Il coperchio del diavolo
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Il coperchio del diavolo - Franco Antonucci
vita.
CAP. 1
APRILE 1858 CIVITAVECCHIA
Finalmente era arrivato in Italia. Da quanto tempo desiderava calcare quel suolo sacro di artisti, poeti e inventori, ma anche di... briganti.
Era appena sbarcato sul molo, ma sapeva già dove andare. Uno degli ufficiali di bordo era stato tanto gentile da spiegargli bene dove si trovava il posto che cercava e ora si stava dirigendo nell'aria frizzante della primavera italiana, verso l'Aurelia, la grande strada consolare romana. Ma, in confronto al clima russo che aveva lasciato, qui sembrava già estate piena. Il sole abbagliante si rifrangeva sulle grandi mura tufacee merlate. Esse costeggiavano altezzose tutta l'ampia strada ma, senza offrire un minimo di frescura, riverberavano la calura nell'aria e solo alla fine trovò riparo all'ombra di un grande portone. A lato una garitta con un granatiere di Sardegna irrigidito nel suo moschetto, più avanti una scrivania con una specie di sportello con due impiegati, uno affaccendato a scrivere e leggere carte, l'altro a fissarlo con aria interrogativa:
«Desidera signore?»
«Vorrei visitare un detenuto»
«Mi dica nome e cognome»
«Io sono Alexandre Dumas»
«Non il suo, quello del detenuto»
Tirò fuori l'agendina dove aveva annotato quel nome suggeritogli una sera, più di dieci anni prima, in uno di quei noiosi salotti parigini, dal povero Marie-Henri Beyle, appena poco prima della sua dipartita, poveretto, e che tanto si era dilungato sulle gesta di questo famoso brigante, il cui nome era...
«Antonio... Gasparone o Gasperoni»
«Ah! Antonio Gasbarrone vorrà dire. E' fortunato. Vengono tutti per lui e solo lui può ricevere visite fuori orario. Ordine del direttore. Riempia questo modulo con la sua firma in calce.»
Ritirato il foglio, l'impiegato affidò in fretta il visitatore a un secondino, che cominciò subito a incamminarsi speditamente, seguito a stento dai suoi passi affannati, già provati dalla precedente camminata e dalla pancia prominente, conseguenza dei numerosi banchetti delle ambasciate. In fondo al terzo, interminabile corridoio, Dumas crollò su una sedia appoggiata all'angolo del cancello a sbarre grigiastre, che il secondino stava aprendo con le sue enormi chiavi e che a ogni mandata emetteva un baccano infernale.
Finiti gli scatti, fu il momento del lungo cigolio, causato dall’apertura del cancello.
Risuonò profondo nel silenzio di quelle mura grigie, modulando due volte verso il grave. Finito di spingere il cancello, il secondino, dopo qualche passo, lasciò l'ospite per tornare indietro a chiudere il cancello aperto in precedenza.
«È il regolamento» rispose alla sua domanda silenziosa.
Poi aprì lo spioncino della porta in fondo e gridò infilando il naso tra le sbarre:
«Visite, Gasparo'»
«Chi è?» rispose dopo un po' una voce profonda.
«Un forestiero, un certo Alessandre Dumàsse»
«Alescsondr Diumà» lo corresse il visitatore.
«Oh bene, la concorrenza. Aspetta un attimo a farlo entrare Orla', che do prima una sistemata a questo macello»
«Si accomodi prego» gli fece dopo cinque minuti di attesa.
«Sono Alexandre Dumas il... »
«... famoso scrittore... I tre moschettieri,il Conte di Montecristo, Vent'anni dopo, Il visconte di Bragelonne. Li ho letti tutti sa?»
Si aspettava un vecchio acciaccato di sessantacinque anni. Invece, con molto stupore, si trovò davanti un uomo di mezza età, dinoccolato, molto alto, senza un filo di pancia e dai movimenti sciolti ed elastici.
«Credevo fosse analfabeta»
«Lo sono stato fino a vent'anni fa, ma ormai leggo e molto. Qui non manca il tempo e io lo ammazzo leggendo e facendo ginnastica.»
Indossava la tuta dei detenuti e una maglia grigia di lana grezza a mezze maniche, che rivelarono il gonfiore dei bicipiti, quando, nell'atto di sedersi, appoggiò le mani sui braccioli della poltroncina, dove probabilmente si assorbiva nelle sue letture. Non fosse stato per i lunghi capelli bianchi e la barba grigia, il suo aspetto poteva sembrare quello di un ventenne.
