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L'eredità misteriosa. Rocambole vol. 1
L'eredità misteriosa. Rocambole vol. 1
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Ebook287 pages3 hours

L'eredità misteriosa. Rocambole vol. 1

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About this ebook

1812, mentre le truppe di Napoleone si ritirano dalla Russia, si compie una sanguinosa vendetta tra due ufficiali della Grande Armata. Molti anni dopo, a Parigi, gli eredi di quella faida danno vita a una lotta senza esclusione di colpi tra il Bene e il Male. Da una parte il conte Armand de Kergaz, che impiega le sue risorse a favore dei più deboli, dall'altra il fratellastro Andréa, alias sir Williams, vero e proprio genio del crimine, mentore del futuro protagonista: Rocambole.
Sullo sfondo di una città affascinante quanto pericolosa, inizia così uno dei capisaldi del romanzo d'appendice, dove non mancano amori, passioni e cruenti delitti.
LanguageItaliano
Release dateJul 15, 2017
ISBN9788899403393
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    L'eredità misteriosa. Rocambole vol. 1 - Ponson du Terrail

    22

    Pierre Ponson du Terrail, L’eredità misteriosa (Rocambole vol. I)

    1a edizione Landscape Books, luglio 2017

    Collana Aurora n° 22

    © Landscape Books 2017

    Titolo originale: L’Héritage Mystérieux pt. 1

    Nuova edizione italiana a cura di Francesca Truscelli

    www.landscape-books.com

    ISBN 978-88-99403-39-3

    In copertina: illustrazione di H. Grobet

    Progetto grafico: service editoriale il Quadrotto

    Realizzazione editoriale a cura di WAY TO ePUB

    www.waytoepub.com

    Ponson du Terrail

    Rocambole I

    L’eredità misteriosa

    Presentazione dell’opera

    La collana Aurora si propone di recuperare classici ormai dimenticati e introvabili della letteratura italiana e internazionale, con un breve apparato critico di approfondimento.

    Sono pochi i personaggi letterari che hanno avuto l’onore di coniare un termine entrato poi nell’uso comune. È il caso dell’aggettivo rocambolesco, che nasce come omaggio alle gesta di Rocambole, di cui L’eredità misteriosa rappresenta il primo capitolo.

    Siamo nel 1857, in piena epoca di romanzi d’appendice, quando l’aristocratico Pierre Alexis Ponson du Terrail – non nuovo al genere – inizia a pubblicare a puntate su «Le Patrie» I drammi di Parigi, storia a tinte forti che non risparmia nessun espediente del genere e che ha subito un enorme successo. Successo che diventa clamoroso quando nella vicenda si impone di prepotenza un personaggio – Rocambole, appunto – che non era nei piani iniziali dell’autore e che ben presto diventa protagonista assoluto della saga, che infatti prenderà il titolo di Les exploits de Rocambole.

    Il lettore non si deve allora meravigliare se in questo primo romanzo non troverà traccia di Rocambole, egli arriverà in seguito, per ora il protagonista è il perfido visconte Andréa, alias sir Williams, un genio del crimine che di Rocambole sarà mentore, e che rappresenta il classico personaggio che ci si trova ad ammirare e a odiare al tempo stesso, e che brilla a discapito del buono Armand de Kergaz, anche se la sfida tra i due fratellastri è comunque avvincente.

    Le avventure di Rocambole sono quindi una pietra miliare del feuilleton, e anche se oggi i colpi di scena possono risultare scontati e incredibili, mantengono immutato il loro fascino, soprattutto se si pensa che nella gran parte dei casi è stato Ponson du Terrail a inventare trovate entrate ormai proverbiali.

