Verso qualcuno
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Book preview
Verso qualcuno - Roberto Pallocca
© Alter Ego s.r.l., Viterbo, 2018
Collana: Specchi
I edizione digitale: gennaio 2018
ISBN: 978-88-9333-104-3
Per sapere di più sull’Autore visita il sito www.robertopallocca.it o il blog nelfrattempo.net
www.alteregoedizioni.it
A Valentina,
destinazione.
"Un luogo non è mai solo ‘quel’ luogo:
quel luogo siamo un po’ anche noi.
In qualche modo, senza saperlo,
ce lo portavamo dentro e un giorno,
per caso, ci siamo arrivati".
(Antonio Tabucchi)
"Vorrei vivere diverso in paesi lontani.
Vorrei morire altro fra bandiere sconosciute".
(Fernando Pessoa)
"Non ho amato troppo.
Ho amato le persone sbagliate troppo a lungo.
Ecco tutto".
(Alda Merini)
Prologo
Reggio Emilia
27 agosto 2015
Sono in due. Camminano lenti lungo un sentiero mangiucchiato su entrambi i lati dalle erbacce che crescono ribelli. Sotto i loro piedi schioccano rametti, arbusti, foglie insecchite dal caldo.
Il più basso, che è anche il più giovane, rimane qualche passo indietro. Respira affannato, è inquieto. Ha le sue ragioni.
Il sole filtra a fatica nella fitta rete di rami e foglie, e disegna a terra un curioso gioco di forme luminose su cui sarebbe divertente saltellare, come fanno i bambini quando giocano a campana.
Il più alto si ferma, si volta, si guarda intorno. La sua espressione è di perfetto stupore. Il più basso lo osserva da meno di un metro, resta in silenzio. Quando lo sguardo del collega gli arriva addosso alza le spalle. Non trova fiato.
«Non dovrebbe mancare molto».
«Cinquecento metri, più o meno».
«Dici? Dai, ci siamo quasi allora».
Il più basso annuisce e sprofonda in un silenzio infinito. Avrebbe tante cose da dire, ma tace. Non ricordava questo posto così quieto.
Ripensa al suo arrivo a Reggio, la sera prima, e alla notte appena trascorsa in attesa del primo giorno di servizio. Non ha chiuso occhio per l’emozione. Ripensa alla curiosità, ai timori, alle mani calde dei colleghi. Poi la chiamata improvvisa, quella mattina all’alba, ed eccolo qui.
Proseguono sul sentiero, che è un corridoio incerto tra la vegetazione, finché l’uomo più alto indica un posto preciso tra le miriadi di verdi e marroni, e dice: «Siamo arrivati, credo».
Il più basso, che sopraggiunge, risponde: «Sì, siamo arrivati».
Ha negli occhi un fulmineo sentimento di disturbo. Si toglie il cappello, si accarezza la testa dove il cuoio capelluto è più irregolare. Sbottona la camicia, guarda ancora tra la vegetazione. Per la prima volta prova un’indicibile paura.
«Allora? La vedi? Laggiù, tra gli alberi, sulla destra».
«Certo. Certo che la vedo».
Il più basso riconosce tra le cortecce e i bordi disordinati del bosco, tra le erbacce e i fiori incolti, un profilo che conosce benissimo. Sussulta per qualcosa che è bene definire emozione.
1.
All’aeroporto di Ulan Bator c’è odore di naftalina.
Giuseppe Artone lo avverte chiaramente all’interno delle narici – salire, inerpicarsi, invaderlo. Un odore intenso, definito. È seduto in sala d’aspetto, in attesa che un aeroplano lo riporti a casa. Accanto a lui il suo zaino mezzo scucito, ammirevole compagno di viaggio.
Vorrebbe tirar fuori dal taschino il portasigari in metallo e sceglierne uno per questo momento importante, ma non si può fumare, non lì, con le guardie che si aggirano nei corridoi lastricati.
In trent’anni di viaggi, di partenze, di ritorni, ha imparato che i luoghi hanno dettami che non si possono ignorare. Hanno confini entro i quali quegli stessi luoghi sono sovrani. Non si può fare altro che entrare, in punta di piedi, e rispettare, e cogliere senza invadere.
