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Tornare a casa: Ricordi di un'altra generazione
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Tornare a casa: Ricordi di un'altra generazione
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Tornare a casa: Ricordi di un'altra generazione

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About this ebook

Trentacinque racconti brevi, ambientati nella campagna lombarda, in riva al mare, in un luogo lontano o più vicino di quanto non si creda. Alcuni sembrano non avere un finale tradizionale, proprio come i fatti che ci accadono tutti i giorni; altri raccontano storie incredibili, eppure hanno un fondo di verità che è bello scoprire.
Con questa raccolta l’autore intende lasciar traccia di quel che ha vissuto e provato: per lui è un dovere affettuoso nei confronti di chi lo ha preceduto e gli ha trasmesso una parte di sé.
Il lettore non si offenda se i racconti qui riportati non rispecchiano in tutto e per tutto il canone classico; essi testimoniano il vissuto di un’altra generazione, che ogni giorno doveva lottare con la fame e la fatica. Solo il tempo ha mitigato le asprezze e le difficoltà affrontate da quel ragazzino affamato e impaurito, ora diventato nonno.
LanguageItaliano
Release dateDec 12, 2017
ISBN9788827532959
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    Tornare a casa - Ernesto Colombo

    Grigio".

    * Uno

    Tutte le notti

    Tutte le notti mi sveglio un po’ prima che passi l’ultimo treno. Abito a una cinquantina di metri dalla ferrovia e in questa casa vivo da più di cinquant’anni. Tutte le notti alle due mi sveglio e tendo l’orecchio finché non sento il tu-tum del treno che viene avanti adagio, perché esce dalla curva e il semaforo lo fa fermare all’altezza dell’abitato. Sento lo stridio dei freni e il rumore del compressore che li ricarica, e sto lì con gli occhi aperti, ma non ho paura.

    Un po’ di tempo fa ne ho parlato con mia moglie; lei dice che è solo insonnia. Dice che sono i problemi della vecchiaia, ma non sa che sono trent’anni che mi sveglio alle due e aspetto, aspetto che succeda.

    Quando il semaforo cambia colore, il treno si rimette in moto, adagio adagio, con una serie di strappi e scricchiolii, ed io penso che anche questa volta lei non è venuta. Fino a domani notte sarò ancora qui. Ma lo ripeto, non ho mai avuto paura da che l’aspetto, mi sveglio semplicemente e sto lì con gli occhi aperti e l’orecchio teso. Forse la sentirò sulla ghiaia del cortile, o forse solo quando aprirà la porta piano piano, per non svegliare la mia vecchia.

    Quando l’ho vista la prima volta, eravamo in tempo di guerra. Quando i tedeschi ci hanno rastrellati, mi avevano caricato con gli altri ragazzi su un carro bestiame; quindi avevano bloccato il gancio dello sportello. Ci portavano in Germania. Io ero il più anziano e un po’ per dignità, un po’ per far coraggio agli altri, non mi lamentavo; anche se da un giorno intero eravamo fermi sul binario morto senza mangiare, ma soprattutto senza acqua. Il sole arroventava il tetto del vagone. La sete, credetemi, è il peggiore dei tormenti. Io però resistevo in silenzio. Per l’amor di Dio! Avevo fatto l’Albania, la Grecia e per miracolo ero scampato all’Africa Orientale. Di cose brutte ne avevo viste tante, di morti a decine; non potevo lasciarmi andare.

    Quello più giovane, invece, secondo me era arrivato alla fine. Prima di caricarlo sul vagone sicuramente lo avevano picchiato di brutto. Quel giorno non aveva fatto altro che lamentarsi, e ogni tanto vomitava un pochino di sangue. Io stavo seduto in un angolo e gli tenevo la testa in grembo: gliela tenevo alta perché il sangue non lo soffocasse. Adesso però non si lamentava più; mi chinai in avanti cercando di guardarlo in faccia nella poca luce che filtrava da una fessura… e a un tratto la vidi.

    Da dove fosse spuntata non lo so, ma era lì nell’angolo, accosciata, vicino a noi.

