Il Divino Sequel
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About this ebook
I due amici si rivedranno solo molti anni dopo, da adulti. William decide di indagare ancora su quel documento che sembra rivelare un messaggio nascosto all’interno della Divina Commedia. Per questo, sulle tracce di Dante e di Virgilio, chiede l’aiuto del suo vecchio compagno di collegio, Zvanì, meglio noto come Giovanni Pascoli…
Dario Rivarossa ilTassista Marino è nato a Cuneo nel 1969, ma non ci ha fatto il militare come Totò, e infatti non è "uomo di mondo". Lavoricchia come giornalista e traduttore da Inglese e Tedesco. Hobbeggia a spron battuto nei settori poesia barocca (https://tassonomia.blogspot.it), illustrazione (Flickr, DeviantArt), conferenze su Dante, Rinascimento, arte, letteratura anglosassone e/o dell'orrore. A proposito di orrore: vive a Perugia. Ma felicemente sposato con Paola. Questo è il suo... secondo, forse terzo o quarto libro... dipende cosa fa punteggio. Niente, esatto.
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Book preview
Il Divino Sequel - Dario Rivarossa
terebinto.edizioni@gmail.com
Capitolo 1
Urbino, Collegio Raffaello
, 9 agosto 1867.
Negli edifici di proprietà dei padri Scolopi sono rimasti gli studenti ancora in attesa di essere prelevati dai genitori per le vacanze estive. I ragazzini non fanno altro che ronzare in giro tutto il giorno, rincorrendosi nel giardino che separa le due scuole chiuse, tra il profumo di timo e voli a zig-zag di farfalle.
Zvanì ha 11 anni. È un bel pomeriggio di sole: lui si stacca da un chiassoso gruppo di coetanei e decide di fare un altro giro sul retro dell’edificio posteriore, prima di raggiungere in camerone i fratelli Giacomo, Luigi, Raffaele. Indugia un po’, camminando in punta di scarpe sulle fessure tra un lastrone e l’altro del marciapiede. Gli piacciono gli effetti di luce e ombra sulle modanature, i bei fiori e le cosiddette erbacce che crescono silenziosamente negli angoli poco battuti.
Non appena ha svoltato del tutto dietro la scuola, scomparendo dalla vista dei suoi compagni, va a sbattere contro un grande sasso buttato nel bel mezzo del marciapiede. Ma è roccia leggera: gli basta averla colpita col piede, con pochissima forza, per farla saltare in avanti di trenta centimetri.
Non appena batte al suolo, dal sasso viene fuori una voce: — … E pppàrte il traversoneee! Ma è… bbbravo!… Buffon a bloccare in area. Applausi. Si riparte in avanti. Aaah peccato, troppo lungo il lancio per Del Piero, che ora cerca di…
Zvanì resta come incantato per un minuto, mentre la voce, anzi le due voci continuano a entusiasmarsi per quello che sembra uno sport; sullo sfondo si percepiscono grida e fischi di una folla, attutiti.
La roccia è lunga circa mezzo metro, di un color grigio scuro, quasi nero basalto. La sua superficie è a forma di ellissoide, liscia, assolutamente regolare, decorata da qualche piccolo cerchio che sembra inciso. Le voci escono da un cerchio più grande, su un lato dell’oggetto.
— … la fine del primo tempo. Un primo tempo caratterizzato nel primo quarto da una Juventus indubbiamente più aggressiva in attacco, che avrebbe probabilmente meritato di realizzare maggiormente… Sì, no, sì, scusa se t’interrompo ma giunge proprio ora il risultato che conferma…
Zvanì raccoglie il sasso da terra. Leggero lo è sul serio, perfino più di quanto sembrasse. Facendo scorrere le mani sulla superficie scura e liscia, tasta a caso sui cerchietti che le affondano dentro. A un certo punto, le voci scompaiono di colpo. Anche una lucina rossa, che sembrava un minuscolo cero votivo inserito nella roccia, si spegne. In quel momento nota un’ombra a pochi passi davanti a lui, alza gli occhi e vede un ragazzo, che sta a osservarlo con le braccia incrociate e con un’espressione in faccia difficile da decifrare, ma più o meno perplessa, come se stesse valutando una serie di ipotesi conflittuali in simultanea.