Così, adesso, come troppo spesso gli è capitato nella vita, invece di fare quello di cui ha voglia – accendere un sigaro e fumarselo con grazia – si perde nei suoi pensieri, resi ancor più liquidi dagli anni e dalle pezze che ognuno sa mettere a dovere sul fondo sfilacciato della propria memoria.
Pensa ai suoi ottant’anni. Gli ottant’anni che porta addosso. Il pensiero gli fugge verso un luogo che, al pari di molti altri, gli è rimasto nel cuore. I ricordi abitano i luoghi come fossero stanze, fino a renderli familiari. Così, adesso, gli balza in mente lo Sri Lanka, uno qualunque dei luoghi di una vita. Un balcone colmo di fiori azzurri e lilla, sulla parte alta della città di Kankesanturai, da cui la mattina presto si vedeva l’India.
Lì ha amato una donna con gli occhi verdissimi e le dita fine e lunghe. Forse si chiamava Shanrìa. Ricorda i suoi occhi – più che il resto –, avevano diverse profondità, come distinti livelli di percezione: era lei a decidere dove potevi arrivare, fino a quanto.
Ogni volta che li fissava, Giuseppe si accorgeva che c’era altro, che c’era ancora, che c’erano ulteriori margini di intromissione in lei. E lei voleva che accadesse. Voleva essere affollata, come una chiesa il giorno di Natale. Voleva essere riempita con letizia invadente. Amata e abitata giusto il tempo di un amore.
Ricorda di essersi sdraiato sul letto a baldacchino, in quell’albergo profumato di ciclamini, a due passi dall’oceano. Lei era troppo giovane per non compiacerlo e lui abbastanza adulto da farla sentire donna.
Il suo viso è nitido nei ricordi. Chissà se è fedele, o si tratta soltanto di un mosaico di dettagli infinitesimi, che provengono ognuno da qualche altra storia – da qualche altro amore – riorganizzati adesso dal lusso di una reminiscenza.
Capelli neri e pelle scura, così ricorda Shanrìa, e gambe lisce come seta. Piedi piccolissimi. Un bracciale di pietre verdi che tintinnava, scoppiettava, scampanellava.
Giuseppe non sa perché gli è tornata in mente. Proprio oggi, ora, a migliaia di chilometri di distanza, vent’anni dopo, e con tutta una stanchezza di vivere che s’è annidata nel suo cuore di eterno viaggiatore inappagato.
Giuseppe non lo sa.
Per la dolcezza, forse.
O perché uno come lui, che all’epoca aveva quasi sessant’anni, disperava di riuscire ancora ad amare una donna, ad amarla così, ad amarla tanto, ad amarle il cuore, non solo il corpo.
Dopo l’amore, Giuseppe indossò i pantaloni attorcigliati a terra come un boa addormentato e comprese che quella notte di sesso meticoloso sarebbe stato uno dei suoi ricordi più belli.
Non si è mai spiegato come accade, ma accade proprio così. Di interi decenni di vita non ricordi granché, poi un attimo si illumina di eternità, e non lo dimentichi più.
Ah, quella notte, la stessa, accadde anche altro. Giuseppe scostò la tenda, nemmeno il tempo di fare due passi, guardare fuori, ed era l’alba. Un’invasione rosea e bellissima, che guadagnava cielo, si sbriciolava all’orizzonte sulle coste abbozzolate della penisola indiana.
Un’alba così non l’avrebbe vista più, ma allora non lo sapeva. Ne avrebbe viste molte altre, negli anni a venire, ma con quella, con quell’alba lì, avrebbe confrontato tutte le albe future.
La finestra era mezza aperta, un sottile filo d’aria spettinava la sua lunga barba, i suoi capelli incolti, i suoi occhi stipati. Colse l’India e la distanza dal cielo, l’orizzonte irregolare e il suo passato definito a chiaroscuro. Si voltò verso quella donna, la guardò ancora qualche minuto, finché non prese forma un pensiero puntuale: stare lì, starci con lei – in quel momento e con quell’alba fuori a inaugurare un giorno nuovo –, era la vita. E per quanto si possano immaginare le conseguenze delle nostre scelte, beh, non riusciremo mai a contemplarle tutte.