    L’hanno descritta e dipinta in mille modi ma, non appena la vidi, io pensai alle donne arabe avvolte nel loro chador nero. Non riuscivo a vederla in volto; dalle pieghe del leggero mantello che indossava, tirò fuori una mano. Era una bella mano di donna, niente ossa o unghie adunche; una mano liscia e chiara, con dita lunghe e delicate. Quella mano teneva una ciotola, e l’avvicinò delicatamente alle labbra screpolate del mio povero soldatino. Lo sentii inghiottire un paio di volte, poi sospirare profondamente. Mi chinai sopra di lui ma non riuscivo a vederlo in faccia e, quando alzai la testa, lei non c’era più.

    Tirai fuori dal taschino della giubba l’orologio e un ultimo fiammifero: lo accesi. Erano le due e quattro minuti della notte. Il soldatino era morto.

    In Germania non sentivo i treni, ma da quando tornai a casa mia, vicino alla ferrovia, tutte le notti mi sveglio alle due e aspetto l’ultimo treno. Non ho paura, non ho mai avuto paura, non posso averne. So che lei è dolce e misericordiosa. Quando verrà per me, sentirò i suoi passi sulla ghiaia del cortile e lei aprirà la porta adagio adagio, per non svegliare la mia vecchia.

    * Due

    Barche senza remi

    Mio nonno e mia nonna erano due persone molto chiuse, gente di poche parole. Li amavo e loro amavano me. Da bambino ho passato molte estati a casa loro: ero l’unico nipote e per me quelle erano estati bellissime. Il Po scorreva vicino e la casa dei miei nonni era a ridosso dell’argine. Subito dopo, un po’ più in alto rispetto al livello normale del fiume.

    Negli anni precedenti, quando il Po rigonfiava, l’acqua non era mai arrivata sui loro terreni. A me era stato comunque proibito di bagnarmi nel fiume, anche solo di avvicinarmi troppo.

    I nonni possedevano una discreta quantità di campi, molti dei quali erano stati venduti a un tale che coltivava barbabietole; s’erano però conservati l’appezzamento attorno alla cascina. Coltivavano solo le verdure che bastavano a loro. Avevano alcuni alberi da frutto e poco lontano un pollaio con galline, faraone e qualche coniglio: era il loro piccolo mondo. Il nonno da qualche anno non andava più a pescare nel fiume; forse dalla fine della guerra.

    Il posto si chiamava Malcantone e, più indietro, l’altra curva del Po era conosciuta come l’argine del Lupo. Nell’ansa del fiume la corrente era molto forte, una strettoia piena di gorghi e mulinelli.

    Un pomeriggio di luglio avevo aiutato il nonno a raccogliere meloni; il caldo era soffocante. Dopo un po’ ci siamo riparati all’ombra del gelso, sulla panca dallo schienale alto. Mi ero accorto che il nonno non respirava bene. S’era acceso un mezzo sigaro, ma lo aveva spento subito. Cominciò a raccontarmi una storia di tanti anni prima; non lo avevo mai sentito parlare così a lungo. Mi raccontò dei giorni tremendi del tempo di guerra, della fame e delle privazioni. Poi mi disse dello zio Aristide, che i fascisti avevano preso in una retata e impiccato nel boschetto delle Gazze; a questo punto il suo respiro diventò affannoso.

    Corsi in casa dalla nonna ma non le dissi niente della storia che lui mi stava raccontando. Dissi solo che il nonno aveva tanta sete.

    Quando tornai sotto il gelso, lui stava meglio. Portavo una caraffa con acqua e ghiaccio e una seconda caraffa più piccola con del vino. Nonna s’era raccomandata: Non dirgli che il vino te l’ho dato io. Lui bevve un po’ di vino e prese con le mani dei cubetti di ghiaccio, per rinfrescarlo; io bevevo direttamente dalla caraffa grande. Poi riprese a parlare. Io, che allora avevo quasi quattordici anni, ebbi la precisa sensazione che mi stesse dettando il suo testamento.

    Mi parlò di mia madre al tempo in cui aveva pressappoco la mia età. Un giorno era venuto da loro il Braga, con la bici da donna, e gli aveva raccontato cos’era successo allo zio Aristide. Il nonno non riuscì a piangere. Mia madre disse che voleva andare con i partigiani, parlava di vendetta, e il nonno la prese a sberle. Il giorno dopo la portò a Ravenna, dalle Suore Canossiane. Mia madre non tornò più alla cascina se non dopo sposata, con me che ero uno straccetto di bambino. Adesso è una dirigente sindacale.

    Nonno riprese fiato, bevve altro vino dalla caraffina smaltata.