— Ciao — dice Zvanì.
— Ciao.
In quell’istante Zvanì si accorge che il nuovo arrivato ha tratti somatici che somigliano abbastanza ai suoi; del resto, i piccoli ospiti dei collegi dell’Ottocento erano un po’ tutti uguali tra loro. Abiti, ovviamente, identici. Il nuovo arrivato però ha un fisico più alto e sottile di quello di Zvanì, il quale ha l’impressione di trovarsi di fronte a uno specchio deformante in un luna park.
— Mi chiamo Zvanì… cioè, Pascoli Giovanni. Tu come ti chiami? — gli chiede dopo un’altra decina di secondi. Per ora l’originalità dei dialoghi non è il forte di questo romanzo.
— Io sono William Di Guglielmo. — Di fronte all’aria interrogativa dell’interlocutore, aggiunge: — Mia madre è… era inglese.
— Oh… era
… Mi dispiace.
Altro minuto di silenzio.
Poi Zvanì si accorge che gli occhi di William rimangono fissi sulla roccia che lui tiene ancora tra mano.
— Era… è tuo, questo?
— Be’… s-sì, l’avevo trovato, prima di… prima, poco fa. L’avevo posato qui perché uno mi ha chiamato, uno della mia classe, sai, un tremendo ficcanaso… perciò l’ho lasciato qui, mi sono, hmm, sbarazzato di quella piattola e sono venuto a riprenderlo.
— Dove l’hai trovato? Che cos’è?
William accenna al gesto di allungare la mano verso l’oggetto, poi la lascia ricadere su un fianco. — Senti, che ne dici se te lo racconto in privato?
Zvanì annuisce senza parlare, e protende le braccia per restituire l’oggetto al legittimo scopritore.
William possiede una cameretta personale in un’altra ala del comprensorio, segno di notevole agiatezza economica della famiglia, anche se Pascoli non aveva mai sentito nominare prima i Di Guglielmo. L’arredo interno è molto inglese: alcuni dipinti a olio con ritratti di famiglia, invece di dagherrotipi ovali; stampe naturalistiche, perlopiù raffiguranti uccelli di specie tropicali; un modellino di veliero.
I due ragazzi siedono sul letto (a proposito, sarebbe vietato agli ospiti del collegio entrare nelle camere altrui, probabilmente per timore che insorgano casi di omosessualità, ma in agosto la disciplina si allenta parecchio); uno dalla parte del cuscino, uno al fondo, posando al centro del materasso il misterioso ellissoide nero.
— Dimmi — lo esorta Zvanì, che non sta più nella pelle.
— Allora, sì, l’ho trovato nei depositi di sopra.
— La muffa della muffa
? — chiede Zvanì abbozzando un sorriso.
William annuisce. All’ultimo piano di quell’edificio c’è un lungo corridoio, polveroso e semibuio, pieno di cianfrusaglie; i ragazzi più dispettosi, che definiscono muffa
il collegio, hanno ribattezzato muffa della muffa
quella raccolta di cose ancora più vecchie dei vecchi
preti e professori, cioè gente con oltre quarant’anni. Lassù si trova un po’ di tutto: reti di letto rotte, materassi sfondati, statue mutile di santi in gesso, arredi natalizi risalenti all’incirca all’epoca dei re magi, scatoloni di libri macchiati, ingialliti e incurvati, e poi ancora pitali, e perfino un barbagianni impagliato, e chi più ne ha più ne metta. Guido Gozzano ne sarebbe incantato, ma deve ancora nascere.
— Ma che cos’è? Di che cosa parlano quelle… quelle voci? O mica saremo diventati Giovanna d’Arco? — chiede il giovane Pascoli.