    Un’annotazione doverosa riguarda la suddivisione dell'opera. Il ciclo delle avventure di Rocambole è stato oggetto di varie divisioni a seconda delle edizioni, che nel corso dei decenni sono state innumerevoli. Posto che tutta la saga andrebbe contata come un unico romanzo di qualche migliaio di pagine, per questa riedizione abbiamo scelto di basarci sulla suddivisione adottata, tra gli altri, da Garzanti negli anni ’60, che divide in due le raccolte originali, in modo da avere volumi più agili, pur rispettando la scansione narrativa e logica degli eventi. Pertanto questo volume contiene la prima metà della raccolta L’Héritage mystérieux, mentre il prossimo, I drammi di Parigi, ne conterrà la seconda e ultima parte.

    Prologo

    I.

    Era l’anno 1812. La Grande Armata compiva la sua ritirata, lasciando dietro di sé Mosca e il Cremlino in fiamme, e la metà dei suoi battaglioni nei flutti ghiacciati della Beresina. Nevicava. L’occhio non scorgeva che terra coperta di neve e un cielo grigiastro. In mezzo alle sterili e immense pianure si trascinavano gli avanzi di quelle superbe legioni, poco prima guidate dal nuovo Cesare alla conquista del mondo, che l’Europa coalizzata non aveva potuto domare, e sulle quali trionfava in quell’istante il solo nemico capace di farle indietreggiare: il freddo del settentrione.

    Qua, c’era un drappello di cavalieri intirizziti sulle loro selle che lottavano con l’energia della disperazione contro la stretta di un torpore mortale. Là, alcuni soldati attorniavano un cavallo morto, e lo squartavano rapidamente, mentre uno stormo di corvi rapaci disputava loro la preda. Più lontano, qualcuno si coricava con l’ostinazione della demenza, e s’addormentava con la certezza di non risvegliarsi mai più. Di tanto in tanto s’udiva una detonazione lontana: era il cannone dei russi. Allora gli sbandati si rimettevano sulla via, cedendo all’istinto della conservazione.

    Tre uomini – tre cavalieri – s’erano riuniti sul limitare di un boschetto attorno a un cumulo di sterpi, dai quali avevano a gran fatica staccato lo strato di neve ghiacciata che li copriva per potervi appiccare il fuoco. Cavalieri e cavalli attorniavano il focolare, i primi accovacciati e con le gambe incrociate, i nobili animali a capo basso e con gli occhi impietriti.

    Il primo dei tre personaggi indossava una lacera uniforme che ancora conservava le spalline di colonnello. Era sui trentacinque anni, alto di statura, di maschio e nobile aspetto, e dai suoi occhi azzurri trasparivano a un tempo coraggio e bontà. Aveva il braccio destro appeso al collo e il capo fasciato da bende insanguinate. Una pallottola russa gli aveva fracassato il gomito, e una sciabolata aperto la fronte dall’una all’altra tempia.

    Il secondo doveva essere stato capitano, se si prestava fede all’uniforme logora: ma in quell’istante non c’eran più né colonnelli, né capitani, né soldati. La Grande Armata non era più che una triste accozzaglia di cenciosi, i quali fuggivano la brezza tagliente del nord più che le orde del Don e del Caucaso, scatenate a inseguirli come una banda di lupi o d’uccelli rapaci. Anch’egli era un giovane dalla fronte bassa, dal colore olivastro, dallo sguardo mobile e indeciso; i suoi capelli neri tradivano l’origine meridionale: dall’accento affascinante e dalla vivacità dei gesti lo si prendeva per un italiano, che tanti ce n’erano, sotto l’Impero, nell’esercito francese. Più fortunato del suo capo, il capitano non era ferito, e aveva superato più facilmente sino allora gli assalti mortali di quel terribile inverno, che ricacciava verso sud le audaci legioni di Cesare.

    Il terzo, finalmente, era un soldato, un semplice ussaro della guardia, la cui sembianza rozza e virile assumeva talvolta l’espressione della ferocia, quando il cannone dei russi tuonava in lontananza, mentre rivelava ansie e affetto, se il suo sguardo si fermava sul giovane colonnello sfinito e sanguinante.

    Cadeva la notte, e le nebbie crepuscolari confondevano in una cosa sola il bianco della neve e il grigio del cielo.