«Naturalmente leggo anche altre cose. Tutto quello che mi capita. Ah! Avessi potuto godere prima di tale meraviglia!»
«Non è mai troppo tardi!»
«Non può mai immaginare a quanto abbia dovuto rinunciare per dover sempre dipendere dalla lettura degli altri. Fortuna che ho avuto con me sempre il fidato Professore. Anche qui è nella cella a fianco e ogni tanto ci affacciamo allo spioncino per fare quattro chiacchiere.»
«Perché non ha imparato prima a leggere?»
«Sta scherzando? Non ne avrei avuto il tempo. Veramente ci ho provato, quando fui costretto a letto da una ferita, ma dopo un po' non ebbi la pazienza di proseguire. Non sopportavo che ognuno cambiasse a suo modo quegli sgorbi fatti a mano.»
«Ognuno ha la propria grafia!»
«Ma non è giusto che si facciano i segni tanto diversi da quelli dei libri.»
«Col tempo avrà capito che quelle non sono altro che sottili distinzioni, che possono disorientare solo i novellini.»
«Ora si! Ma allora questa cosa banale mi impedì di trovare sistemi di comunicazione più validi di un falò acceso.»
«E allora la sua... attività, per così dire, ne avrebbe tratto vantaggio?»
«Senza dubbio. E mi creda che solo adesso mi rendo conto che la lettura amplifica ogni umana attività: infatti saper leggere è Sapere e poter leggere è Potere.»
«Ma scrivere è sinonimo di Creare.»
«Da ciò, Esimio Maestro, si capisce che lei sta su un altro livello ma persino noi poveri carcerati riusciamo a trarne profitto. Io e il Professor Pietro Masi di Patrica abbiamo pubblicato le mie memorie a fascicoli che stanno vendendo bene anche all'estero, tanto da renderci mensilmente nove-dieci scudi a testa e, a differenza delle sue, le nostre sono storie vere.»
«Già, a proposito di storie. Mi potrebbe raccontare la sua?»
Già, la sua storia: l'aveva raccontata tante di quelle volte che gli sembrava ormai che tutti quei fatti fossero solo nella sua testa e nessuno veramente accaduto, eppure non solo li aveva realmente vissuti, ma l'avevano anche dolorosamente provato.
Poi pensò che tutto sommato poteva essere un bene che un così noto scrittore accendesse i riflettori sulla sua vicenda ormai scesa nel dimenticatoio e si affrettò a rispondere.
«Ma certamente, da dove vuole che cominci?»
«Dal primo evento importante.»
Parte prima
a sud si suda
CAP. 2
SONNINO MERCOLEDì 16 NOVEMBRE 1803
Era il 16 novembre 1803 e tra meno di un mese, 'Ntoniuccio avrebbe compiuto 10 anni. Fu suo padre Rocco a svegliarlo con la solita tecnica, efficace ma non molto delicata: gli dava alcuni schiaffetti decisi e insistenti sulla guancia. Il ragazzo, immerso in un sonno profondo, dapprima cercò di ignorarli, ma avvertì un moto di rabbia quando continuarono implacabili. Poi ricordò che doveva, anzi voleva, alzarsi, così con gli occhi semichiusi scattò a sedere.
«Sono le quattro» annunciò il padre prima di uscire dalla stanza. Quello era il gran giorno in cui 'Ntoniuccio avrebbe aiutato Tata a tagliare il grande cerquone, che delimitava la radura dove pascolavano ora le loro vacche. Era autunno inoltrato e la luce del mattino tardava a filtrare tra le tenebre, ma nella penombra lanciò un’occhiata a Gennaro, suo fratello maggiore, disteso sul letto accanto a lui, profondamente addormentato in posizione fetale. Non lo aveva sentito rientrare la sera prima, probabilmente aveva fatto di nuovo arrabbiare suo padre, che non sopportava che il figlio tredicenne avesse preso quest'abitudine di far tardi la sera. 'Ntoniuccio scese dal letto.
Indossava il pigiama invernale, un completo giacca e pantaloni di maglina, poiché l'aria di Sonnino era già pungente in quel periodo. Estrasse il vaso da notte sotto il letto e tolse il coperchio. Mentre faceva pipì, sbirciò fuori dalla finestra. Non riuscì a vedere altro che il buio completo. Nella stanza aveva ancora meno da guardare. Lo spazio bastava appena per due brande, la sua e quella di Gennaro, accostate a un vecchio baule, che odorava di muffa e lavanda. Un piccolo corridoio conduceva alla stanzetta di Santina e Loreta, le sue due sorelle di quattordici e dodici anni, che dormivano in un letto a castello e, infine, alla stanza da letto dei suoi genitori: tata Rocco e mamma Faustina. 'Ntoniuccio indossò la camicia sopra la maglia di lana, che portava da settembre a tutto marzo, e che cambiava, di norma, se non faceva grandi sudate, una volta al mese.
