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Robinson Crusoe
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Robinson Crusoe

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"Robinson Crusoe" (titolo completo: "The Life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe") è l’opera più nota di Daniel Defoe (1660-1731) unanimemente considerato il padre del romanzo moderno.
Il libro racconta le avventure di un giovane marinaio inglese, che naufraga su un’isola deserta nell’Atlantico e vi resta per quasi ventotto anni; durante questo periodo, avrà tempo e occasione di mettere alla prova tutte le sue capacità di adattamento all’ambiente, vivendo al tempo stesso grandi avventure.

"Robinson Crusoe" è il primo romanzo di Daniel Defoe, che lo pubblica nel 1719, all’età di ormai sessant’anni, dopo una vita passata tra attività commerciali, una ricca carriera giornalistica, la politica e addirittura lo spionaggio. Già pochi mesi dopo la sua pubblicazione, il romanzo conosce un grandissimo successo presso il pubblico borghese del tempo; col tempo Robinson Crusoe diventerà una delle letture più popolari per adulti e bambini di tutto il mondo e una delle opere letterarie più importanti della letteratura occidentale.
LanguageItaliano
PublisherE-BOOKARAMA
Release dateJun 1, 2023
ISBN9788827559437
Author

Daniel Defoe

Daniel Defoe was born at the beginning of a period of history known as the English Restoration, so-named because it was when King Charles II restored the monarchy to England following the English Civil War and the brief dictatorship of Oliver Cromwell. Defoe’s contemporaries included Isaac Newton and Samuel Pepys.

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    Robinson Crusoe - Daniel Defoe

    Epilogo

    ROBINSON CRUSOE

    Daniel Defoe

    Prefazione dell’autore a «La vita e le strane, meravigliose avventure di Robinson Crusoe»

    Se mai al mondo la storia delle vicissitudini di un uomo qualsiasi è stata degna di venire resa nota e di essere gradita, una volta pubblicata, l’autore pensa che tale sia il caso di questo racconto. Secondo lui, infatti, le meraviglie della vita di quest’uomo superano di gran lunga quelle di qualsiasi altro: difficilmente la vita di un uomo può contenere tanti avvenimenti.

    Questa storia è stata scritta con modestia, serietà e con una visione religiosa degli eventi, in vista dell’uso che ne fa sempre l’uomo saggio; l’istruzione, cioè, degli altri con l’esempio, e la giustificazione e la glorificazione della saggezza della Provvidenza, in tutte le circostanze della nostra vita, comunque esse si verifichino.

    L’autore la considera solo una storia di fatti, senza artifizi letterari, e quindi ritiene, essendo tutte queste cose accadute, che eguale sarà il vantaggio che ne trarrà il lettore, sia che vi si diverta, sia che s’istruisca. E perciò, senza aggiungere alcun complimento, è sicuro di avergli reso un grande servigio pubblicandola.

    I. Robinson lascia la casa paterna e prende a navigare.

    Primo naufragio

    Sono nato il 1632 nella Città di York, da buona famiglia non del luogo; mio padre, che era originario di Brema, dapprima si stabilì ad Hull. Poi, essendosi fatto una buona posizione, abbandonò il commercio e si trasferì a York, dove sposò la donna che doveva divenire mia madre. Costei faceva parte della famiglia Robinson, molto stimata nella zona, e perciò venni chiamato Robinson Kreutznaer; ma dato l’uso inglese di svisare le parole, ora siamo chiamati (e ci chiamiamo e firmiamo noi stessi) Crusoe, ed i miei compagni m’hanno sempre chiamato così.

    Ho avuto due fratelli più grandi di me, uno dei quali, tenente colonnello in un reggimento di fanteria inglese, combatté nella campagna di Fiandra, agli ordini del famoso colonnello Lockart, e venne ucciso nella battaglia di Dunkerque contro gli spagnoli. Che fine abbia fatto l’altro mio fratello non l’ho mai saputo, come del resto i miei genitori non hanno più saputo nulla di me.

