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Variazione umana di una reliquia.: Un romanzo grottesco.
Variazione umana di una reliquia.: Un romanzo grottesco.
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Ebook172 pages2 hours

Variazione umana di una reliquia.: Un romanzo grottesco.

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About this ebook

Eugenio detto Genio è un neolaureato torinese, figlio di padre siciliano.
Ad un anno dall’inizio del Giubileo del Duemila, Genio eredita una valigia di reliquie provenienti da un’importante famiglia di Palermo.
Il ragazzo inizia a vendere la sua raccolta, ma la particolarità di questa merce  lo mette in contatto con un’umanità varia e spregiudicata, con un mondo senza bellezza che rivela la mercificazione inquietante di ogni aspetto della società.
L’Anno Santo diviene un’occasione di riscatto, grazie ad un’idea che unisce la furbizia al convincimento delle masse. Un’operazione che si rivelerà realistica fino al grottesco.
È una commedia irriverente che descrive il mondo moderno, un’allegoria latina divertente e tragicomica, che unisce la solida tradizione degli italiani ad un presente fatto di insicurezze.
L’arte saprà ancora codificare le emozioni e insegnare l’amore, con una prima“Sindrome di Stendhal”?
LanguageItaliano
Release dateDec 12, 2017
ISBN9788827529591
Variazione umana di una reliquia.: Un romanzo grottesco.

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    Variazione umana di una reliquia. - Davide Fiore

    Davide Fiore

    Variazione umana di una reliquia.

    Un romanzo grottesco.

    UUID: 00d41ad6-0960-11e8-90e4-17532927e555

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Capitoli

    Umanità Vs Reliquie.

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    9

    10

    11

    12

    L'autore

    «Ciò che sarete voi noi siamo adesso/

    Chi si scorda di noi scorda se stesso»

    (un epitaffio a Milano).

    Umanità Vs Reliquie.

    Eugenio detto Genio è un neolaureato torinese, figlio di padre siciliano. Cresciuto in un quartiere di migranti intraprendenti, il giovane vive tra i palazzoni moderni di una comunità organizzata, quasi isolata, che egli osserva con gli occhi della sua generazione. In una sola strada, emergono fiere le regionalità dell’intera nazione, quasi si trattasse di un’Italia in miniatura, separata dalla grande città attorno.

    Ad un anno dall'inizio del Giubileo del Duemila, Genio eredita una valigia di reliquie provenienti da un’importante famiglia palermitana, reliquie rese celebri in uno dei più importanti romanzi italiani del Novecento.

    Con la difficoltà di chi non trova un lavoro dopo gli studi, Genio inizia a vendere la sua raccolta, ma la particolarità della merce lo mette in contatto con un’umanità varia e spregiudicata. Il mondo che gli si apre di fronte, lo porta a scontrarsi con la perdita di valore della bellezza, la mercificazione fuori controllo della cultura, la corruzione e il clientelismo della società, oltre al generale senso di nichilismo che attanaglia le persone. La stessa religiosità millenaria sembra frammentarsi in un sottobosco di accumulo, di credulità popolare, con un prevalere della troppa roba del mondo industriale.

    La prossimità dell’Anno Santo diviene un’occasione straordinaria di riscatto, grazie ad un’operazione che unisce la furbizia e il convincimento delle masse, rendendo un’idea improbabile un successo realistico fino al grottesco.

    Sottilmente irriverente, questa commedia del mondo moderno è l’allegoria di una latinità divertente e tragicomica, che unisce la tradizione solida degli italiani ad un presente fatto di insicurezza. Ma il teatro umano della quotidianità non è forse una presa di coscienza della propria caducità fisica, del vano tentativo di fermare il tempo, una vanitas del nostro passaggio terreno? Sarà l’arte l’unico strumento per fermare il tempo, per codificare le emozioni e scoprire, anche in una prima Sindrome di Stendhal, un’altra faccia dell’innamoramento.

    1

    Mettiamola così, se può contribuire alla chiarezza di questo discorso.

    Sono nato a Torino, con accento ibrido. Mio padre nacque nella capitale di Sicilia, Palermo, da suo padre mio nonno, che partì da Erice, sempre in Sicilia. Fin qui nulla di strano.

    La storia della mia famiglia è di quelle che si tracciano nella risalita verso nord per la ricerca di un posto di lavoro, per raccattare mezzi per metter su casa, allevare figli, migliorarsi.

    Mio padre è nato a Palermo, come dicevo, e orgoglio suo non in un posto qualsiasi. Fu partorito da mia nonna nei locali dove lei e il nonno vivevano, ad un angolo di palazzo Tomasi, al centro della grande città.