Del resto, Giuseppe non avrebbe potuto immaginare che si sarebbe trovato lì a sessant’anni, con Shanrìa, dopo l’amore, solo perché trent’anni prima gli era successo qualcosa di folle.
2.
Giuseppe si fruga nelle tasche e tira fuori una manciata di tugrik, troppi per la sua collezione di monete e pochi per comprare qualcosa di utile. Si guarda intorno. Una signora porta al guinzaglio un cane pelosissimo, che perde un’incredibile quantità di bava. Un gruppo di giovani, probabilmente studenti, turba il silenzio metallico dell’aeroporto. Giuseppe osserva bambini rincorrersi, prendersi, smarrirsi, e genitori trascinare bagagli enormi. Distende le gambe doloranti, cerca di scioglierle con movimenti ondulatori, quando viene incuriosito da un uomo solo, malvestito, trasandato, sporco, che trascina una valigia senza ruote con una corda di canapa, e tiene in mano tre buste zeppe di roba. Grida qualcosa che Giuseppe non può comprendere e inizia a correre. Arrivato a pochi metri da lui inciampa, cade e il contenuto delle buste si rovescia tutto intorno.
Giuseppe, divertito, tira fuori la sua vecchia Canon. Non ha mai voluto una fotocamera digitale, non ha figli che lo inizino alla tecnologia e non ha mai sentito il bisogno di introdurre oggetti nuovi nella sua vita. Crede ci si debba accontentare di ciò che si ha, anche se è lecito, buttando un occhio alla sua esistenza, chiedersi fino a che punto lui l’abbia veramente fatto.
Gli piace credere che siano pochi gli oggetti di cui abbiamo davvero bisogno. Ogni tecnologia ha anche il suo lato oscuro, nasconde schiavitù dietro promesse di nuova libertà. Così, come compagna di viaggio, ha soltanto questa vecchia Canon compatta, che entra precisa nella tasca del suo giaccone impermeabile.
Ci sono ancora tre foto prima che il rullino si riavvolga con un ronzio. Giuseppe inquadra la scena. Scatta.
Tiene in tasca, insieme alla Canon, solo un taccuino nero tutto consumato. Sono gli unici due oggetti che non l’hanno mai lasciato partire da solo.
Ora apre il taccuino, scrive: Fotografia 34, 20/07/15, Ulan Bator – Uomo che si scapicolla
.
Sorride. A questo gli serve quel quadernetto. Coadiuva la memoria. Ci segna l’indispensabile di ogni suo viaggio, anche solo un nome, un numero, una città, una marca di tabacco.
L’indispensabile.
Giuseppe ha sempre preferito il poco all’inutile. Crede che sia l’unico modo per tenersi a cuore le cose. Tirarne fuori l’essenza. Racchiudere nel minor spazio la maggiore vita possibile.
Di quest’ultimo viaggio di tre mesi in Cina, Tibet, Mongolia e Corea, Giuseppe ha segnato sul suo taccuino le seguenti cose: quattro nomi di persona, una parola in lingua tibetana e una ricetta.
I quattro nomi, uno per ogni Paese che ha visitato, sono le persone che recherà con sé, a casa, senza il rischio che alla dogana qualcuno possa portargliele via. Non esistono ricordi clandestini, e non esiste chi abbia il diritto di dichiararli invasori. I nomi appartengono a un uomo calvo, Mark, a una ragazza di Gangjin, in Corea del Sud, a un’anziana signora di Pechino e a un monaco tibetano.
La parola tibetana scritta più in basso significa sempre. Giuseppe non ha idea di come si pronunci. Un monaco lo aveva visto camminare assorto nei suoi pensieri di fronte a un tempio buddista, aveva notato la spilla della bandiera italiana sullo zaino e gli aveva chiesto di dove fosse. Giuseppe, realizzando che quel monaco parlava benissimo la sua lingua, aveva approfittato per chiedere notizie sul posto e sui