    Essendo il terzo della famiglia, e non essendo stato indirizzato a nessuna professione, cominciai presto ad avere la testa piena di fantastici progetti. Mio padre, che era ormai anziano, dopo avermi fatto impartire una discreta istruzione, voleva avviarmi alla professione legale. Ma io non desideravo altro che fare il marinaio, e questa vocazione mi indusse a contrastare così testardamente la volontà di mio padre, e le preghiere e i consigli di mia madre e degli amici, che si sarebbe detto che nella mia indole c’era qualcosa che fatalmente mi spingeva alla triste esistenza che avrei vissuto.

    Mio padre, uomo grave e saggio, mi aveva dato seri e buoni consigli per distogliermi dai miei disegni, che egli aveva intuito. Una mattina mi chiamò nella sua stanza, dove la gotta l’aveva confinato, e dopo essersi caldamente lagnato con me per i miei propositi, mi chiese quali motivi mi spingessero ad abbandonare la casa e la terra nativa, oltre che il semplice desiderio di vagabondare. «Solo due tipi d’uomini», mi disse, «sono fatti per cercare fortuna e fama con imprese fuori dal comune; gli spiantati e coloro per i quali sembra poca ogni ricchezza ed ogni posizione. Ora, tu sei troppo al di sopra o al di sotto di costoro: ti spetta una condizione mediocre, ma in uno stato che è il migliore nella vita borghese. Una lunga esperienza mi ha dimostrato che questa posizione è la migliore del mondo e la più adatta alla felicità dell’uomo. Non si è esposti alle miserie ed ai travagli che sono appannaggio di coloro che si devono procurare il vitto con il lavoro delle proprie braccia; e non si è neppure agitati dalla superbia, dal lusso, dall’ambizione e dall’invidia, che affliggono la parte più alta della società. Ti ho mai dato un esempio diverso io stesso? Ho sempre considerato questa condizione come la più giusta misura della vera felicità, ed ho sempre pregato il Signore che mi tenesse lontano sia dalla povertà che dalla ricchezza. Ricorda bene ciò, figliolo. Vedrai che le calamità della vita sono distribuite tra le classi più alte e più basse del genere umano, e che uno stato mediocre, soggetto a disgrazie di minore entità, non è esposto alle tante vicende che travolgono i più grandi o i più piccoli tra gli uomini. Nella condizione media dell’esistenza c’è spazio per ogni virtù e per ogni godimento, pace e abbondanza accompagnano quest’aurea mediocrità. In essa troverai temperanza, moderazione, tranquillità, salute, buona compagnia, insomma ogni diletto degno di venire desiderato. Grazie ad essa gli uomini attraversano serenamente questo mondo e ne escono senza essere travagliati da fatiche manuali o intellettuali, non costretti alla schiavitù per acquistare il loro pane quotidiano, senza essere angustiati dai dubbi che tolgono la pace all’anima e il riposo al corpo, non toccati dall’invidia o dal segreto tarlo dell’ambizione che li spinga a desiderare grandi cose. Per quanto mi riguarda, sono pronto ad avviarti per quella strada che come t’ho detto ritengo la migliore. Perciò, se non ti troverai agiato e felice nel mondo, la colpa sarà soltanto o di una sfortuna non prevedibile o della tua cattiva condotta; io dal canto mio non avrò nulla da rimproverarmi, perché ho assolto al mio compito di metterti in guardia contro le tue intenzioni, che sono certo ti riusciranno rovinose. Sono prontissimo, quindi, a fare tutto il possibile per te se deciderai di rimanere in casa mia e accettare la soluzione che ti propongo; ma non collaborerò mai alla tua sventura, incoraggiandoti ad andartene. Guarda tuo fratello maggiore, che avevo supplicato di non recarsi alle guerre dei Paesi Bassi. Cosa gli è accaduto? Vi è rimasto ucciso. Sentimi bene: io non cesserò mai di pregare il cielo per te; ma oso dire che se ti avventurerai in questa impresa insensata, Dio non ti accompagnerà con la sua benedizione; e, purtroppo per te, avrai poi tutte le occasioni di pentirti per non avere seguito i suggerimenti paterni».

    Mi accorsi, durante quest’ultima parte del suo discorso, che fu veramente profetica – il pover’uomo non poteva certo prevedere quanto! – che le lacrime gli scendevano abbondanti per le guance, specie quando mi parlò di mio fratello rimasto ucciso; e pure quando mi disse che avrei avuto occasione di pentirmi, senza nessuno al mondo che mi aiutasse. Era così costernato che troncò di colpo il discorso, e mi disse:

    «Ho il cuore troppo gonfio per poterti dire altro».