La camicia era la stessa del giorno prima; era mercoledì e l'avrebbe cambiata, come al solito, la domenica, quando sarebbe andato alla Messa.
Infilò il nuovo paio di calzoni lunghi: erano di un velluto spesso ed impermeabile, detto pelle'e'diavule
, che in dialetto sonninese significa pelle di diavolo
, tanto era resistente e adatto ai lavori rustici dei pastori. Se li tirò su con orgoglio, soddisfatto della consistenza di quel tessuto da uomo. Infilò la grossa cintura di cuoio e gli scarponi ereditati da Gennaro e uscì dalla sua stanza dirigendosi in cucina, la stanza più grande delle quattro componenti tutta la casa. Rocco era seduto al tavolo, vicino al caminetto spento, sul quale campeggiavano i ritratti di Pio VII e Francesco I, quasi a sottolineare come Sonnino, il loro paese, fosse ai confini dei due regni: Quello Napoletano e il Pontificio. Entrambi i quadri erano però sovrastati dall'immagine della beata Vergine Maria.
Mamma Faustina versava il latte nella lattiera sui fornelli. Baciò amorevolmente 'Ntoniuccio sulla fronte e disse: «Come sta il mio piccolo spiluncone?». 'Ntoniuccio non rispose. Quel piccolo
lo addolorò perché, in effetti, voleva essere più grande e il termine spilungone indicava quegli uomini molto alti, che non brillano certo per intelligenza. Non aveva ancora dieci anni ma era già più alto di sua madre e solo un pochino più basso di Rocco, ritenuto da tutti un Marcantonio. Andò nel lavatoio sul retro. Immerse un pentolino di latta nel bigonzo dell'acqua e, dopo essersi lavato il viso e le mani, lo svuotò nel foro della chiavica sottostante. Nel caminetto in cucina c'era una tinozza di rame, sopra un treppiede. Veniva usata solo la sera del bagno, cioè il sabato. Pensò alle cose da fare. Prima sarebbe dovuto andare al pascolo e riportare indietro le loro quattro vacche per mungerle, come sempre, in cortile. Le conosceva una a una e, essendo di colore diverso, le chiamava per nome e a volte, quand'era solo, ci parlava anche.
C'era la docile Romanella, dal manto marroncino chiaro, che dava più di dieci litri di latte a ogni mungitura, la vivace Castagnola, nera, pezzata marrone e grigia, che di solito non faceva più di un litro e mezzo. La selvatica Roscetta, dal manto color ruggine, con macchie chiaroscure della stessa tonalità, che dava a volte cinque, a volte sei litri, e infine l'affettuosa Criscetta, dal manto chiaro, che si fermava a cinque litri. Ma il momento più bello della giornata sarebbe stato quando Rocco gli avrebbe permesso di aiutarlo, con la sega da boscaiolo, a tagliare il grosso cerquone, che avrebbe fornito loro la legna per tutto l'inverno venturo. La sega, che aveva preso in prestito dal compare Tommaso, era a lama lunga e aveva le impugnature alle due estremità.
Considerava una grande promozione essere stato scelto al posto di Gennaro, per aiutare il padre a compiere un lavoro che doveva essere fatto necessariamente in due, senza pensare che aveva dovuto insistere molto a convincerlo e che probabilmente Gennaro era più che contento di avere scansato una simile fatica.
Era un periodo, quello, in cui Gennaro disobbediva spesso al padre, che non gli risparmiava sonore bussate, e 'Ntoniuccio sapeva bene quanto fossero meritate. Ovviamente durante quelle liti 'Ntoniuccio si dileguava, ma spesso si soffermava ammirato a osservare i tremendi colpi che Rocco e Gennaro si scambiavano, ma sempre con lealtà, tant'è vero che queste discussioni
si chiudevano sempre con una stretta di mano, in cui Gennaro riconosceva l'autorità paterna che non avrebbe più messo, almeno per un mesetto, in discussione.