    «Passeremo la notte qui, Felipone?», chiese il colonnello al capitano. «Mi sento debolissimo e stanco», aggiunse, «e il braccio mi tormenta orribilmente».

    «Mio colonnello», esclamò vivamente Bastien – l’ussaro – prima che il capitano rispondesse, «bisogna partire, il freddo vi ucciderebbe».

    Il colonnello fissò alternativamente l’ussaro e il capitano.

    «Dici davvero?», chiese lui.

    «Sì, sì!», ripeté l’ussaro con la vivacità della convinzione.

    Il capitano invece sembrava pensieroso.

    «Ebbene, Felipone?», insisté il colonnello.

    «Bastien ha ragione», rispose, «bisogna risalire a cavallo e camminare il più possibile. Qui ci addormenteremmo, e durante il sonno si spegnerebbe il fuoco, né alcuno di noi si sveglierebbe mai più… D’altronde, sentite… i russi s’avvicinano… sento il cannone».

    «Oh! Maledizione!», mormorò il colonnello con voce sorda; «chi avrebbe detto che ci saremmo ridotti a fuggire dinanzi a un branco di cosacchi!… Oh! Il freddo… il freddo! Che nemico terribile e accanito!… Mio Dio! Se non avessi freddo!…». E intanto si era accoccolato davanti al fuoco, cercando di ravvivare le membra intorpidite.

    «Fulmini e sangue!», brontolò Bastien: «non avrei mai creduto che il mio colonnello, un vero leone… si lasciasse abbattere così da questo maledetto vento che sibila sulla neve indurita». E così sussurrando, contemplava il colonnello con sguardo affettuoso e pieno di rispetto.

    Il viso dell’ufficiale s’era fatto livido e palesava i suoi orribili patimenti; tremava dalla testa ai piedi, e la sua vita pareva essersi concentrata negli occhi che conservavano la loro espressione di dolce e calma fierezza.

    «Ebbene», riprese il colonnello «partiamo, giacché lo volete, ma lasciatemi scaldare un momento ancora. Che freddo orribile! Non ho mai sofferto tanto… e muoio di sonno… Ah! Se potessi dormire per un’ora! Un’ora sola!».

    Il capitano e l’ussaro si consultarono con uno sguardo.

    «Se lui si addormenta», mormorò Felipone, «non potremo più svegliarlo e rimetterlo in sella».

    «Ebbene», rispose il coraggioso Bastien chinandosi all’orecchio del capitano, «lo porterò sulle spalle anche addormentato. Sono robusto, e per salvare il mio colonnello… diverrei un Ercole!».

    Il capitano, col capo rivolto all’indietro, pareva ascoltasse i rumori lontani.

    «I russi son lontani più di tre leghe», diss’egli alla fine; «la notte s’avvicina, e si accamperanno prima di giungere a noi. Giacché vuol dormire, dorma, noi veglieremo».

    Il colonnello udì le ultime parole e stese la mano al capitano.

    «Grazie, Felipone», disse, «grazie, amico; tu sei buono e coraggioso, non ti lasci abbattere da questa tramontana infernale. Oh! Il freddo!». E proferì le ultime parole con tono di dolore.

    «Ma io non sono ferito», rispose l’italiano, «ed è naturale che soffra meno di voi».

    «Amico», ripigliò il colonnello intanto che l’ussaro dava alle fiamme quanti più ramoscelli gli capitavano fra le mani, «ho trentacinque anni. A sedici ero soldato, a trenta, colonnello: questo per dirti quanto fui valoroso e paziente. Ebbene, la mia energia, il mio coraggio, tutto, sino all’indifferenza con la quale subii le privazioni innumerevoli della nostra dura e nobile professione, tutto viene a rompersi contro questo nemico mortale, il settentrione. Ho freddo!… Capisci? In Italia passai tredici ore sopra un campo di battaglia sotto un mucchio di cadaveri, i piedi nel fango e il capo nel sangue. In Spagna, all’assedio di Saragozza, montai all’assalto con due pallottole nel petto; a Wagram rimasi a cavallo fino a sera, sebbene un colpo di baionetta m’avesse trapassato la coscia. Ebbene, oggi sono un corpo senz’anima… un vigliacco che sfugge a un nemico spregevole, i cosacchi! E tutto per il freddo!».

