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Red carpet in noir. Delitto a Cinecittà
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Red carpet in noir. Delitto a Cinecittà

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About this ebook

La storia di questo noir riconduce a una confidenza ricevuta dall’autore da un personaggio di spicco del mondo del cinema italiano. Sono riconoscibili alcuni tratti di protagonisti reali, che mai potrebbero essere svelati senza creare danni irreparabili.
Si ritrova la vanità del divo della tv e del cinema che si sente arrivato e intoccabile, al contrario personaggi minori vengono trascurati e umiliati in un mondo dorato che alimenta gelosie, ripicche e propositi di vendetta. L’atmosfera si fa rovente quando non è drammatica e surreale.
La mano lunga e potente della politica e l’amore interessato della persona giusta, al momento giusto, non mancheranno di esasperare gli animi fino a minacciare la pace di chi si sente al sicuro dall’alto della sua posizione. Senza aver fatto i conti, però, con vecchi rancori che si risvegliano e fanno fuoco, quando non resta altro da fare, quando la follia prende il sopravvento.
LanguageItaliano
Release dateDec 19, 2017
ISBN9788885557123
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    Red carpet in noir. Delitto a Cinecittà - Antonio G. D’Errico

    cinecittà

    1

    Le luci del palcoscenico illuminavano i volti di quei giovani attori pieni di speranze. Dalla sala, nell’ombra, il regista faceva sentire la sua voce che voleva essere sottolineatura e discernimento. Molto spesso taceva. E restava assorto. Poi ripeteva le battute, cadenzando gli accenti, dando il ritmo agli attori che intonavano drammatizzando sulla scena.

    L’atmosfera durante le prove era estenuante, sempre la stessa, sempre piena di personalità che si contendevano la scena con i loro vizi e le loro virtù. Ogn’uno proponeva se stesso con la convinzione di essere il Gassman redivivo del teatro italiano.

    Pietro Vannucchi aveva i suoi sogni e le sue convinzioni che teneva in serbo per sé, sicuro che un giorno avrebbe abbandonato l’atmosfera di quel teatro per raggiungere i fasti dei riflettori del cinema. Nel mondo del cinema aveva già fatto il suo ingresso, certo come giovane attore, per piccole parti; ma aveva già maturato la sua piccola esperienza. E di sé aveva sentito parlare bene da registi che contano. Aveva ricevuto promesse per un ruolo importante in una nuova produzione della Rai.

    In Rai era di casa. La sua compagna attuale, più grande di lui di dieci anni, un’avvenente impiegata dell’Azienda Radiotelevisiva Italiana, aveva fatto il suo nome a importanti dirigenti i quali non avevano escluso la possibilità di dare spazio al giovane. Tutt’altro. Avevano confermato in più occasioni che la possibilità sarebbe stata certezza non appena si fosse presentata la prima opportunità.

    Pietro frequentava il teatro con la sicurezza che prima o poi avrebbe abbandonato la compagnia. Nonostante quest’intima convinzione, comunque, partecipava alle prove con la volontà e l’impegno che gli venivano richiesti. Era pur sempre lavoro, a cui bisognava dare valore.

    La mattina si alzava presto e faceva un giro in Rai, per farsi vedere, per non farsi dimenticare, per ricordare a quei dirigenti che egli era pronto per le loro proposte. I dirigenti gli sorridevano e gli stringevano la mano, cordiali, attenti a non deludere le aspettative del giovane. A volte Pietro aveva la sensazione che quelle attenzioni e quelle premure fossero dovute piuttosto al fascino che la sua compagna ispirava su quelli. Ma non dava ragione a questi turbamenti, e si rammaricava con se stesso di lasciarsi prendere dalla gelosia. Così confidava in pensieri migliori, elevati, nella fiducia di sé, e dava credito a quelle promesse che rinnovavano in lui la speranza.

    Giulia, la sua compagna, conosceva gli stati d’animo del giovane, i suoi dubbi e le sue speranze; e gli sorrideva con gli occhi splendidi, gli suggeriva di credere, di credere così come faceva.

    Tornava alla luce del sole Pietro, al sole di Roma, ai platani vigorosi di Viale Mazzini, alle aquile immobili nella piazza sui piedistalli di pietra. Mangiava un panino al bar Vanni, quando il sole bruciava alto nel cielo di mezzogiorno. Beveva un sorso di birra accompagnando un boccone difficile da mandare giù. Ad un tavolo in fondo alla sala, scopriva il volto noto di un attore o di un presentatore televisivo che consumavano un delicato impiastro di salse spalmate sopra un paio di bruschette calde.

