La Tana del Topo
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Book preview
La Tana del Topo - Riccardo Moroni
fantasia."
I
Avevo un buon lavoro, ero invidiato dagli amici, ma lavorare in banca per me era diventato frustrante.
La mattina quando sentivo la sveglia suonare era come se il comandante del plotone di esecuzione mi dicesse con aria cinica: «alzati devo bendarti, è giunta la tua ora». No, non potevo continuare così.
Appena sentivo la canzoncina impostata sul mio telefonino, Salirò di Daniele Silvestri, anziché darmi la carica, mettevo la testa sotto le coperte a rischio soffocamento e cominciava la lotta fra la ragione e il cuore.
Mi riaddormentavo per qualche minuto, poi muovevo un braccio, un piede, mi stiracchiavo, arrivava il solito crampo e cominciavo a dimenarmi che sembravo Sandra Mondaini nella sit com Casa Vianello.
Fino ad allora aveva sempre vinto la ragione.
E così scendevo dal letto, infilavo le pantofole in pelle stile Nonno Libero e mi avviavo verso la cucina per un caffè.
Non avevo mai voluto piegarmi alla ragione della macchinetta elettrica, per me il caffè era la moka: la giusta acqua, la giusta dose di caffè, il fuoco lento e chiudere il gas non appena vedevo il primo sputacchiare di acqua scura.
A volte accompagnavo il caffè con una merendina del tipo Mulino Bianco, ma solo se il mio stomaco me lo permetteva, altrimenti me la sarei sentita per tutta la
mattinata che faceva su e giù fino a quando un bruciore mi faceva passare anche la voglia del pranzo. – Ma che cazzo ci mettono in quelle merendine?
Avrei preferito fare colazione al bar con cappuccino e un buon cornetto alla crema, ma non potevo aspettare di uscire per fare colazione e poi il bar la mattina non era un luogo adatto a me, quei pochi centimetri di bancone da condividere con persone che sembravano essere lì solo per farsi due chiacchiere e non perché avessero davvero bisogno di alimentarsi mi metteva ansia. Insomma, o il bar la mattina veniva a casa mia oppure non se ne faceva nulla.
Basti pensare che pur di non rimandare quel momento sacro del caffè appena sveglio, lasciavo a dopo le mie impellenti necessità fisiologiche tanto che, a volte sentivo la vescica chiedere pietà. Prima veniva il caffè, poi il resto del mondo.
Quella mattina lo specchio del bagno era più generoso del solito, non ero malaccio, sembravo un pischello di vent'anni, in realtà ne avevo trenta. Continuavo però a guardarmi cercando segni di cedimento. Capelli bianchi?... Sembra di no, si forse un paio o tre. Calvizie in agguato?...boh? Mi sembra che la fronte si sia un po' alzata... no forse è sempre stata così... il fisico? Sempre asciutto... sì direi di sì, anche se forse un po' di palestra non mi farebbe male, magari è anche un occasione per conoscere gente nuova, mi ha detto Gino che ci sono delle gran fiche in palestra... domani vado a segnarmi.
Mi dicevo queste cose ogni mattina, ma la pigrizia con me vinceva facile, due a zero a tavolino per abbandono di campo.
Abitavo nella casa dei Miei, una villetta di poche pretese, ma molto confortevole e ben arredata. La consideravo la mia tana. La tana del topo dicevo, per via della porta d'ingresso ad arco che mi ricordava il classico rifugio dei roditori nei fumetti.
Avevo anche un piccolo giardino con degli alberi da frutto e un pratino selvatico che la domenica mi dannavo a tagliare soprattutto in periodi come questo di primavera inoltrata, in cui l'erba cresceva a vista d'occhio. Avevo coniato un nuovo proverbio: l'erba del vicino è sempre più bassa.
Ero rimasto solo in quella casa, da quando per colpa della passione di mio padre per la pesca, un temporale aveva sorpreso i miei genitori sulla riva del lago di Bracciano, scaraventando tutta la potenza di un fulmine sulla punta della canna che mio padre non si era ancora deciso a rimettere via nonostante avesse cominciato a piovere. La micidiale saetta avrebbe colpito solo lui se mia madre, per colpa della gelosia, non le fosse sempre appiccicata, voleva condividere con lui ogni cosa, anche la pesca che odiava tanto.