    «Armand, Armand, coraggio!», disse il capitano: «non saremo sempre in Russia, guadagneremo climi meno aspri… rivedremo il sole… e allora i leoni scuoteranno il torpore…».

    Il colonnello Armand de Kergaz, così si chiamava, crollò tristamente il capo.

    «No», rispose, «non rivedrò il sole, né la Francia. Poche ore ancora di questo freddo infernale e morirò».

    «Armand, mio colonnello», esclamarono a una voce il capitano e l’ussaro.

    «Muoio di freddo», mormorò il colonnello con un sorriso amaro, «di freddo e di sonno!». E siccome il suo capo si chinava sul petto, e l’invincibile torpore cominciava a impadronirsi di lui, il colonnello fece uno sforzo supremo, rigettò il capo all’indietro e disse: «No, no, non posso dormire ancora, devo pensare a loro che sono laggiù». E il suo sguardo si volse verso la Francia. «Amici», continuò rivolgendosi al soldato fedele e al capitano, «voi mi sopravvivrete entrambi, senza dubbio, e vi ricorderete di me. Ebbene, sentite, vi confido la mia ultima volontà, vi raccomando mia moglie e mio figlio». Stese nuovamente la mano al capitano Felipone, e proseguì: «Ho lasciato laggiù, nella nostra diletta Francia, una donna di diciannove anni e un bambino appena nato. A breve, forse, la donna sarà vedova, il bimbo orfano».

    «Armand! Armand!», disse il capitano, «non parlare così, tu vivrai!».

    «Oh, vorrei vivere!», mormorò lui; «vivere e rivederli entrambi!…». E il suo occhio scintillava di speranza e d’amore. «Ma», riprese con un sorriso malinconico, «posso anche morire… e la vedova e l’orfano han bisogno di protettori».

    «Ah, colonnello!», esclamò Bastien, «sapete bene che se vi capitasse sventura, il vostro ussaro darebbe il sangue e la vita per vostra moglie e vostro figlio».

    «Grazie», disse il colonnello; «conto su di te». Poi guardò il capitano. «E tu», gli disse, «mio vecchio camerata, amico, fratello?…».

    Costui trasalì e una nube gli oscurò la fronte. Si sarebbe detto che le ultime parole del colonnello avessero evocato in lui lontane reminiscenze.

    «L’hai detto or ora, Armand», rispose lui: «non ti sono io compagno, amico, fratello?».

    «Ebbene, se muoio», riprese il colonnello, «tu sarai il sostegno di mia moglie, il padre di mio figlio». Un vivo rossore colorì a queste parole il viso del capitano; ma il colonnello non se ne avvide, e continuò: «So che tu amavi Hélène, e tu sai bene pure che la lasciammo libera di scegliere tra noi due. Più fortunato, fui io l’eletto del suo cuore, e ti ringrazio d’aver accettato il sacrificio rimanendo amico di chi fu il tuo rivale…».

    Il capitano teneva gli occhi a terra. Un pallore mortale era subentrato al roseo della fronte, e se il suo interlocutore fosse stato presente a se stesso, e non dominato da quel miscuglio atroce di dolori morali e di fisiche torture, si sarebbe accorto che nel cuore di Felipone si combatteva una violenta battaglia.

    «Se io muoio», concluse il colonnello, «la sposerai… Prendi…». Così dicendo il colonnello aprì l’uniforme e stese al capitano un piego suggellato. «Eccoti il mio testamento; lo stilai quando entrammo in campagna, agitato da uno strano presentimento. Ti lascio la metà dei miei beni se tu acconsenti a sposare la mia vedova».

    Da pallido che era, il capitano si fece livido: un tremito nervoso s’impadronì di lui, e prese il testamento con mano convulsa.

