sono in città, devi farmi un favore. Passa allo studio, prendi la pratica 114. Devi portarla a Tristano.

    Resto in silenzio. Ho firmato un contratto che mi impegna dal lunedì al venerdì, dalle tre alle otto di sera circa, minuto più, minuto meno.

    Ugo sospira. Senti, lo so che è domenica, che non ti ho assunta per lavorare nel week-end, ma si tratta di un favore personale. Ho bisogno di quella pratica e quella testa vuota di mio nipote non trova le chiavi dello studio. Quindi, ti sarei davvero grato se....

    D’accordo mi sento rispondere. Ci sono attimi in cui il cervello e la bocca sono del tutto scollegati. Sono assolutamente certa che il mio unico desiderio, in questo momento, sia quello di tornarmene sul divano a guardare la tv e proprio non mi spiego per quale ragione abbia acconsentito. La verità è che non si nega facilmente un favore a Ugo.

    Ok, ti do l’indirizzo.

    E adesso che mi invento?

    Mia madre è ferma sulla porta della cucina. Mi osserva, sembra stranamente divertita. Ti presto la macchina.

    Non puoi accompagnarmi?. Ho preso la patente qualche mese fa, solo perché Luca ha seguito le lezioni assieme a me, ma da allora non ho mai guidato la macchina da sola.

    Non vedo che bisogno ci sia di essere accompagnata.

    La ignoro. Chiamo Giacomo e afferro prontamente il telefono.

    Giacomo ha lasciato il cellulare a casa.

    Merda. Un giorno o l’altro glielo cucio sulla fronte. Mi viene in mente Luca, ma lui oggi aveva un appuntamento con un ragazzo. Tuttavia, se lo chiamassi, sono certa che correrebbe da me in un lampo.

    Lascialo stare dice mia madre. Sacrifica la maggior parte del suo tempo per stare con te e questo ragazzo gli piace molto, me lo ha detto ieri sera al telefono. Era nervoso per l’appuntamento. Non rompergli le uova nel paniere. Mia madre non è solo mia madre. Potrebbe essere la madre di tutti quelli che non sanno dove andare se hanno bisogno di un consiglio, di un piatto di pasta caldo e, se la necessità lo richiede, magari anche di un letto. Nel caso di Luca, lo considera un figlio al pari di me e Giacomo. Ѐ solo un giro in macchina. Vai, arrivi, e torni indietro.

    Guardo il riflesso della sera sul vetro della finestra. Le mani già mi sudano. Mi assale un odore umido di muffa, mischiato all’olezzo della birra. Capita a volte che un ricordo rechi con sé un odore che ti resta attaccato addosso, senza che tu riesca mai a liberartene. Abbasso le palpebre. Respira Manuela, respira...

    Dieci minuti, il tempo di infilare un paio di jeans e un maglione, e sono in macchina. Fuori si gela. Piove a dirotto. Imposto il navigatore. Il motore emette un brontolio e, quando mollo la frizione, tutto l’abitacolo fa un salto in avanti. Pessimo inizio. Ci riprovo e questa volta riesco a muovermi. Uno sguardo allo specchietto retrovisore. Per un attimo incontro i miei occhi truccati e non mi riconosco. Bene. Non voglio più riconoscermi.

    Tristano non abita lontano. La quiete domenicale mi consente di arrivare alla meta senza gli intoppi del traffico. Lui mi aspetta sotto al portone, al riparo dalla pioggia. Nell’attesa che si avvicini, trovo il modo di rosicchiarmi un’unghia. Apro il finestrino per passargli il fascicolo e schizzare via. Tristano, però, fa il giro della macchina. Prova ad aprire lo sportello. Sono chiusa dentro e, dal vetro appannato, percepisco a malapena la sua figura. Batte le nocche del pugno contro il finestrino, costringendomi a sganciare le sicure. Lui entra e si siede. Schizza gocce d’acqua dappertutto. Passa una mano tra i capelli umidi. Ѐ da un pezzo che ti aspetto esordisce. Non sembra contento. Non lo sono neanche io, quindi meglio darci un taglio. Gli passo il fascicolo. Lui mi guarda storto e me ne sfugge la ragione. Ho la macchina in revisione dice.

    Resto zitta. E ferma. Una statua di sale.

    Tristano scuote il capo. Devi accompagnarmi tu. Ugo non te lo ha detto?.

    No. Non me lo ha detto. Questo va al di là del favore personale. Questo va oltre ogni regola io mi sia imposta. Non lo conosco il ragazzo seduto qui, nella macchina di mia madre. Di lui so solo il nome, che ha degli splendidi occhi verdi e che è un avvocato. Forse. A guardarlo bene,

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