    Fui tanto commosso da quell’ammonizione che decisi in quel momento di non pensare più a girare il mondo, ma di rimanere in casa come mio padre desiderava. Ma, ahimè! bastarono pochi giorni a portarsi via i miei buoni propositi; e decisi di fuggire di casa entro poche settimane. Però non agii così sollecitamente e nel modo che avevo deciso nel primo impeto; ma, tratta in disparte mia madre, in un momento in cui mi parve più di buon umore del solito, le confidai che desideravo più che mai vedere il mondo.

    «Con questa smania dentro», continuai, «non potrò accettare nessuna delle altre soluzioni propostemi; mio padre farebbe meglio ad accordarmi il suo assenso, piuttosto che costringermi ad andarmene senza averlo ottenuto. Ho diciotto anni compiuti, sono troppo vecchio per entrare come alunno in una casa di commercio o nello studio di un avvocato; e sono sicuro che se accettassi, non terminerei il mio tirocinio per prendere il mare. Madre mia, se voi voleste convincere mio padre a lasciarmi per una sola volta andare intorno al mondo! Se tale vita non facesse per me, tornato a casa non parlerei più di andarmene, e – ve lo prometto – sarei più diligente e riguadagnerei il tempo perduto».

    Mia madre rimase molto scossa dal mio discorso: «Non vedo», rispose, «come si possa fare una proposta del genere a tuo padre. Sa troppo bene quali siano i tuoi veri interessi per acconsentire ad un partito così dannoso per te. Non capisco anzi come tu possa ancora pensare a cose del genere, dopo il discorso di tuo padre e dopo le affettuose espressioni che adoperò per te. Figlio caro, se vuoi rovinarti con le tue mani, non chiedere il mio aiuto: sta pur sicuro che non avrai mai l’assenso dei tuoi genitori».

    Nonostante il rifiuto di mia madre di far parola a mio padre di questa conversazione, seppi in seguito che gliela aveva riferita e che mio padre le aveva risposto con un sospiro: «Questo ragazzo potrebbe essere felice rimanendo a casa sua; ma, se prende a vagabondare per il mondo, sarà il più miserabile tra coloro che hanno visto la luce. Non potrò mai dargli il mio assenso».

    Quasi un anno dopo io ruppi del tutto le briglie. In questo periodo avevo continuato a mostrarmi ostinatamente sordo ad ogni proposta di scegliere una professione, e spesso mi lamentavo dei miei genitori, della loro ferma volontà di opporsi a quella ch’io chiamavo la mia decisa vocazione. Trovandomi un giorno ad Hull, incontrai un mio compagno che stava per recarsi a Londra per mare a bordo di un vascello di suo padre, e questi mi spinse ad accompagnarlo, con il solito adescamento della gente di mare, dicendo cioè che il viaggio non mi sarebbe costato nulla. Non mi consigliai né con mio padre né con mia madre, e neppure mandai a dir loro niente; lasciai che lo venissero a sapere in qualche modo e partii senza chiedere la benedizione di mio padre, senza pensare alle circostanze ed alle conseguenze. Fu una triste ora, lo sa Iddio!

    Il primo settembre 1651 salii a bordo del vascello diretto a Londra. Io credo che mai le sventure d’un giovane avventuriero cominciarono così presto e continuarono più a lungo delle mie. Il vascello era appena uscito dall’Humber, quando il vento cominciò a soffiare e le onde a gonfiarsi in modo spaventoso. Io, che non ero mai stato sul mare, mi sentii subito malissimo, sia di corpo che di spirito. Cominciai allora a riflettere seriamente su ciò che avevo commesso, e come fossi giustamente punito dalla giustizia divina per avere abbandonato in quel modo la casa paterna e trascurato ogni mio dovere. I buoni consigli dei miei genitori, le lacrime di mio padre, le preghiere di mia madre, mi tornarono alla memoria, e la mia coscienza, che ancora non era indurita, mi rinfacciava il disprezzo per i consigli ricevuti e la violazione dei miei obblighi verso Dio e verso i genitori.