    «Stai tranquillo, Armand», mormorò egli sordamente, «se ti giungesse sventura, sarai obbedito. Ma tu vivrai», aggiunse, «rivedrai la tua Hélène, per la quale ormai io non sento che una viva e rispettosa amicizia…».

    «Ho freddo», ripeté il colonnello con la convinzione d’un uomo che crede alla sua fine imminente. E avendo declinato nuovamente il capo sul petto, il sonno lo prese con tirannica tenacità.

    «Lasciamolo dormire alcune ore», disse il capitano a Bastien.

    «Maledetto vento!», mormorò Bastien incollerito, aiutando il capitano a coricare il colonnello vicino al fuoco e a coprirlo con gli abiti e con le coperte cenciose che ancora possedeva.

    Cinque minuti dopo il colonnello Armand de Kergaz dormiva profondamente. Bastien lo guardava con l’affettuosa tenacia d’un cane fedele, alimentando incessantemente il fuoco, e vegliando che le scintille o i carboni non cadessero sul suo colonnello. Il capitano teneva la testa tra le mani; il suo sguardo era fisso al suolo, e mille pensieri confusi s’agitavano sicuramente nel suo cervello.

    Quest’uomo, per il quale Armand nutriva una cieca amicizia, avido e vendicativo, era duttile e persuasivo con tutti. Soldato di ventura, aveva avuto l’arte di stringere amicizia nell’esercito francese con ufficiali ricchi e titolati. Senza un soldo, non aveva che amici milionari. Le vicende piuttosto che il valore l’avevano fatto capitano. Aveva bensì assistito a varie battaglie, ma non vi s’era mai distinto. Forse non era codardo, ma certamente non era coraggioso sino alla temerarietà. Era amico d’Armand da quindici anni. Capitani entrambi tre anni prima, avevano conosciuto a Parigi la signora Hélène Durand, figlia d’un fornitore militare, leggiadra giovinetta, della quale entrambi s’innamorarono. Hélène aveva scelto il colonnello, e da quel giorno Felipone giurò al suo amico un odio violento e terribile, dissimulato esteriormente dalla più cordiale affezione, ma implacabile, mortale. Venti volte, durante la campagna, nel furore della mischia, Felipone aveva preso di mira il colonnello nell’ombra e tra il fumo della battaglia. Venti volte aveva esitato, cercando una vendetta più completa e più crudele. Questa vendetta il capitano l’aveva trovata alla fine, e la meditava freddamente, mentre il colonnello dormiva vegliato da Bastien.

    Pazzo!, pensava Felipone che lanciava ogni volta un cupo sguardo all’ufficiale addormentato: pazzo! Cede a un tempo il suo denaro a me, povero, e sua moglie a me, che ne fui respinto… Non si potrebbe proferire più eloquentemente la propria sentenza di morte. Il suo sguardo si fermò per un secondo su Bastien, quindi proseguì: Costui mi è d’impaccio, tanto peggio per lui!.

    Così dicendo s’accostò al suo cavallo.

    «Che fate capitano?», chiese l’ussaro.

    «Voglio esaminare l’acciarino delle mie pistole. Con questa neve indiavolata non sarebbe da meravigliarsi se si fossero inumidite, e se giungono i cosacchi…»

    E Felipone frattanto frugò nelle fonde, ne trasse una pistola e ne fece giocare negligentemente la batteria. Bastien lo guardava tranquillamente, né aveva diffidenza di sorta.

    «La polvere è secca», disse il capitano, «la selce è in buono stato. Vediamo l’altra. Sai tu», disse dopo averla esaminata e fissando in volto l’ussaro, «che sono stato un gran tiratore di pistola?».

    «È possibile, capitano».

    «A trenta passi», continuò Felipone, «in un duello colpivo il mio avversario al cuore e lo freddavo all’istante».

    «Ah», mormorò Bastien distrattamente e dedito alle sue funzioni.