    Nel pomeriggio prendeva la via del teatro e si immergeva nell’atmosfera languida della sala e del palcoscenico dove i giovani attori si preparavano a darsi battaglia a suon di spada, nei costumi di scena che davano forma e sostanza alla vanteria di quei poveri illusi.

    L’allestimento scenico riproduceva i luoghi del Macbeth di Shakespeare.

    2

    Giulia l’aspettava quando Pietro rientrava a casa la notte, prossima al mattino. Voleva sapere di lui, del suo stato d’animo, degli insulti più o meno celati che aveva ricevuto dai giovani della compagnia e quelli che egli aveva procurato. Voleva accertarsi che non si fosse disperato, non si fosse avvilito, che non avesse perso la fiducia e la speranza di credere che un giorno tutto quello sarebbe finito. Non aveva novità da proporgli riguardo alle promesse dei dirigenti dell’Azienda, ma voleva rassicurarlo che qualcosa sarebbe accaduto di importante, di nuovo.

    Giulia confidava soprattutto sulle sue possibilità, sulle opportunità che il suo lavoro all’interno dell’Azienda le permetteva se non di garantire con certezza almeno di favorire una scelta a un’altra. Non sapeva esprimere sinceramente un giudizio sul valore artistico del suo ragazzo. Ma l’amava. E questo sentimento privilegiato lo metteva al di sopra e davanti a tutti gli altri.

    Pietro non voleva che Giulia restasse sveglia ad aspettarlo tutte le volte. Sapeva che gli avrebbe fatto le stesse domande, avrebbe avuto la stessa attenzione per le sue angosce, avrebbe usato le stesse raccomandazioni. Non voleva niente di tutto questo. Voleva invece che dormisse, che si occupasse della sua pace, del ristoro del corpo e della mente abbandonati alle cure del sonno. Invece la trovava sempre lì, sul divano, con gli occhi stanchi, feriti dalle insidie del sonno, ma pronti a sbarrarsi una volta che egli entrava in casa. E con un ampio sospiro, sollevando il petto, aprendo la bocca a un sorriso che scopriva i denti bianchi, lo accoglieva con la voglia di sapere, di stargli accanto chissà per quale misteriosa ispirazione. E la frase consueta le schiariva la voce:

    - Allora? Com’è andata?

    Pietro sospirava, obliando i pensieri e i dubbi, i misteri e le angosce. Sorrideva, cercando la serenità per far fronte al dialogo previsto, consueto, sempre lo stesso.

    - È andata bene… Tu perché non sei a letto? È tardi. Non è necessario che sacrifichi il tuo riposo per aspettarmi.

    - Non è un sacrificio. Lo sai. Non riesco a prendere sonno se tu non ci sei.

    Pietro sorrideva, poi continuava:

    - Riesci, se vuoi…

    - No, - sorrideva Giulia, e balzava in piedi per sprofondare nell’abbraccio di lui. Gli sussurrava nell’orecchio: - Non riesco a stare senza di te.

    Pietro l’abbracciava teneramente, poi la prendeva per la mano e la tirava andando verso la camera da letto: - Allora andiamo a dormire.

    Giulia si lasciava condurre, andandogli dietro, sorridendo.

    3

    Una sera il regista interruppe le prove, sfuriando nella penombra della sala, sollevando le braccia, incurvando le dita, inarcando la schiena in modo solenne:

    - Ma insomma ragazzi! È una battaglia vera quella che conducete sulla scena! Roteate le spade, per Dio! Siete soldati che si affrontano su un terreno di guerra! Vince il più forte! Il più audace! Il più coraggioso! - scattò nelle spalle, stringendo i pugni, lo sguardo severo.