    La tempesta intanto cresceva, il mare divenne altissimo, anche se assai meno di quanto lo vidi molto tempo dopo, e neppure come dovevo vederlo pochi giorni dopo. Ma era abbastanza infuriato da atterrire un marinaio in erba, quale io ero: mi aspettavo che ogni onda ci inghiottisse, e ogni volta che il vascello cadeva – così mi sembrava – nell’avvallamento tra un’onda e un’altra – ero convinto che non ne saremmo più usciti. In quella angoscia feci parecchi voti e mi ripromettei che, se Dio avesse risparmiato la mia vita in quel viaggio, se il mio piede avesse toccato di nuovo la terra, sarei corso direttamente fino a casa di mio padre e non sarei più salito su una nave finché fossi vissuto.

    Questi saggi proponimenti durarono quanto la tempesta e anche, a dire il vero, qualche tempo dopo. Ma il giorno successivo, quando il vento scomparve quasi del tutto e il mare divenne più tranquillo, cominciai ad abituarmi. Ciò nonostante mi sentivo piuttosto depresso, quel giorno, perché il mal di mare mi tormentava. Ma sul tardi il cielo si schiarì, il vento cessò del tutto e sopravvenne una serena e dolcissima sera. Il sole tramontò con splendore, e con splendore risorse il mattino dopo; e col vento leggerissimo e il mare placido che rifletteva i raggi del sole, mi parve di assistere al più bello spettacolo della mia vita. La notte avevo dormito bene; non sentivo più il mal di mare e, in perfetta salute, consideravo con stupore la rapidità con cui il mare, così infido e terribile il giorno prima, era diventato tanto quieto e piacevole.

    Fu allora che il mio compagno, temendo che le mie buone risoluzioni non si mantenessero ferme (poiché era stato lui a convincermi a fuggire di casa) si avvicinò e battendomi amichevolmente la mano sulla spalla mi disse:

    «Ebbene, giovanotto, come vi sentite adesso? Francamente, eravate ben impaurito quando soffiò quel po’ d’aria brusca...».

    «Aria brusca, la chiamate?», esclamai. «Fu una terribile burrasca!».

    «Una burrasca? Siete impazzito?», mi replicò. «Chiamate quella una burrasca? Macché: dateci un buon vascello e una bella deriva come la nostra, e ci pensiamo noi ai colpi di vento come quello! Amico mio, siete ancora un marinaio d’acqua dolce. Andiamo a seppellirne il ricordo in un barilotto di punch: guardate che bel tempo, adesso!».

    A raccontare in breve questa triste parte della mia storia, feci come tutti i marinai: il punch venne apparecchiato, mi ubriacai; e negli stravizi di quella notte affogai tutto il pentimento, tutte le riflessioni sulla mia condotta, tutti i propositi più fermi. Insomma, appena il mare ridivenne calmo e piatto, al cessare della tempesta, cessò con essa lo scompiglio dei miei pensieri. Dimenticai le mie paure di venire inghiottito dalle onde, e, spinto dai miei abituali desideri e istinti, dimenticai del tutto le promesse e i voti fatti nel momento della paura. A dire il vero sopravvennero alcuni momenti di riflessione e di seri pensieri, che avrebbero potuto convincermi a tornare indietro; ma feci presto a scacciarli come malinconie inutili, e a furia di bere coi miei compagni riuscii a dominare questi tetri momenti di demenza, come li chiamavo, così che non tornassero. Nel giro di cinque o sei giorni riportai una vittoria completa sulla mia coscienza, quale la può desiderare un giovane spensierato che decida di non farsi disturbare dalla sua presenza.

    Tuttavia dovetti subire un’altra prova che avrebbe potuto farmi ravvedere, perché la Provvidenza, come fa di solito, aveva deciso di lasciarmi privo di scuse; e davvero, sebbene non avessi voluto vedere un salutare ammonimento nella prima prova, la seconda sarebbe stata tale che anche il peggiore tra noi, l’uomo più duro di cuore, non avrebbe potuto non riconoscere il pericolo e insieme la grandezza della divina misericordia.