William scuote la testa, sorridendo. — No, tranquillo, non siamo pazzi né eretici. Potevo magari pensarlo prima di avere conferma che senti anche tu ciò che sento io. Ora, partiamo dai dati solidi. L’argomento sembra quel gioco che in Inghilterra chiamano foot-ball, palla da prendere a calci.
Zvanì fa un gesto di assenso. — Ah sì, esisteva anche in Italia già nel Medioevo.
— Infatti le voci parlano un italiano strano. Però non mi sembra tanto medievale. Proprio non ce lo vedo il Cavalca a usare parole così. — Tocca uno dei cerchietti sull’oggetto, che ricomincia a emettere il sonoro, mentre ricompare la lucina rossa: — … interrotta dall’arbitro già al quinto del secondo tempo, ricordiamo per coloro che si fossero messi in collegamento in questo istante… interrotta, appunto, a seguito degli incidenti provocati dagli ultrà interisti, purtroppo, sia all’interno che all’esterno dello stadio. La fascia a bordo campo adesso è quasi completamente avvolta dai fumogeni, rendendo particolarmente difficoltoso valutare adeguatamente la situazione dalla nostra postazione. Attendiamo… Ma… ecco!! In questo momento la polizia in tenuta antisommossa, la polizia in tenuta antisommossa! Sta… — Spegne di nuovo.
— Già. Non ho capito metà del discorso — commenta Zvanì — ma sembra che descrivesse delle ribellioni sedate da… non ha detto fucilieri
, mi pare.
— Se è per questo, la violenza negli stadi esisteva già ai tempi dei Romani.
— Be’, ma di certo quello non era latino. A meno che padre Gandolfo non ci abbia spiegato tutto il contrario di com’era.
Alcuni secondi di riflessione personale.
A interrompere il silenzio è William. — Ho una mia ipotesi.
— Sentiamo!
— Potrebbe essere un trucco inventato dal mago Atlante, hai presente quello dell’Orlando furioso.
— Seee, spiritoso, e io che sto anche ad ascoltarti. E a portarlo nella muffa della muffa, è stato l’ippogrifo.
— Perché no? Non hai sentito la notte scorsa quel potente rombo di ali, seguito da uno stridio che pareva emesso da mille aquile?
— Perdiana, ora che mi ci fai pensare… E io che l’avevo interpretato come il volo della fatina del sonno!
Scuotono entrambi la testa, ridacchiando. Poi per alcuni secondi torna il mutismo.
— Va bene, niente mago Atlante — riprende William. — A volte però, più gli eventi sono misteriosi, più la loro spiegazione è vicina a noi
.
— Hmm… Shakespeare?
— No, lo dice sempre mio padre. Quindi questa roccia… — Abbassa lievemente il tono di voce: — Ricordi padre Antonio?
— Quello che insegnava qui l’anno scorso? — risponde Zvanì.
— Proprio lui. Sai perché lo hanno trasferito?
— Be’… — Pascoli ha ricevuto un’educazione molto tradizionale, ma non per questo ha gli occhi foderati di mortadella. — Perché… ecco, gli… piacevano… quelli come noi, insomma.
William annuisce gravemente. — E ha dovuto fare armi e bagagli in fretta e furia. Ma quelle sue… hmm, mani, gli servivano anche per altre attività, sai? Per molti preti, sai, fare il prete è un modo per avere le cose che gli servono: studiare, poi acquistare terreni o strumenti, visto che i loro interessi sono altri, mica di andare a declamare il Vangelo. Nel caso di padre Antonio, la sua passione erano le scienze, sai? Soprattutto la techne. Passava ore e ore e ore, anche di notte, a inventare macchinari strambi, a cosa servissero poi non chiedermelo perché non lo so. Bene, ecco un pezzo che ha dimenticato qui — accarezza l’ellissoide nero. — I padri glielo hanno ritrovato in camera e, anziché usargli la cortesia di spedirglielo nella sua nuova casa, lo hanno sepolto nella muffa.
— Sembra una buona spiegazione dei fatti — conferma Zvanì. Il che non risolve ancora il problema principale, e lo dice: — Ma, alla fine, a che doveva servire ’sta benedetta invenzione?
