La fine del Tempo, la fine del Mondo (Collana Starlight)
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About this ebook
Invece quel giorno arrivarono.”
Inizia così la nuova vita di Aleysha, prelevata da casa ad appena dieci anni e costretta a vivere nel Santuario insieme ad altri bambini come lei.
Aleysha ha un dono speciale e, proprio per l’energia che possiede e le abilità che apprende durante l’addestramento, si trova suo malgrado coinvolta in un progetto molto ambizioso: salvare il Mondo dalla distruzione.
Eppure, quello che desidera davvero la ragazza è di essere libera. Libera di tornare dalla mamma, di innamorarsi e seguire la strada che più preferisce. Libera di fare la sua scelta al di là di ogni obbligo. E l’incontro con Krynon la getta ancora di più nella confusione. Chi è quel ragazzo misterioso che l’aspetta nel bosco ogni giorno sempre alla stessa ora? Cosa le nasconde?
Combattuta tra scelte difficili e segreti da scoprire, Aleysha deve decidere se seguire il suo cuore o portare avanti il compito che le spetta.
Il passo per liberarsi dalle catene è breve, ma ogni scelta ha le sue conseguenze… a volte imprevedibili.
"Non voglio sprecare la mia vita a fare qualcosa che non ho scelto, che mi è stato imposto da altri. Non ho forse il diritto di essere felice?"
- Racconto fantasy -
Copertina a cura di Angelice Graphics
II edizione
Altri titoli della collana Starlight:
“Die Party” di Silvia Castellano
“Aurora d’Inverno” di Alessandro Del Gaudio
“Cuore di tenebra – Hope in the darkness” di Mariarosaria Guarino
“Darklight Souls. La Vista dell’Anima” di Melissa J. Kat
“Io sono Jophiel” di Jessica Verzeletti
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Book preview
La fine del Tempo, la fine del Mondo (Collana Starlight) - Alessandra Leonardi
copertina.
Prologo
Sarebbe stata l’alba se il sole non fosse stato impossibilitato a sorgere, bloccato all’orizzonte senza riuscire a muoversi. Un lieve lucore ambrato rischiarava appena la linea di confine tra cielo e terra, senza riuscire a sconfiggere le tenebre notturne. Su ogni cosa aleggiava buio e freddo e in quella penombra ogni essere vivente, animale o pianta, non poteva né crescere né sopravvivere. Da quanto tempo il mondo era così?
Già, il tempo. Un concetto che non aveva più alcun senso, sebbene mi ostinassi a tenere un computo, seppur impreciso, delle ore e dei giorni con la clessidra.
Arrancavo passo dopo passo sorreggendomi al mio lungo bastone, sulla strada che serpeggiava in mezzo alle macerie di quello che un tempo era stato il mio villaggio: un ridente borgo di collina, con casette in pietra, giardini rigogliosi, piazze affollate e soprattutto persone felici e operose.
Tutti morti.
Con le mie ossa piene di dolori e i piedi piagati dalle miglia percorse, ero finalmente vicina alla meta. Spesso, durante il lungo cammino, avevo controllato che il contenuto della mia borsa fosse ancora lì, per timore che l’avessi perso oppure che non fosse reale, bensì frutto della mia immaginazione. Una malinconia crepuscolare attanagliava il mio cuore; tra rimorsi e rimpianti, ripensavo a quello che era stato fatto e non avrebbe dovuto, e a quello che non era stato fatto, ma avrebbe dovuto.
Procedendo tra le rovine, riconoscevo qua e là ciò che erano state una volta e rammentavo istanti di un tempo remoto: luoghi, persone, echi di un passato morto e sepolto, ma così vivo ed eterno nei miei ricordi.
Attimi fuggenti che non torneranno più.
O forse sì.
Avanzando con le mie vecchie membra dolenti, arrivai di fronte a quella che era stata la casa della mia infanzia.
Lì, tutto ebbe inizio. Lì, tutto sarebbe finito.
Lì, tutto ebbe inizio...