    Dopo sei giorni di navigazione toccammo le spiagge di Yarmouth: essendoci stato contrario il vento ed avendo trovato poi bonaccia, dopo la tempesta avevamo fatto ben poca strada. A Yarmouth fummo costretti ad ancorarci, e vi rimanemmo sette o otto giorni, perché soffiava contrario un persistente vento di libeccio. In quei giorni parecchie grosse navi provenienti da Newcastle arrivarono alle stesse spiagge, che rappresentavano un rifugio comune dove ogni nave poteva attendere il vento propizio per raggiungere il Tamigi. Ma non era indispensabile rimanere all’ancora così a lungo, ed avremmo potuto addentrarci facendo fronte alla marea, se il vento fosse stato meno forte. Dopo quattro o cinque giorni divenne poi fortissimo. Ma quelle spiagge venivano considerate un ottimo porto, le nostre ancore erano solide e i nostri attrezzi pure: la nostra brigata non si preoccupò, e senza sospettare il pericolo impiegammo il tempo nel riposo e nell’allegria, come usano i marinai. Ma l’ottavo giorno il vento aumentò in modo terribile, e tutte le braccia furono messe al lavoro per abbassare i nostri alberi di gabbia e serrare e imbragare tutto, in modo da consentire alla nave di rimanere all’ancora senza danni. Verso mezzogiorno il mare si fece altissimo; il nostro castello di prua pescava acqua, la nave ricevette a bordo parecchie ondate, e due o tre volte tememmo che l’ancora arasse il fondo senza tenerci. Il capitano ordinò allora che si gettasse l’ancora di soccorso. Eravamo così tenuti da due ancore a prua, e le gomene erano tese da un capo all’altro della nave.

    Fu allora che la burrasca scoppiò spaventosa: cominciai a leggere la paura e l’avvilimento sui volti dei marinai. Il capitano continuava con la massima attenzione a controllare la situazione; ma mentre rientrava nella sua cabina e mentre ne usciva lo udii parecchie volte mormorare «Dio, abbiateci misericordia, o siamo perduti!» e cose del genere.

    Durante le prime avvisaglie io ero rimasto istupidito nella mia cabina, posta di fronte a quella del capitano, né riuscirei a descrivere il mio stato d’animo. Sapevo ancora ripetere quei primi pentimenti che avevo così apertamente dimenticati e contro i quali il mio cuore si era indurito; pensavo anche che quell’orrore mortale sarebbe passato, che anche quella tempesta sarebbe finita come la prima. Ma quando lo stesso capitano, passandomi accanto, mormorò, come ho raccontato, che eravamo perduti, non so dire come rimasi spaventosamente atterrito. Uscito in fretta dalla cabina guardai fuori. I miei occhi non avevano mai visto uno spettacolo così spaventoso: il mare si accavallava in montagne che si rompevano su di noi ogni tre o quattro minuti. Quando potei guardarmi attorno, mi accorsi che eravamo circondati dalla desolazione: due navi, che erano all’ancora vicino a noi, per alleggerire il carico avevano tagliato gli alberi lungo la coperta; la nostra ciurma gridava che una nave, ancorata a circa un miglio da noi, stava affondando. Altre due navi, strappate le ancore, andavano alla deriva dopo aver perduto gli alberi. Le imbarcazioni più piccole se la cavavano meglio, perché erano meno sballottate dal mare; eppure ci sfiorarono due o tre di esse, in balìa delle onde, con le sole vele di civada, a prua, esposte al vento. Verso sera il nostromo e il pilota proposero al capitano di tagliare l’albero di trinchetto. Il capitano esitava: ma quando il nostromo affermò che se egli continuava ad opporsi a questo provvedimento, la nave sarebbe colata a picco, finì per acconsentire. Ma quando l’albero di trinchetto fu tagliato, quello di maestra, rimasto isolato, prese a dare tali scossoni alla nave che bisognò tagliare anche esso, ed il ponte rimase del tutto spoglio.

    Lascio immaginare al lettore in che condizioni mi trovassi, a questo punto, io che ero tanto inesperto di mare da essere rimasto spaventato prima per una faccenda da poco. Pure, se dopo tanto tempo riesco a ricordare i pensieri che allora mi si agitavano in mente, mi sovviene che ero più spaventato al pensiero della ribalderia con cui avevo rinunziato al mio pentimento per tornare alle antiche risoluzioni, che a quello stesso della morte. Questi pensieri mi gettarono, assieme allo spavento della burrasca, in uno stato tanto deplorevole che non vi sono parole per descriverlo. Ma il peggio non era ancora venuto: la tempesta imperversava con tanto furore che i più esperti marinai confessavano di non averne mai vista una peggiore. Avevamo, sì, una buona nave, ma enormemente carica, e si abbassava tanto che i marinai gridavano ad ogni momento: «Sta per andare per occhio!».