    Parlò ancora un po’ della guerra. Parlò degli ultimi mesi, quando i tedeschi in rotta cercavano d’attraversare il Po. Erano spaventati, sfiniti e affamati. I ponti erano distrutti e loro sempre più rabbiosi. Le loro razzie non rendevano più niente, la fame aveva livellato tutti, vinti e vincitori. Si presentavano a piccoli gruppi, sporchi e stracciati, con zaini stracolmi di chissà quali cose. Aprivano armadi e cassapanche, trovandoli vuoti d’ogni avere. Nelle stalle e nei pollai non c’era più niente, qualcuno era arrivato prima di loro. Chiedevano aiuto per attraversare il Po.

    Nonno sapeva che i contrabbandieri, prima e durante la guerra, avevano abbandonato nell’acquitrino alcune barche. Erano tutte fradice e senza remi. Lui aveva imparato a trascinarne qualcuna vicino all’argine e le riparava alla bell’e meglio; le sistemava con un timone robusto, di modo che in mezzo al fiume, con la corrente forte, alla minima correzione di rotta la barca si sarebbe rovesciata. Spiegava ai tedeschi che, senza remare, la corrente li avrebbe portati in mezzo al fiume; poi, quello che teneva il timone avrebbe dovuto tirare con forza la barra verso la riva opposta. Il gioco aveva funzionato più volte, la corrente faceva rovesciare la barca.

    Nonna in questi casi si chiudeva in camera. Pregava e piangeva cercando di non sentire le urla di chi stava affogando.

    Nonno recitava un suo rosario particolare. Pregava per suo figlio Aristide, per mia madre che era scappata dalle suore e viveva alla macchia con i partigiani. Pregava per gli oppressi, per chi era stato torturato, per i fucilati, per tutti gli impiccati nel boschetto delle Gazze. Faceva l’elenco di tutto l’orrore che la sua gente aveva subito.

    Questo mi raccontò in quel luglio torrido, sotto il gelso della sua cascina.

    * Tre

    Stee’n che attraversò la montagna

    Subito dopo la mia nascita, i miei sfollarono nel paese d’origine di mio padre, nel Bergamasco. Erano tempi difficili: il primo anno di guerra. Tempi che io non ricordo. Mia madre, anche ultimamente, me ne parlava spesso, ma io non ho alcuna memoria di quei giorni.

    Lei mi raccontava della fame, delle privazioni, della guerra… ne ha parlato per anni. Diceva che a quei tempi la nostra casa era una stalla, ricostruita e riadattata per le persone. Il soffitto era a volta e, quando suonava la sirena dell’allarme aereo, tutte le donne correvano in casa nostra: si diceva che il soffitto a volta non sarebbe mai crollato sotto un bombardamento. Mia madre mi prendeva in braccio e cominciava con il segno della Croce, e poi: Nel primo mistero si contempla….

    Questi sono i miei primi, vaghi ricordi.

    Ogni decina di Ave Maria, durante il rosario, mia madre ricordava gli uomini che erano in guerra. La maggior parte di loro, il secondo anno di guerra, aveva smesso di scrivere. Dal fronte non arrivavano più notizie. Del resto, chi era rimasto a casa non sapeva dove si trovasse un posto chiamato Marsa Matrouh o Nikolajewka, o dove fosse il mare Egeo.

    Ogni tanto arrivavano lettere dal Ministero della Guerra o dalla Croce Rossa e le madri, o le mogli, si chiudevano in casa a piangere. Non si vedevano per giorni interi. Se mi avvicinavo a una di queste porte chiuse, subito qualcuno si portava l’indice alle labbra e mi riaccompagnava dai miei.

    I primi ricordi precisi sono dell’anno 1946. A sei anni cominciavo la scuola elementare e il sabato pomeriggio il catechismo: ho ricordi chiari di quel tempo. Qualcuno era tornato dai campi di concentramento tedeschi, dalla Russia e perfino dall’India. Tornavano da posti che non avevo mai sentito nominare. Molti non tornarono più.

    Un giorno tornò anche Stee’n della zia Gii.

    Era arrivato in stazione sporco e stracciato; neanche il capostazione, il signor Finazzi, lo aveva riconosciuto. Quando disse chi era, al Finazzi vennero le lacrime agli occhi. Gli chiese da dove venisse e se avesse notizie di suo figlio, Piero. Stee’n fece un gesto vago con le mani e rispose solo: Ho attraversato la montagna.