    Era un uomo di esperienza teatrale, il regista, il cui nome altisonante imponeva di per sé gravità alla persona. E forse proprio a causa del suo nome aveva intrapreso la carriera artistica, volendo onorare solennemente una pesantezza che gli era stata assegnata con la sua venuta al mondo. Geno Dado Montessori, così suonava per esteso la sua identità. Non aveva mai avuto un dubbio su cosa avrebbe fatto della sua esistenza. Fin da bambino aveva scoperto il fascino e il piacere dell’opera teatrale. Aveva letto e riletto i classici greci e latini, aveva sentito il valore e la potenza della parola scritta. Aveva riconosciuto in sé quella potenza e aveva seguito quasi per istinto naturale la volontà di farsi interprete di quella parola. Aveva diretto attori tra i più grandi del panorama teatrale italiano. E aveva riscosso puntualmente critiche di elogio e riconoscimenti di notevole valore. Ora voleva cominciare con una nuova sfida: fare di quei giovani promettenti degli attori veri e soprattutto degli uomini valorosi. Queste erano le sue intenzioni. Ma non aveva fatto i conti con le possibilità di quegli stessi, i cui nomi non erano all’altezza del suo. Si chiamavano Cesare, Corrado, Alessio, Maria, Claudia, Gina seguiti da cognomi come Montasio, Brindi, Menegucci, Tarantino. Sembravano nomi di cose o di luoghi più che di persone. Forse faceva eccezione solo Mayer, Alessio Mayer, certamente più interessante ma le sue capacità smentivano le potenzialità insite nel nome. Era piuttosto ansioso, insicuro, pronto alla sottomissione, alla vigliaccheria, a smentire una sua convinzione per affermare quella espressa da un altro. Temeva il giudizio di tutti, senza badare a fare del proprio giudizio e del proprio valore la fonte di saggezza della sua esistenza. Cercava di fare il simpatico, scivolando all’istante nel dubbio, nel timore che qualcuno parlasse male di lui, che gli volesse nuocere, che volesse sottrargli qualcosa. Parlava a scatti, con una debole voce soffocata, quasi un sussurro. Gli occhi erano sempre in agitazione, alla ricerca di scoprire un inganno, un tradimento.

    Molto spesso Mayer cercava il favore e la complicità di Pietro, il quale sebbene avesse un turbinìo nell’animo di sentimenti nascosti, mostrava all’esterno comunque serenità e vivacità di sguardo e attenzione. Era propenso a dare più che a ricevere. Era capace di sdrammatizzare nelle situazioni più imbarazzanti e tese.

    Ora che Geno Dado Montessori era in piedi di fronte a quei giovani, con lo sguardo fiero e la delusione negli occhi, Pietro sorrise a Mayer il quale si era chiuso in se stesso, ritraendo la testa nelle spalle, il cuore palpitante di insicurezza.

    - Oh, - fece Pietro, richiamando l’attenzione dell’altro, - che fai? Guarda che se continui a tirare dentro la testa ti viene la gobba come una tartaruga!

    Mayer spalancò gli occhi, colto dal timore. Allungò all’istante il collo, cacciando la testa. Sorrise a Pietro, come se lo volesse ringraziare per l’avvertimento.

    Pietro sorrise: - Non allungare troppo il collo però, - continuò, scherzando - se no ti cresce come quello di una giraffa!

    Mayer scattò di nuovo, preoccupato. Aggiustò il collo ad un’altezza non troppo rischiosa. Guardò Pietro, per cercare il suo consiglio.

    - Va bene, - gli disse, - così va bene.

    Mayer sorrise, rassicurato.

    Geno sprofondò sulla poltrona in sala, dopo che mise fine al suo incitamento, proponendo un break: - Cinque minuti, il tempo di un caffè.

    Gli attori abbandonarono il palco e corsero verso il bar, nel foyer del teatro.

    4

    Pietro diede uno strappo a Mayer con la macchina, alla fine delle prove.

    - Perché non ti fai la macchina anche tu? - disse all’improvviso, mentre correvano sulla Flaminia nuova.

    - Eh? - si scosse Mayer, come se si fosse ripreso dall’influsso di uno smarrimento ipnotico.

    Pietro sorrise, soffiando dal naso il fumo della sigaretta: - Da dove torni, Alessio?

    - Perché? - si turbò Mayer, in preda a una nuova inquietudine.

    Pietro scosse la testa. Sospirò. Con tono di voce rassicurante e carezzevole, ripeté la domanda sul perché non avesse pensato di comprarsi una macchina. - Anche vecchia, ma almeno saresti autonomo per spostarti in città.

    - Perché, ti dà fastidio darmi uno strappo? - rispose Mayer, con un’altra preoccupazione.