Lo teneva abbracciato cingendogli la vita con la testa appoggiata sulla spalla. La micidiale scarica elettrica scendendo dalla punta della canna da pesca, aveva prima spaccato il mulinello, poi uscendo dall'impugnatura si era divisa in due. Morti entrambi sul colpo. Ne parlò il Tg regionale e tante testate Web del circondario ci sguazzarono per giorni sulla tragedia che aveva colpito la mia famiglia.
Quella mattina decisi di andare al lavoro a piedi, in fondo era poco più di un chilometro e l'aria tiepida di fine maggio non poteva essere che rigenerante e poi qui in provincia l'aria è ancora pura e si cammina tranquillamente. Avevo rifiutato il posto a Roma proprio perché la ritenevo troppo caotica, anche se avrei cominciato a lavorare un anno prima e con uno stipendio nettamente superiore.
Mentre sto per arrivare sul mio posto di lavoro, una splendida creatura di circa trent'anni, capelli neri, corti alla maschietto, viso angelico, altezza un metro e settanta, scarpe basse, jeans e maglione rosso aderenti che mostravano tutte le curve, se non era un novanta sessanta novanta poco ci mancava. Mi si avvicina, si ferma davanti a me, mi scruta dalla testa ai piedi con i suoi occhi neri e profondi che sembrava mi stesse scannerizzando, accenna un sorriso tra lo sbigottito e il divertito, poi quando sembra ormai scontato che voglia chiedermi qualcosa, diventa seria, si gira e se ne va.
Rimango come un salame cercando di capire cosa avessi suscitato in quella splendida ragazza, forse mi ha scambiato per qualcun altro e una volta capito che non ero
io la persona che cercava, non ha avuto nemmeno il coraggio di dire mi scusi.
Però se avessi osato di più, in fondo è lei che mi è venuta incontro. Avevo l'opportunità di fare conoscenza con l'essere più bello che avessi mai visto dopo la mia compagna di banco delle elementari Rita Mancini.
Ancora pensieroso entro nella banca, saluto il direttore e la collega più anziana: Laura era invecchiata li dentro, stava solo aspettando la pensione e aveva ridotto ai minimi termini il suo lavoro. Erano più le ore che passava al bar di fronte e in bagno a truccarsi che alla cassa.
Da giovane era stata sicuramente una bella donna, aveva ancora un fisico asciutto, ma non bastavano vestiti appariscenti, i capelli tinti di biondo e il trucco pesante a renderla più giovane, anzi, le facevano l'effetto contrario, era la classica donna, dietro liceo davanti museo.
La filiale dove lavoravamo era invecchiata con lei, era rimasto tutto come ai primi anni ottanta quando era stata inaugurata: infissi in alluminio color bronzo per vetrate e porte, bancone in legno color noce scuro ormai consumato e con solchi così profondi che i clienti quando firmavano una ricevuta spesso bucavano i fogli, pavimento venato nero in marmittoni di graniglia quaranta per quaranta e un odore di muffa tipo scantinato, che ogni volta che entravo, mi faceva tornare col pensiero alla sacrestia della mia parrocchia quando da ragazzino facevo il chierichetto. Erano già cinque anni che stando alla cassa lavoravo in quel tugurio.
Quel giorno lavorai più svogliato del solito, il ricordo di quella ragazza mi perseguitava, non sapevo nemmeno a chi chiedere informazioni, era la prima volta che la vedevo.
Poi un lampo di genio... il bar!
Il bar non era il mio posto preferito ma la pausa a metà mattinata era d'obbligo farla lì.
Entro, erano le 11, il bar a quell'ora era semi deserto, potevo anche gustarmi un cappuccino e cornetto in santa pace facendo il vago e chiedendo informazioni al barista. Nando sapeva tutto di tutti e di sicuro se non fosse stato impegnato a leggere il Corriere dello Sport quella ragazza l'avrebbe notata.
Il barista soprannominato l'Occhio che Uccide era famoso in paese perché faceva le lastre ad ogni essere femminile che capitasse nel suo raggio d'azione, fosse anche un Pastore Maremmano, purché femmina.
Chiesi se verso le otto avesse