    «C’è di più», proseguì il capitano, «ho scommesso più volte di colpir l’occhio del mio avversario, il destro o il sinistro, a scelta, e ho sempre imberciato… Ma il meglio, amico Bastien, è mirare al cuore. Si fredda sul colpo». E il capitano spianò la canna della pistola.

    «Che fate?», esclamò vivacemente Bastien spiccando un salto all’indietro.

    «Miro al cuore», rispose freddamente Felipone, che mirò al soldato dicendo: «Non voglio farti penare». Quindi sparò, aggiungendo: «Mi eri d’impaccio; tanto peggio per te!».

    Un lampo sfolgorò nelle tenebre, s’udì una detonazione seguita da un grido di dolore, e l’ussaro cadde supino. A quel rumore, a quel grido, il colonnello fu bruscamente svegliato dal letargico sonno, e si rialzò sui gomiti, credendo d’essere alle prese con i russi. Ma Felipone, il quale s’era armato della seconda pistola, gli pose repentinamente un ginocchio sul petto e lo rovesciò al suolo. Sorpreso il colonnello da quella brusca aggressione, poté vedere chinarsi su di lui il volto contraffatto e beffardo del suo nemico, animato da un ghigno feroce, e quel ghigno gli rivelò in un lampo tutta la bassezza, tutta la crudele infamia di colui nel quale aveva riposto la sua fiducia.

    «Ah! Ah!», ghignò il capitano, sei stato abbastanza ingenuo da credere all’amicizia dell’uomo cui avevi sottratto la donna del suo cuore… lo sei stato abbastanza da credere che egli t’avrebbe perdonato!… Ah! Hai spinto la tua ingenuità fino a fare il tuo testamento, a supplicare questo caro amico di sposare la tua vedova, di accettare la metà dei tuoi beni! Poi ti addormenti tranquillo, sperando di risvegliarti, di vedere splendere i giorni migliori, di raggiungere la donna e il fanciullo, oggetti della tua affettuosa sollecitudine! Tre volte imbecille! Ebbene, non li rivedrai, e ti addormenterai per sempre».

    E il capitano diresse la canna della pistola verso la fronte di Armand de Kergaz, mentre costui, dominato dall’istinto della conservazione, tentò di svincolarsi e di scuotere il ginocchio che lo teneva prigioniero al suolo. Ma Felipone resistette, e aggiunse:

    «È inutile, mio colonnello, bisogna restarsene qui».

    «Codardo!», mormorò Armand fulminandolo con uno sguardo sprezzante.

    «Tranquillizzati», ghignò Felipone, «i tuoi voti saranno compiuti, sposerò la tua vedova, vestirò a lutto per te, e la gente mi vedrà piangerti in eterno. Son tale da rispettare le convenienze…».

    La pistola toccò la fronte del colonnello, e il capitano fece fuoco col medesimo sangue freddo con cui aveva sparato all’ussaro fedele. La pallottola spezzò il cranio d’Armand de Kergaz, e le cervella schizzarono sanguinanti sulle mani dell’assassino. Bastien stava disteso lì vicino in un lago di sangue, e il delitto del capitano non ebbe altro testimone che Dio.

    II.

    Quattro anni dopo la terribile scena, vale a dire nel maggio del 1816, il capitano Felipone era divenuto colonnello e sposo della signora Hélène de Kergaz. Egli abitava, durante l’estate, un bel podere dall’aspetto signorile in Bretagna, al limite estremo del dipartimento di Finistère. Kerloven, così si chiamava, era una proprietà di famiglia che il colonnello Armand de Kergaz aveva legato alla propria moglie. Era situato in riva al mare, in cima a una scogliera, e verso terra dominava una leggiadra valle della Bretagna, coperta di rosee brughiere e cinta da grandi boscaglie.

    Nulla di più selvaggio e di più pittoresco, di più isolato e più grazioso di questo vecchio castello feudale, completamente restaurato all’interno secondo il gusto del secolo, grazie alla fortuna immensa del colonnello Felipone, e conservante all’esterno il poetico manto della sua vetustà. Un gran parco con olmi secolari circondava il castello da oriente a occidente; la facciata era

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