    Per fortuna non sapevo allora che andare per occhio nel linguaggio dei marinai significava affondare, e solo dopo domandai il significato della frase. La tempesta era così violenta che vidi, cosa piuttosto insolita, il capitano, il nostromo ed alcuni altri tra i più esperti della ciurma, inginocchiarsi a pregare come se attendessero di vedere la nave ingoiata dalle onde da un momento all’altro. Nel mezzo della notte, come se non avessimo abbastanza disgrazie, un marinaio che era sceso nella stiva per un controllo gridò forte: «Si è aperta una falla!», e un altro «L’acqua è alta quattro piedi sopra la stiva!». Tutte le braccia vennero chiamate alle pompe. A quelle grida io m’ero sentito schiantare il cuore ed ero caduto riverso sul letto dove ero seduto. Ma gli altri vennero a scuotermi da quella specie di letargo, gridandomi:

    «Ehi, voi, che non servivate a niente prima, adesso potete tirar su l’acqua al posto di un altro!».

    A questo invito mi mossi e, recatomi alla pompa, lavorai di buona lena. Intanto il capitano, visti alcuni leggeri palischermi che, incapaci di difendersi dalla burrasca e costretti ad abbandonarsi in balìa delle onde, non riuscivano ad avvicinarsi a noi per soccorrerci, diede ordine che si sparasse il cannone, come segnale di disgrazia. Io, che ne ignoravo il significato, rimasi così sbalordito che immaginai che fosse naufragata la nave, o qualcosa del genere. Non vi dico altro: fu tale lo spavento che caddi svenuto. Siccome era un momento in cui ognuno badava solo a se stesso, nessuno ci fece caso. Un altro uomo mi sostituì alla pompa, e buttatomi da parte con un calcio mi abbandonò lì, credendomi forse morto. E ci volle parecchio tempo prima che recuperassi i sensi.

    Continuammo a lavorare: ma l’acqua saliva sempre nella stiva, e tutto lasciava pensare che la nave stava per affondare. Sebbene la tempesta accennasse a placarsi, non c’era possibilità di farla rimanere a galla il tempo sufficiente per entrare in porto, e quindi il capitano ordinò di continuare a sparare per chiedere soccorso. Un bastimento leggero che stava all’ancora dinnanzi a noi si arrischiò a mandarci una imbarcazione. Con grave pericolo questa si avvicinò al fianco della nostra nave, ma né a noi era possibile lanciarsi verso di essa, né essa riusciva a giungere a ridosso del nostro legno pericolante. Finalmente quei marinai, vogando di tutto cuore e rischiando le proprie vite per salvare le nostre, ci vennero abbastanza vicini. I nostri uomini da poppa lanciarono in mare una corda col segnale galleggiante attaccato in fondo; poi la filarono per una lunghezza sufficiente da farla raggiungere dai marinai sulla barca, che vi si attaccarono. Potemmo così tirare l’imbarcazione tanto vicina che ci riuscì a tutti di saltarvi dentro.

    Raggiunta la barca, non conveniva né a noi né a loro tornare verso la loro nave. Fummo tutti d’accordo a costeggiare e vogare verso riva. Il nostro capitano promise che se la barca si fosse rotta contro la spiaggia, avrebbe risarcito i danni al proprietario. In parte remando, in parte abbandonandoci alla marea verso tramontana, la barca arrivò di sghembo nei pressi di Winterton Ness.

    Non era passato un quarto d’ora dacché avevamo abbandonato la nostra nave quando la vedemmo affondare, e allora compresi per la prima volta cosa volesse dire andare per occhio. Devo confessare che me ne ero reso poco conto quando i marinai mi avevano parlato di questo pericolo, perché ero così fuori di me che, quando dovetti abbandonare la nave, fui gettato nella barca, più che esserci disceso io. Il mio cuore era come morto, sia per il terrore che mi incombeva, sia per il timore di quanto poteva ancora accadere.