    Finazzi lo accompagnò a casa con la Balilla. Immaginatevi a casa sua la commozione. Sua mamma e le sorelle prepararono la tinozza con acqua calda e l’ultimo pezzo di sapone. Lo strigliarono ben bene e poi lo rivestirono con i panni di pa’ Pedar. Quei vestiti erano consunti ma puliti e stirati, come fossero stati smessi da pochi giorni. In realtà pa’ Pedar era mancato il primo mese di guerra.

    Nel pomeriggio stesso, la notizia del suo ritorno si sparse in paese e vennero i familiari di quelli che non erano tornati. Tutti chiedevano dei loro parenti. Stee’n diceva solo d’avere attraversato la montagna. Si capiva che era un po’ fuori di testa. Quando la zia Gii, dopo il bagno, gli aveva dato uno scodellone di minestra con dentro una cotenna di maiale, lui aveva detto "spasiba e a tutte le domande dei paesani rispondeva d’aver attraversato la montagna e nicevò. Erano due parole russe che volevano dire grazie l’una, e l’altra forse non importa". Solo questo diceva.

    Me lo ricordo bene Stee’n, magrissimo, con due occhi grandi e sporgenti. Per tutta l’estate non fece che mangiare latte e polenta, ma non ingrassò di un chilo. In casa non c’era altro che il minestrone da mangiare.

    Quando venne l’autunno, alle prime nebbie andò a trovare un suo coscritto che abitava fuori paese: Drea, tornato anche lui dalla Russia. Si fece dare il suo zaino rattoppato; come si spiegò con lui, non si seppe mai. E dopo una settimana Stee’n sparì. Nello zaino aveva messo qualche capo di vestiario, gli scarponi di suo padre e un po’ di polenta avvolta in un asciugamano. Sua madre e le sorelle si disperarono.

    Sparito, e nessuno lo vide più.

    Margiù, la figlia del Braga che anche lei era un po’ fuori di melone, un giorno mi disse che Stee’n aveva attraversato la montagna per rivedere i suoi, quindi era ritornato nel regno dei morti.

    * Quattro

    Atlenis sul confine greco

    Da diversi giorni siamo accampati sopra la collina. Sulle carte è segnata con il nome di Atlenis, ma io l’ho già ribattezzata Gol-Gotha.

    Dopo l’acqua che è venuta giù gli ultimi giorni, non soffriamo più la sete; le scatolette, in parte, hanno saziato la nostra fame. Siamo fradici per l’umidità e i pidocchi non ci danno tregua.

    L’unico prigioniero è un ragazzo greco che s’era perso nella pietraia. È leggermente ferito a una spalla e per questo l’hanno affidato a me. Fra le altre cose, io porto la cassetta del pronto soccorso.

    Io mi chiamo Lazzi, ho trent’anni ma ne dimostro cinquanta, forse di più. Nello zaino ho un po’ di disinfettante (tintura di iodio), qualche salvietta di carta che serve da protezione per le ferite leggere e tante (parecchie!) bustine di chinino. Le salviette sono di carta crespata e l’ufficiale le usa come carta igienica, se non per arrotolare sigarette. Questo è l’Esercito Italiano.

    Il ragazzo greco me l’hanno affidato perché, fra le altre cose, sono l’unico che lo capisce. Io sono ebreo di Salonicco, è scritto sui miei documenti. Conosco il greco, un po’ d’arabo e anche l’aramaico, ma tutto questo non compare sul mio foglio matricolare.

    Il ragazzo è intelligente. Sicuramente ha studiato in qualche monastero ortodosso. Ride del mio greco, dice che è arcaico. In aramaico conosce solo qualche preghiera; mi dice che sono preghiere vecchie di duemila anni.

    Lo spiega lui a me!

    Questa notte non ha dormito. Dice che oltre la collina si sta preparando una grossa offensiva, che ci spazzeranno via tutti. Io gli ho raccomandato di tenere a portata di mano l’asciugamano bianco: gli servirà se ci sarà quest’offensiva, in modo che i suoi lo riconoscano e non lo ammazzino.

    Per un po’ sta zitto, poi mi chiede perché sono così tranquillo. Non hai paura d’essere ucciso?

    Dice il profeta Qoèlet: "C’è un tempo per nascere e un tempo per

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