Tornò in cucina e si sedette a tavola. La mamma gli mise davanti una grossa tazza già zuccherata di latte e caffè d'orzo. Tagliò due fette da una delle enormi pagnotte che lei stessa, tutti i venerdì sera, cuoceva al forno e prelevò dalla dispensa un bel tocco di burro. 'Ntoniuccio giunse le mani e disse. «Grazie, Vergine Maria, per questo cibo. Amen.». Poi bevve un sorso di caffellatte e spalmò il burro sul pane. Rocco lo fissò.«Metti un po' di marmellata di more sul pane. Oggi ci sarà da sudare.» gli disse. Rocco aveva fatto sempre il vaccaro ed era soprannominato iu fort, vale a dire il forzuto
. Era noto in paese per la sua forza sovrumana, grazie alla quale veniva designato, durante i giorni di fiera, a capeggiare la squadra del paese nelle gare di tiro alla fune, dove spesso erano in palio caciotte e tacchini, che non di rado allietavano la tavola dei Gasbarrone. Mentre 'Ntoniuccio stava mangiando la seconda fetta di pane con burro e marmellata, entrò Santina con la spallina del vestito scucita, che mamma Faustina le doveva sistemare. Da quando si era fidanzata con Angelo de Paolis, faceva sempre tragedie per vestirsi. Non era mai contenta del suo misero guardaroba, almeno finché ogni componente della famiglia non l'avesse rassicurata che stava benissimo e che quel colore le donava. In realtà Santina era veramente bellissima e 'Ntoniuccio non s'era mai capacitato del tutto del significato di quell'espressione. Cosa mai avrebbe potuto donare un colore, pensava, e per quale ragione poi?
Nel frattempo gli venne lo stimolo.
«Vado fuori» annunciò.
Uscì dalla porta.
Andare Fuori
era un eufemismo familiare: significava andare al gabinetto, situato in fondo alla carrareccia. Era una baracchetta di pietre a secco, con il tetto in paglia e scopiglia, costruita su un buco profondo, scavato nella terra con un sedile sopra. Con tre assi a fare da porta, ci si poteva entrare solo uno per volta. L'odore era disgustoso, anche se lo avvertiva ogni santo giorno. Finché era lì dentro 'Ntoniuccio cercava sempre di trattenere il fiato e quando usciva boccheggiava in cerca d'aria. Il buco veniva svuotato periodicamente dallo stabbiaro, quando veniva a ritirare il letame delle mucche. Arrivava a pagare, con grande stupore di 'Ntoniuccio, anche cinquanta baiocchi: era un pazzo quell'uomo che non prendeva soldi, ma sborsava mezzo scudo per quelle schifezze maleodoranti?
Gennaro gli disse che probabilmente lo era, ma Rocco gli spiegò che il letame quell'uomo lo portava a Roma, dove ne avrebbe ricavato almeno due scudi.
«E allora perché non lo portiamo noi a Roma?» replicò 'Ntoniuccio.
«Perché non è detto che ci si arrivi sani e salvi a Roma, con tutti i briganti che si trovano sull'Appia.»
Rientrato in casa 'Ntoniuccio prese il fagotto del pranzo con pane e companatico, che Faustina gli aveva preparato e corse dietro a Rocco, che s'era già avviato su per la carrareccia.
«Dove andiamo?» chiese al padre.
«Io vado al cerquone a dargli una ripulita attorno e tu vai alle vacche, le porti giù, le mungi e poi le riporti su. Ci vediamo al cerquone verso le undici.».
'Ntoniuccio sapeva già per filo e per segno cosa avrebbe dovuto fare e si diresse di buon passo alle
vacche. Trovò Romanella, Castagnola, Roscetta e Criscetta tranquille nella radura, ormai impossessatesi del luogo nel quale le aveva lasciate a ruminare la sera prima. Ormai Rocco si affidava sempre più spesso a lui per pascolare ed egli ne era orgoglioso. Roteando in aria il bastone senza colpirle, le radunò e le fece avviare verso casa. Distava appena una lega ma, con l'andatura placida delle vacche, ci avrebbe messo almeno mezz'ora.
Giunto a casa trovò Gennaro in cortile, che era appena uscito dalla latrina e rientrava in casa per fare colazione.
Si posizionò sullo sgabello con tutti i secchi di rame intorno, uno era pieno d'acqua, con la quale si pulì ben bene le mani, mentre subito si avvicinò Romanella, ansiosa di farsi mungere.
Mise un secchio vuoto sotto la sua mammella, la lavò e cominciò a strizzare alacremente come le aveva insegnato bene tata Rocco. Quando era da solo durante quest’operazione, parlava spesso con le bestie, ma ora se ne stette in silenzio, per non farsi prendere in giro da Gennaro.