    - No, non mi dà fastidio… Lo dico per te… Non ti viene voglia di muoverti, di andare in giro, così… senza una direzione… Per il gusto di andare?

    - No, - sorrise. - No… A me non viene voglia… Se non ti disturba, preferisco essere accompagnato.

    Pietro lo guardò, sorrise vedendo nel suo sguardo un nuovo imbarazzo.

    - No, non mi disturba. - Restò in silenzio.

    - Non ho neanche la patente di guida, veramente, - ruppe il silenzio Mayer, con un sorriso timido.

    - Perché non te la prendi, la patente di guida?

    - Mah, per intanto non mi serve… Non ho neanche la macchina, - sorrise Mayer.

    Pietro sorrise allo stesso modo.

    Sotto la casa, Pietro fermò la macchina: - Ecco qua. Sei arrivato.

    Mayer lo ringraziò, aprì la portiera e scese dalla macchina: - Salutami Giulia, mi raccomando!

    - Sì, te la saluto, va bene.

    - Grazie ancora, eh!

    Pietro assentì con la testa e lo salutò. Accelerò la macchina rifacendo la Flaminia nel senso opposto.

    5

    Giulia era scoraggiata e depressa, quel pomeriggio di domenica. Aveva ricevuto la telefonata del suo ex marito, che le diceva di riprendersi il figlio in casa perché con lui non poteva stare.

    Pietro entrò in casa. Aveva girato tutto il giorno per i viali intorno alla città, senza una direzione, per trovare una serenità e una pace che solo la velocità della macchina sapeva dargli nei momenti in cui aveva bisogno di ritrovare se stesso, lontano dalla mediocrità di quegli illusi su quel palcoscenico che cominciava a essere una costrizione insopportabile.

    - Che cos’hai? - chiese con la serenità che aveva raggiunto, dispiaciuto per la delusione che Giulia manifestava negli occhi spenti, segnale dell’animo scosso.

    - Niente, - rispose senza celare il suo disagio. - Mi ha chiamato Alessandro…

    - Beh, allora? Non è una novità!

    Lo guardò un istante per scorgere la sua disposizione d’animo: - Non è stata la solita telefonata. Vuole che riprenda Ilario con me.

    - Avrà dei motivi validi per chiederti questo!

    - Non mi piace questa ironia! - cambiò tono e volontà.

    - Non sto ironizzando, - rispose con lo stesso tono e la stessa volontà.

    - È meglio! - disse seccamente.

    Pietro la guardò senza mutare espressione. La serenità che aveva raggiunto correndo in macchina, ora svaniva nella pesantezza delle mura di casa. Indovinava nel nervosismo di lei tutti i dubbi e le ansie che le aveva insinuato il pensiero di dover accogliere in casa un figlio che era diventato poco più che un estraneo. Aveva vent’anni il ragazzo, senza lavoro e senza nessun desiderio di cercarselo. Viveva dove meglio gli conveniva, dalla madre o dal padre, secondo l’atmosfera che si respirava in una casa o nell’altra. E certamente ora a casa del padre non c’era l’atmosfera per garantirgli una vita tranquilla, fatta di abbandono al piacere del letto, allo svago notturno in qualche locale alla moda, alle richieste di soldi per soddisfare i suoi vizi. Forse non c’era più posto in casa per il ragazzo, perché il padre doveva fare spazio a un amore nuovo sbocciato all’improvviso.

    Forse Giulia temeva di perdere spazio a casa sua, e soprattutto di perdere le occasioni per stare insieme a Pietro, una volta che il figlio si fosse accomodato da lei. Anche se la casa era grande, c’era spazio per il ragazzo, Giulia temeva per le difficoltà e il disagio di una convivenza che avrebbe solo potuto creare incomprensioni e dispiaceri.

    - Che cosa ti preoccupa? - le chiese Pietro, dopo che sembrava avesse un poco allentato l’inquietudine.

    - Non mi preoccupa niente. A te che cosa preoccupa?

    - Il figlio è tuo, io non ho la responsabilità di dover dare fondo al mio senso paterno.

    Giulia scosse leggermente la testa, sospirò turbata: - Non ti metterebbe a disagio la presenza in casa di un ragazzo di vent’anni?

    - Non credo lui provi disagio per la mia presenza. Poi temo che non ci incontreremo molto spesso, perché i nostri orari di entrata e di uscita sono assolutamente insovrapponibili.