    La prima faccia che vide mio padre Salvatore, detto Salvo, era in verità, il faccione gonfio della levatrice. Perché al tempo, a metà del Novecento, quasi tutti i bambini nascevano per mano di una levatrice che ti va in casa, esperta a fare quello. Non vorrei dire un’infermiera o una ginecologa. Non direi.

    Ad ascoltare le parole del nonno, riportate da mio padre come in un registratore, in quanto egli morì prima che io nascessi, la levatrice era qualcosa in più. Me la figuro come una santona, la mamma di molti figli e capace di prestarsi al travaglio di altre donne. La levatrice esperta era richiesta dai futuri genitori con buona dose di scaramanzia. A lei, e alla Madonna o alla santa locale era affidato il nascituro.

    In quegli anni i figli erano il capitale, almeno per la gente semplice. Diciamo che erano il capitale per i morti di fame e anche per i baroni. Almeno su quello c’era una sorta di uguaglianza sociale.

    Tanti figli per tutti.

    Eh si, perché se ai primi ne servivano parecchi per tirare la carretta o per coltivare i possedimenti, ai secondi ne servivano altrettanti per continuare a gestire le terre e i palazzi.

    E sempre soldi servivano affinché le loro creature venissero piazzate nei posti chiave della società di allora, per accrescere ancora il potere delle casate illustri.

    La storia di mio nonno da parte di padre è assai particolare.

    Egli fu mandato dalla famiglia tra i lavoratori delle saline di Mozia, a soli quattordici anni. Secondo altri iniziò a lavorare forse un anno prima dei quattordici, perché barò sull’età pur di poter sgobbare.

    Un anno, e che vuoi che sia!

    Il giovane nonno risiedeva sulla spiaggia di fronte allo Stagnone, in un baraccone che serviva ad immagazzinare il sale e in parte a tenere le brande per i lavoratori più giovani, i cosiddetti senza famiglia che non rientravano a casa.

    Erice se ne stava in cima alla montagna.

    Oggi sembra fantastica, suggestiva perché ci arriviamo in macchina o con una spinta di funicolare. Ma a quel tempo il nonno scendeva a piedi per i chilometri interminabili che lo portavano a valle. Per salire non parliamone nemmeno. Si sarebbe dato un rene per salire in una vettura, anche sul duro carretto del primo contadino di passaggio.

    Sperava di intercettare il pulmino del servizio pubblico, altrimenti s’arrivava sciancato già a metà della salita. Nonno Calogero fu destinato dal suo superiore, di cui non saprei il nome, ad insacchettare il sale.

    Un’operazione dolorosa, perché la pelle era continuamente sottoposta ai tagli che i cristalli di sale ti provocano, come schegge di vetro.

    Il sale taglia ma contemporaneamente disinfetta. Come il prete che ha il gusto di farti peccare per tirarti l’acqua santa. Quindi la pelle nelle braccia dei lavoratori si rigava di continui tagli cicatrizzati, che la indurivano nel tempo e le restituivano un colore strano.

    Non posso dichiarare nulla di quell’altro nonno, il padre di mia nonna di parte paterna, in quanto lasciò la figlia orfana da subito, e la picciola sfortunata fu allevata dalle suore dell’Opera Pia casa di riposo Boccone del Povero di Partanna, nel Belice. Arrivata al convento, nonna fu ribattezzata dalle sorelle col nome di Catena, non tanto per onorare la Vergine Santa della Catena di Val del Ghiodaro, ma si dice perchè le religiose concepissero la custodia di quelle bambine orfane, come se fossero incatenate a loro servizio. Forse è solo una diceria. Ma secondo loro era il modo corretto di allevare le ragazze a quel tempo, almeno per come raccontava nonna.

    La bimba dimostrò senza dubbio un carattere da vendere per spezzare le proprie, e trasferirsi a Palermo, nella Città Granda.

    Fu proprio lei a trovare un accomodamento presso palazzo Tomasi principi di Lampedusa, facendosi assumere a servizio dai padroni di casa. Le sue doti di stiratrice e di rammendatrice erano ineccepibili, viste le molte ore consumate nel monastero a svolgere tutti quei lavori utili per tenere in ordine una casa.

    A quanto ne so non è che nonna avesse tempo per godersi la città con le sue luci e i divertimenti moderni. Certo è che lo stanzone del guardaroba dove si trovava a gestire l’ordine, coi tempi di lavoro della nobile famiglia, le parve un lusso imperdibile, vedendo passare le vetture e le carrozze dalle due finestre, che affacciavano direttamente in strada.

    Mi piacerebbe raccontare di come nonna Catena arrivò a Palermo, ma non vorrei dilungarmi troppo rispetto quanto mi sono imposto, avendo adesso a disposizione un tempo risicato.

    Mi limiterò a dire che i Tomasi ereditarono dalla famiglia di sua madre, una Tasca di Cutò, la grande casa di campagna con teatrino privato, a Santa Margherita di Belice.