Presto riempì tutto il secchio da dieci litri, ma stavolta Romanella doveva aver mangiato molta erba fresca, perché aveva ancora le mammelle gonfie e ci volle un secondo secchio, che riempì quasi per un terzo. Poi toccò a Castagnola, che a malapena portò il secchio iniziato fino a metà. Successivamente si portò con lo sgabello e il secchio sotto Criscetta, che lo riempì fino all'orlo. Infine, siccome la riottosa Roscetta non voleva saperne di avvicinarsi ai secchi, la prese per le corna e con molto sforzo la fece fermare sopra un terzo secchio, che riempì a metà. Calcolò che anche quel giorno avrebbe raggiunto i cinquanta litri che in media facevano tutti i giorni, dato che mungeva sempre due volte: all'alba e al vespro.
Portava tutte le mattine il latte a una quarantina di clienti in paese, che pagavano un baiocco al litro, riuscendo a racimolare i quaranta o cinquanta baiocchi quotidiani per mandare avanti la famiglia, senza bisogno, come a volte era necessario fare, di dover aggiungere troppa acqua al latte, cosa che succedeva quando la produzione calava, d'inverno a causa del fieno o d'estate a causa della siccità, a quaranta o anche a trenta litri.
Allora si consolava dicendo che almeno i Gasbarrone ce la mettevano pulita l'acqua nel latte! Non come il lattaro, loro concorrente, detto iu Panundu, che non si sapeva da dove la prendesse!
Quindi prese i recipienti e versò i venticinque litri di latte che, con la mungitura della sera precedente, diventavano quei cinquanta che avrebbe consegnato egli stesso per i vicoli del paese, velocissimo com'era a raggiungere le case e a fornire di latte i quaranta clienti di famiglia.
Da un paio d'anni Gennaro collaborava sempre meno ai lavori di famiglia e 'Ntoniuccio era felicissimo di essere diventato il primo collaboratore di Rocco e non capiva perché Gennaro fosse diventato così pigro e indolente e al tempo stesso così costante nel rincasare tardi la sera.
Aveva cominciato a frequentare cattive amicizie all'osteria, diceva Rocco, e aspirava alla vita facile, che solo gli aristocratici e gli alti prelati potevano condurre di diritto; cosa, tuttavia, quest'ultima, che non era per niente giusta, pensava tra sé 'Ntoniuccio, mentre si dirigeva di corsa al cerquone.
Aveva già percorso dieci chilometri quella mattina, senza tener conto della mungitura e tutto il resto.
Arrivò al cerquone che non erano ancora le dieci e Rocco, che lo attendeva per le undici, stava ancora ripulendo il terreno dalle fratte che circondavano la grossa quercia, per agevolare l'operazione del taglio. 'Ntoniuccio non immaginava che ci volesse una licenza per il taglio dell'albero, ma Rocco lo sapeva ed era abbastanza nervoso per l'operazione illecita che si apprestavano a compiere.
'Ntoniuccio aiutò il padre a disboscare e ripulire bene la radura,dopodiché Rocco tirò fuori la sega del compare Tommaso, avvolta in un vecchio straccio, e si apprestarono a tagliare il grande tronco.
Tirarono a sé, ognuno la propria impugnatura, e i denti della lama affondarono subito nella spessa corteccia e, un tiro dopo l'altro, affondavano sempre più nel libro, poi nell'alburno e nel durame fino a raggiungere il midollo. 'Ntoniuccio temeva di non farcela a ribattere al forte tiro del padre, e si impegnò fino allo spasimo, senza mai cedere un colpo.
Sentiva i polmoni contrarsi in un'affannosa ricerca dell'aria e la bocca seccarsi per l'intensità dei respiri, ma le forze lo sostenevano ancora, mentre il sudore gli colava dalla fronte e gli bruciava negli occhi. A un certo punto Rocco disse, lasciando a terra la sua impugnatura:
«Adesso basta. È quasi mezzogiorno, mettiamoci a mangiare.». Senza più il contrappeso, 'Ntoniuccio di botto indietreggiò con la sega e si lasciò cadere a terra, tutto proteso com'era nello sforzo di collaborare senza deludere il padre, quando all'improvviso uno schianto oscurò il cielo con un crepitare di rami ed uno sfarfallio di foglie. Mentre esausto, a terra, si asciugava la fronte, 'Ntoniuccio comprese che qualcosa era