    Eravamo in balìa dei flutti e i rematori cercavano disperatamente di avvicinare la barca alla spiaggia. Ogni volta che la barca veniva sollevata sulla cresta di un’onda, potevamo scorgere la terra e la folla per le strade, pronta ad aiutarci appena fossimo stati vicini; ma avanzavamo ben lentamente verso la spiaggia, e riuscimmo a raggiungerla solo quando, passato il faro di Winterton, la costa piegava a ponente in direzione di Cromer, rompendo quindi un poco la violenza del vento. Qui finalmente, e non senza difficoltà, prendemmo terra sani e salvi. Arrivammo con le nostre gambe fino a Yarmouth, dove fummo accolti con una umanità corrispondente alla nostra grande sciagura, sia dalle autorità della città – che ci fecero assegnare dei buoni alloggi – sia dai privati, negozianti e proprietari di navi. Ci fu pure elargito denaro bastante per andare a Londra o tornare a Hull, come ci fosse meglio piaciuto.

    Se avessi avuto abbastanza senno da attenermi alla seconda possibilità e tornare a casa, sarebbe stata certamente una grande fortuna per me; mio padre, come nella parabola del nostro Salvatore, avrebbe certo anch’egli fatto macellare un grasso vitello al mio arrivo. Il pover’uomo, infatti, avendo appreso che la nave con la quale ero partito era naufragata davanti alle coste di Yarmouth, credette per molto tempo ch’io fossi annegato. Ma la mia cattiva sorte mi trascinava con una tenacia alla quale nulla poteva resistere; e benché parecchie volte sentissi i richiami della ragione e delle più pacate mie riflessioni, pure non ebbi la forza di arrendermi a queste voci.

    Il mio compagno, quello stesso che aveva tanto contribuito a confermarmi nei miei tristi propositi, che era figlio come dissi del capitano, si mostrò anche meno coraggioso di me quando gli parlai la prima volta dopo il nostro arrivo a Yarmouth, cioè dopo due o tre giorni, perché eravamo in alloggi separati. La prima volta che lo vidi, dunque, aveva un modo di fare molto diverso dal solito ed un aspetto molto malinconico, quando gli chiesi come stesse. Era in compagnia di suo padre, al quale raccontai chi fossi e come avessi intrapreso quel viaggio solo per esperimento, con l’idea di andare molto più oltre. Il capitano, guardandomi, mi disse con accento grave e solenne:

    «Ragazzo mio, dovete abbandonare ogni pensiero di rimettervi per mare, e vedere in quanto è accaduto un chiaro segno che la vostra vocazione non è quella del marinaio».

    «Perché, signore?», gli chiesi. «Forse voi non contate di tornare in mare?»

    «Il mio caso è diverso: navigare è la mia professione e quindi anche il mio dovere. Ma dato che voi avete fatto questo viaggio per prova, dal gusto che ne avete ricavato potete capire quanto ne ritrarreste ancora, se persisteste in questo proposito. Forse la disgrazia che ci è toccata ci è venuta per causa vostra, come accadde alla nave di Tarso che portava Giona. Ditemi, per quale combinazione vi trovaste imbarcato con noi?».

    Gli raccontai qualcosa della mia storia, e allora si abbandonò ad una singolare collera, quando ebbi finito di parlare:

    «Giovanotto», concluse, «state sicuro che, se non tornate indietro, dovunque andiate non troverete che disastri e guai, finché i presagi di vostro padre non si saranno interamente avverati».

    Dopo queste parole ci separammo, ché avevo ben poco da rispondergli: non lo vidi più. Che sia accaduto di lui lo ignoro. Quanto a me, avendo un po’ di denaro nella borsa, mi avviai per terra a Londra, e sia lungo il cammino che in quella città fui molto perplesso sul genere di vita che avrei abbracciato, indeciso tra il tornare a casa e il rimettermi in mare. Per quanto riguarda il tornare a casa, la vergogna soffocava i migliori proponimenti che mi venivano in mente, perché ciò a cui pensavo subito era la derisione che avrei trovato tra i miei concittadini; arrossivo all’idea di rivedere, non solo mio padre e mia madre, ma qualunque altra persona. Da allora ho fatto spesso questa considerazione: quanto, cioè, sia incoerente ed assurda l’indole umana nello stabilire i princìpi che ci dovrebbero razionalmente guidare. Non si ha vergogna della colpa, ma del pentimento; non ci vergogniamo di un’azione che ci merita giustamente la fama di stolti, ma di un ravvedimento che ci farebbe guadagnare invece la nomea di saggi.