    - Mah, - sospirò Giulia. - Sono stanca, vado a sdraiarmi sul letto.

    - Vai, se ne hai bisogno.

    - Tu non vuoi venire a farmi compagnia?

    - Non lo so. Forse più tardi. Voglio mangiare qualcosa prima.

    - Va bene, io vado.

    Pietro avvertiva un leggero disagio interiore, come se un sentimento inquieto volesse scompigliargli l’anima. Aprì il frigo e afferrò a caso qualcosa da mangiare, che consumò in fretta con bocconi voraci. Restò seduto in cucina, il tempo di capire cosa volesse e dovesse fare. Non sapeva se andare in camera da letto, sentiva piuttosto il bisogno di uscire. Di correre per le strade, di cercare un angolo buio dove fumare e magari dormire. Si alzò dalla sedia. Aprì la porta della camera da letto. Giulia era girata sul fianco, sembrava stesse dormendo, Pietro restò a guardarla per capire se dormisse davvero.

    - Che fai? - disse Giulia sommessamente, senza compiere nessun movimento.

    - Non dormi? Io pensavo di uscire.

    - Dove vai? - si girò per guardarlo, per vedere la sua espressione.

    - Non lo so… In giro.

    - Non vuoi stare con me?

    - Si, voglio stare, - biascicò, confuso. - Ma pensavo di fare prima un giro, per prendere aria.

    - Non ti piace più l’aria di casa?

    Soffiò nella gola: - Senti, per piacere, è meglio che esca. È meglio anche per te. Ti riposi.

    - Ieri sera ho parlato con il dottor Crovato, - disse cambiando tono, con l’aria lugubre. - Mi ha detto che è fallito il progetto del film.

    Pietro trattenne l’angoscia che quella notizia in un lampo gli fece salire alla testa. A fatica mantenne l’equilibrio: - Non fa niente! - Masticò tra i denti. - Me l’aspettavo da quello… Ci saranno altre opportunità.

    - Non ce ne saranno più…

    - Perché? - si appoggiò allo stipite della porta, colpito da quella sentenza che arrivava come una minaccia definitiva.

    - Perché non vieni accanto a me? Ne parliamo con calma.

    - Basta! - gridò Pietro, recuperando il residuo di forze. - Che cosa mi devi dire? Dillo! Sono pronto ad essere crocifisso! Dillo!

    Giulia restò calma, comprendendo quello sfogo. Poi col tono pacato, un po’ addolorato: - È così, Pietro. Non ci sono speranze per te. Mi ha confermato la stessa cosa il dottor Germani, il progetto del film è stato cancellato.

    Pietro chiuse gli occhi, sospirando di rabbia e delusione: - Va bene, esco, - chiuse la porta.

    - Aspetta Pietro! Aspetta! - gridò Giulia dalla stanza.

    Pietro aprì la porta di casa e corse giù per le scale, ansimando, correndo.

    Giulia si sporse sulla balaustra, senza poter far niente per fermarlo. Avrebbe voluto gridare, avrebbe voluto dire che non era colpa sua, non voleva dargli quella notizia. Ma prima o poi avrebbe dovuto sapere la verità. Aveva voglia di piangere, mentre il rumore dei passi dell’uomo che amava rimbombavano in lontananza giù per le scale.

    Entrò in casa a sfogare il pianto, soffocando nella stoffa del divano il respiro che non trovava pace.

    6

    Ilario era un ragazzo taciturno. Sembrava covasse dentro di sé sdegno e rabbia contro il mondo intero.

    La madre cercava in ogni modo di conoscere un dettaglio della vita del figlio che potesse indicarle una sicurezza, una certezza: quali persone frequentasse, se avesse una ragazza, se avesse bisogno di un consiglio, di un suggerimento. Ma il ragazzo rifiutava la parola ed era avaro persino coi gesti. Niente. Nessun segnale, nessun cenno che potesse indicare una volontà, un’apertura.

    Giulia era disperata. Neanche Pietro parlava più. Rientrava più tardi del solito. E lei restava a lungo sul divano ad aspettarlo, prima di addormentarsi. Molto spesso non rientrava, e Giulia si impensieriva seriamente per queste sue continue assenze.

    - Dove sei stato? - gli chiedeva le poche volte che aveva l’occasione di incontrarlo.

    - Che importanza ha? - rispondeva secco

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