William fa spallucce. — Procediamo per esclusione. Si sente il racconto di una gara di foot-ball. Dei tempi antichi non è, perché parlano italiano. Ma neppure del presente, direi: per quanto siano diversi i dialetti d’Italia dal Piemonte all’ex Regno di Napoli, stento a credere che abbiano questo modo di parlare da qualsiasi parte nella vost… nella nostra nazione. Grazie ai viaggi con papà ho conosciuto gente da ogni plaga d’Italia, perciò mi sento mi affermarlo con una certa sicurezza.
— Ma allora…
— Allora, restano le due ipotesi. O si tratta di un trucco, di un inganno, e in questo caso torniamo all’idea di Atlante, solo che al posto del mago ci mettiamo padre Antonio. Oppure… oppure quelle voci, che sembrano così appassionate, così reali, quelle voci vengono dal… futuro.
Zvanì strabuzza gli occhi, le parole gli si strozzano in gola. Alla fine ne esce un fievole sibilo: — Fiùùùùù… — Fin da quest’età, razionalismo e immaginazione si contendono la signoria della sua mente fertile.
— Incredibile, eh? Ma è praticamente l’unica versione superstite, ergo deve essere quella vera. — Armeggia con l’oggetto con aria distratta. — Una sorta di, hmm, orecchio di Dioniso
che permette di sentire lontano. Lontano. Lontaniiissimo. — A forza di toccare lo strano sasso nella parte posteriore, cioè il lato opposto a quello da cui provenivano le voci, all’improvviso scatta aperto un cassettino. — Oh! E questa nuova diavoleria che sarebbe?
William tira completamente il cassettino in fuori. Al suo interno si nota una piccola pergamena arrotolata, marroncina e grinzosa.
Zvanì fa per afferrarla. — No, fermo! — lo blocca l’amico. — Questa sembra antica. Magari medievale! A maneggiarla potrebbe sbriciolarsi. Serve molta cautela.
Il giovane Pascoli accosta gli occhi quanto più può al rotolo. Intravede sulla superficie interna della pergamena alcune lettere vergate a penna d’oca, sbiadite ma ancora decifrabili con un po’ di pazienza. Per il momento, gli riesce di interpretare una sola parola:
Virgilio
seguita da una freccetta.
Capitolo 2
Da bravo pragmatista anglosassone, William ha estratto il delicato documento dal cassettino usando un righello come paletta, senza stringerlo tra le dita; poi l’ha posato su un padellino che conserva di nascosto in camera per prepararsi uova e bacon a colazione; adesso mantiene il padellino sollevato a una certa distanza al di sopra di un bollitore acceso, in modo che l’umidità distenda le fibre della pergamena ma senza danneggiarla… ci si augura.
Ammorbidendola in questo modo, sarà possibile srotolarla senza ridurla a un mucchietto di frammenti. Ad archeologi e restauratori del XXI secolo si drizzeranno i capelli in testa per l’orrore, ma andrà ammesso che, per essere due ragazzini dell’Ottocento e con mezzi improvvisati, tutto sommato non stanno lavorando malaccio. Senza contare che tutte queste precauzioni sono una pura messinscena, come si scoprirà.
Mentre lui è tutto concentrato, serio serio, nell’operazione scientifica, a Zvanì la testa gira a mille. — Ma… senti…
— Sì? — chiede William, senza distrarsi di un pelo.
— Ma che ci faceva una pergamena medievale in… in una roccia da cui escono delle voci che parlano di foot-ball?
— A me, lo chiedi?
— Be’, sembravi così sicuro della tua spiegazione sulla presenza dell’orecchio di Dioniso
nella muffa della muffa
. Però, a pensarci bene, perché padre Antonio avrebbe dovuto nascondere un documento antico dentro un macchinario che ascolta la gente del futuro? Oppure è una specie di carbonella che fa funzionare l’oggetto?
— Naaa, figuriamoci — risponde William e, senza distogliere gli occhi dal padellino, tasta sul letto la roccia scura, fino a trovare il cerchietto che la fa riaccendere. Stavolta