    Per qualche tempo rimasi, ad ogni modo, incerto sul partito al quale attenermi; ma prevaleva sempre l’insormontabile ostilità a tornare a casa. E mentre durava questa indecisione, il ricordo dei precedenti disastri svaniva del tutto, e con esso ogni tendenza a tornare. Per cui, finalmente, abbandonata ogni idea del genere non pensai ad altro che ad intraprendere qualche viaggio. La malaugurata mania che mi portò la prima volta lontano dalla casa paterna, che seminò nella mia mente il desiderio vago e mal inteso di far fortuna, che s’impossessò di me al punto da rendermi sordo a tutti i buoni consigli, alle preghiere e persino agli ordini di mio padre, quella stessa sventurata mania mi spinse a scegliere la più sventurata impresa della mia vita: mi imbarcai su una nave diretta alla costa dell’Africa, o, come usano dire gli uomini di mare, ad un viaggio in Guinea.

    Fu una grossa sventura in tutte queste spedizioni che non mi imbarcassi mai come marinaio. Avrei certamente sofferto molto, ma avrei anche imparato i doveri e il mestiere di un marinaio, ed avrei potuto a suo tempo diventare pilota o ufficiale, se non capitano; ma siccome il mio destino era quello di scegliere sempre il peggio, così mi comportai anche in quella occasione, ed essendo ancora provveduto di denaro e ben vestito, volli salire a bordo in qualità di passeggero.

    Avevo avuto la fortuna di conoscere a Londra un eccellente compagno; una fortuna che non capita sempre a giovani scapestrati e spensierati come ero io in quel tempo, poiché il demonio, in genere, non dimentica mai di tendere presto insidie alla gioventù. La mia prima conoscenza era stata dunque con un capitano che veniva dalla costa della Guinea e che, avendo ottenuto buoni risultati con quel viaggio, era deciso a ritornarvi. La mia conversazione, che in quel tempo non era sgradevole, gli piacque, e avendo appreso che volevo vedere il mondo mi propose:

    «Se voleste venire con me, non sopportereste nessuna spesa; sareste mio compagno e mio commensale, e se potete portare qualche merce con voi, ne ritrarreste dei buoni vantaggi commerciali, tali forse da incoraggiarvi a maggiori iniziative, successivamente».

    La proposta venne accettata subito, e, entrato in cordiale amicizia col capitano che era davvero un uomo onesto e lealissimo, mi imbarcai con lui portando con me un po’ di paccottiglia che, grazie alla disinteressata onestà del mio amico capitano, aumentai considerevolmente. Portai con me circa quaranta sterline in quegli oggettini e cianfrusaglie che il capitano stesso mi suggerì di acquistare. Queste quaranta sterline le avevo messe insieme grazie all’aiuto di alcuni parenti coi quali avevo mantenuto dei rapporti, e che credo erano riusciti ad indurre mio padre, o almeno mia madre, a mandarmi questa somma per la mia prima prova.

    II. Prigionia tra i Mori e avventurosa fuga su una scialuppa

    Compii così il solo viaggio fortunato fra tutte le avventure della mia vita, e lo dovetti all’integerrima onestà del mio amico, col quale inoltre acquistai una sufficiente cognizione dei princìpi della matematica e della nautica; appresi a valutare la rotta di una nave, a prendere le misure delle altezze, insomma a conoscere i principali rudimenti necessari ad un marinaio, perché lui si divertiva ad insegnare come io ad imparare. A farla in breve, quel viaggio mi rese insieme marinaio ed esperto in commercio, e riuscii a portarmi a casa cinque libbre e nove once di polvere d’oro, che mi resero a Londra circa trecento sterline. Ma ciò mi riempì sempre più la testa di quelle chimere di grandezza che furono poi la mia definitiva rovina. A parte tutto, anche in questo viaggio ebbi le mie disgrazie, e principalmente fui continuamente malaticcio, per una febbre maligna portatami dal caldo eccessivo: il nostro principale commercio lo tenevamo lungo una costa ad una latitudine che andava dai quindici

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