Io e mia madre vivevamo sole: lei non mi rivelò mai chi fosse mio padre, né che fine avesse fatto. Praticava l’arte erboristica, e grazie al suo lavoro conducevamo un’esistenza più che decorosa. Avevamo un piccolo giardino pieno di piante medicinali, sul retro della casa, e intorno al vialetto dell’ingresso principale nascevano magnifici fiori: rose, ortensie dalle mille sfumature, peonie, gerbere e il glicine che si attorcigliava sull’archetto del cancello. Era un giardino rigoglioso, profumato, molto di più rispetto a quelli dei nostri vicini. Mia madre – Flaura era il suo nome – sapeva che ero una bambina speciale
e per questo cercava di tenermi nascosta il più possibile: non mi perdeva d’occhio un attimo. Quando ero molto piccola fu abbastanza facile per lei, ma in seguito diventò arduo trattenere il mio entusiasmo e la mia esplosiva carica vitale. Guardando il giardino dei vicini, infatti, percepivo l’energia delle pianticelle e degli esili alberi da frutta fluire dentro di me come se dialogassero col mio ki, chiedendo di essere curate, e non potevo esimermi da questo richiamo; così, a volte, sconfinavo nei recinti altrui sperando di non essere notata, ma mia madre iniziò ad accorgersene e prese a sgridarmi tutte le volte. Io ero dispiaciuta e non capivo perché si arrabbiasse tanto.
Solo in seguito capii perché volesse proteggermi, celarmi al mondo in modo così ossessivo.
Cercò di farlo anche quel giorno. Avevo circa dieci anni ed ero seduta a giocare in mezzo ai fiori del nostro giardino. Tutti sapevano che in quel periodo i Sapienti del Santuario del Ki giravano per i villaggi alla ricerca di bambini speciali
, ma Taitun, il nostro piccolo borgo sperduto tra le valli del Raflan, era lontano sia dalla Capitale del Regno di Ennor, Castilia, che dal Santuario, il quale si trovava sulle Catene dell’Aquila; eravamo quindi distanti dalle loro solite rotte.
Invece quel giorno arrivarono.
Mia madre era dentro casa, impegnata nella preparazione di un rimedio, e non si accorse del loro arrivo. Erano in quattro, due uomini e due donne; il più anziano di loro percepì subito la mia presenza, lasciò perdere le altre case e si diresse verso di noi. Vedendomi giocare nel giardino, il vecchio Sapiente si avvicinò con circospezione.
«Ciao, ragazzina! Come ti chiami? Quanti anni hai?» mi domandò con voce profonda, singolare in un uomo della sua età.
Nonostante mia madre mi avesse più volte detto di non farmi notare dagli estranei, e in caso fosse successo di chiamarla e correre via, avvertii un senso di profonda tranquillità, così rimasi ferma dov’ero e gli risposi.
«Mi chiamo Aleysha e ho dieci anni.»
«Non ho mai percepito tanto ki in una bambina della tua età! Devi assolutamente venire con noi al Santuario» disse, facendo un cenno verso gli altri che stavano con lui.
I due Sapienti più giovani entrarono e mi acchiapparono, senza ascoltare i miei strilli. Io non volevo andare con loro, mi chiesi come avessi fatto a essere così sciocca e a non dare retta a mia madre, ma ormai era troppo tardi. Stavo per essere strappata per sempre al mio piccolo mondo di bambina.
Il terrore s’impadronì di me, mi sembrava di soffocare mentre vedevo mia madre uscire di casa disperata, trattenuta a stento da un paio di vicini. Tutti sapevano che non era concesso interferire coi Sapienti: non c’era più nulla da fare. Quell’immagine velata dalle lacrime, di mia madre che gridava e piangeva nel nostro giardino fiorito, mi rimarrà impressa per sempre.
Neppure ricordo il momento preciso del mio arrivo al Santuario, né le ore successive: ero troppo terrorizzata, non riuscivo a ragionare.
Solo in seguito presi atto che mi trovavo in un luogo adagiato tra i monti, in un’ampia spianata ricoperta di neve.
Quella prima notte al Santuario non chiusi occhio, troppi pensieri affollavano la mia testa.
La mattina dopo mi portarono un bicchiere di latte caldo che bevvi con avidità, poi mi condussero