    La villa Filangeri di Cutò, che si potrebbe definire come palazzo dalle fattezze normanne, fu inoltre la residenza estiva del giovane Giuseppe Tomasi di Lampedusa, noto scrittore.

    Nonna conobbe la decana delle cameriere di casa di Lampedusa all’inizio degli anni Trenta. La femmina corpulenta era anche devotissima anziana, orgogliosamente investita del suo ruolo presso le proprietà dei duca principi. Non saprei dire il suo nome, ma ricordo certamente che questa andò al convento, nella calura dell’estate, per portare alle suore tre ceste piene di abiti usati, di stoffe e di panni da dispensare a chi ne avesse bisogno.

    Nonna Catena fu audace non poco, avvicinando la donna senza farsi notare dalle suore o dalle altre orfane.

    Le consegnò una lettera scritta a mano con la firma della madre superiora e un sigillo in cera lacca che dichiarava l’ufficialità della richiesta. Qualche giorno dopo l’autista di quella nobile famiglia recapitò alla stessa madre superiora una missiva in cui pomposamente donna Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò accoglieva a servizio presso la sua casa la giovane Catena.

    Ed ella versava alla causa del convento una somma adeguata al disturbo.

    Il giorno seguente nonna fu prelevata e condotta alla villa di Santa Margherita, nello stupore dell’intero convento, e dopo appena una settimana viaggiò alla volta di Palermo, comodamente assisa sulla vettura dei Lampedusa. Nonna raccontò a suo figlio quella vicenda per tutta la vita, non senza un filo di vergogna.

    Sembra che lei, pulendo il pavimento attorno alla scrivania dell’austera madre superiora, e profittando di un giorno in cui questa si trovava via dal convento, scrisse come meglio poteva una lettera di referenze.

    Se una cosa avevano di buono le pie madri, fu di insegnare a leggere e a scrivere alle orfane. Nonna corredò lo scritto di firma, che copiò da un altro carteggio, e senza andare per il sottile colò con una candela un grumo di ceralacca, timbrandovi in tempo utile lo stemma del convento.

    «Nascesti furbo come a nonna Catena!», ripeté innumerevoli volte mio padre, un po’ rassegnato, in occasione di qualche mia malefatta a scuola.

    Così, almeno, sapete come nonna si trovò in un batter d’ali a Palermo.

    Nonno Calogero arrivò direttamente al palazzo Tomasi a bordo di un furgoncino carico di sale.

    Nei molti mesi alle saline di Mozia si conquistò la fiducia del titolare, potendo accompagnare l’autista a far consegne di sale per mezza Sicilia. Tra i clienti palermitani ci furono i Tomasi. Voglio pensare che il destino non sia sempre amaro con le persone.

    Nonno scaricò il sacco di sale proprio ai piedi di nonna Catena e lì nacque l’amore tra i due.

    Nel volgere di poco tempo anche nonno fu assunto a palazzo, con la complicità della futura moglie, profittando della morte dell’anziano factotum di casa, passato a miglior vita. Ora sapete perché mio padre Salvatore detto Salvo, ma anche sua sorella Giovannella, nacquero nel perimetro di palazzo Tomasi.

    Ci furono anni di guerra, e Palermo fu fatta saltare in aria, come se dovessero aprire una montagna per farci passare la ferrovia. Il palazzo dei principi non fu da meno.

    Resistette a lungo, ma nell’aprile del quarantatre andò in fiamme perdendo stucchi e affreschi, oltre ai mobili di cento epoche, compresi i grandi candelieri veneziani che i nonni pulivano ogni due anni, in bilico su di una grande scala di legno, di quelle a triangolo utilizzate per cogliere le arance. Avete presente quelle affilate scale da campagna? Loro pulivano i vetri sotto la volta dell’enorme salone con una di quelle, e sembrava ogni volta non reggere il peso.

    Il robusto principe Giuseppe cadde nello sconforto nel vedere l’antica magione di famiglia ridotta a rovina.

    Volarono per giorni i fogli e le ceneri della biblioteca privata dei Tomasi, coprendo Palermo di polveri ad ogni soffio di vento. Le parole in italiano, in francese, in spagnolo o nelle antiche lingue dell’isola arrivarono inconsapevolmente alle narici di ogni siciliano.

    I nonni rimasero lì tra le rovine dei palazzi che un tempo non avevano nulla da invidiare a quelli romani, impensabili altrove se non per i tesori di quella fu capitale ridotta in calcinacci.

    Da quell’evento traumatico mio padre cercò una via di fuga per il nord misterioso, richiamato nel dopoguerra dalle sirene di Torino.

    Ancora giovane arrivò nella grande fabbrica di automobili, e lì resterà felice della propria emancipazione.

    Papà Salvatore detto Salvo

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