Vita sentimentale di un numero 1
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Vita sentimentale di un numero 1 - LUCIANA VENTURINI
LUCIANA VENTURINI
VITA SENTIMENTALE DI UN NUMERO 1
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Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
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Indice dei contenuti
LUCIANA VENTURINI
VITA SENTIMENTALE
DI
UN NUMERO 1
Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati (escluso gli edifici storici ai quali si fa riferimento nel romanzo)
sono invenzioni dell’autore
e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.
Un ringraziamento alla mia amica Nicky, occhio vigile, baluardo di buon senso e mia fedele sostenitrice.
TOC \o 1-3
\h \z \u Capitolo 1 . 1
Capitolo 2 . 7
Capitolo 3 . 14
Capitolo 4 . 21
Capitolo 5 . 27
Capitolo 6 . 35
Capitolo 7 . 39
Capitolo 8 . 43
Capitolo 9 . 50
Capitolo 10 . 55
Capitolo 11 . 68
Capitolo 12 . 74
Capitolo 13 . 78
Capitolo 14 . 88
Capitolo 15 . 95
Capitolo 16 . 100
Capitolo 17 . 104
Capitolo 18 . 109
Capitolo 19 . 116
Capitolo 20 . 122
Capitolo 1
Milano, dicembre 1979
Seduto al suo tavolo privilegiato in uno dei ristoranti più chic di Milano, davanti a una vetrata leggermente velata da una tenda dorata di tulle di ciniglia che gli permetteva di vedere fuori senza essere visto, il dottor Villa si accinse ad affrontare un’orata al forno cotta con fette di agrumi.
Prima di incominciare a sezionarla ammirò il pesce che, come una tondeggiante sirenetta stupita, lo guardava con occhio opaco ma sdegnoso. Il dottore contraccambiò lo sguardo con il suo che, arrogante, intimidiva. Era più forte di lui non perdere occasione di assumere un atteggiamento di supremazia. Aveva rifiutato seccamente l’aiuto del cameriere pronto a sfilettare la vittima impiattata elegantemente. La guardò un’ultima volta con un’impercettibile aria di trionfo. In qualsiasi lotta gli si presentasse, anche ridicola come questa, il dottore voleva vincere a tutti i costi: gli era perfettamente indifferente che il duello fosse leale o no. Prima di lasciarsi andare completamente e permettergli di arrivare alla sua spina dorsale, questa riuscì a complicargli un po’ il tramestio delle posate.
Con la coda dell’occhio il dottor Villa vide passare una cameriera.
Doveva essere una appena assunta: lui era un cliente abituale e conosceva bene tutto il personale del ristorante.
Il sangue gli salì sino alla radice dei candidi capelli.
Apparentemente non si scompose: continuò a sezionare il corpo del pesce con lo stesso ritmo. Quando intravide quella cameriera che gli passava vicino, senza alzare la testa le chiese altro pane. Continuò a masticare e girò la testa e la guardò con gli occhi socchiusi solo quando lei si fu allontanata.
L’aveva trovata!
Non poteva sbagliarsi: quel culo, era unico.
Era grande e rotondo come tutte le rotondità congiunte del pianeta terra!
Si mise a masticare più lentamente e perse il sapore di quel piatto che, sino a un attimo prima, aveva soddisfatto il suo fine palato.
Una divisa di stoffa nera, morbida, lucida e brillante, le fasciava il corpo grasso, di piccola statura; si vedeva l’attaccatura dei capelli scuri raccolti sotto la cuffietta di pizzo inamidato che faceva pendant con un minuscolo grembiulino candido; la ciccia, che straripava anche dal viso dai lineamenti grossolani, dava un’aria porcina agli occhietti neri dall’aria furba.
Quando percepì l’ovattato rumore di passi svelti che gli si avvicinavano, il dottor Villa abbassò di più la testa sopra il piatto.
Alla sinistra del suo bicchiere pieno a metà di un bianco Doc che lui, da buon intenditore, trovava di sapore asciutto con retrogusto gradevolmente amarognolo, la cameriera posò un grazioso portapane d’argento ricoperto di pizzo che conteneva un panino bianco. Prima che la grassa manina dalla pelle ambrata si ritirasse, il dottor Villa, rapido come una saetta, l’afferrò e l’inchiodò sulla tovaglia stringendolo come una pressa.
A captare che tremava, godette malignamente.
Continuando a tenere la faccia sul piatto, attanagliando la manina con la sinistra, con voce incolore chiese:
«Come stai, Rosa?»
Non si notò che lei deglutì perché quasi subito rispose con una cortesia e un’allegria sottilmente ambigua:
«Splendidamente, grazie! E lei, dottore? Come vanno gli affari?»
La sfumatura ironica intrinseca nelle sue parole lo schiaffeggiò. Maledetta! Con rabbia strinse di più la manina. Rosa sentì gli ossicini sul punto di rompersi, però resistette al dolore; anche se gli occhi le si riempirono di lacrime, dalla sua bocca non uscì il più piccolo lamento.
Lo aveva visto subito.
Sarebbe stato impossibile non notare quel cliente al tavolo riservato ai VIP. Anche se seduto, si capiva che l’uomo superava il metro e ottanta di altezza; alla boa dei quaranta, aveva una folta capigliatura ondulata totalmente candida, con un ciuffo lungo che gli ricadeva sul davanti e copriva in parte il suo viso di canaglia. Come sempre, era elegante come un principe. Al suo apparire nella sala ristorante, i rumori delle posate e del chiacchiericcio tra commensali si erano attenuati. Molti sguardi lo avevano puntato. È Villa, l’esperto d’arte
, avevano bisbigliato, orgogliosi di riconoscerlo e trovarsi nello stesso ambiente di tale celebrità. Qualcuno smise di mangiare per sorridergli, sperando invano che rispondesse al suo saluto. Il suo ingresso, qualunque fosse il luogo, lo riempiva con la sua presenza tracotante mettendo in ombra, senza distinzioni, tutti gli altri.
Il dottor Villa era un uomo antipatico. Anche.
Famoso mercante d’arte, il suo talento era conosciuto oltre i confini d’Italia. Nessuno periziava, in quel vasto campo, meglio di lui. L’ultima parola era la sua. Solo il suo incontestabile verdetto metteva la parola fine a qualsiasi controversia nel ribollente settore.
Al vederlo, Rosa si era ingoiata la paura. Era abituata alle circostanze difficili: era nata dalle parti di Quarto Oggiaro e, come molti come lei, era cresciuta respirando violenza. A dispetto della sua rissosa famiglia che pretendeva vivere di assistenza, con testardaggine lei era riuscita a frequentare la scuola sino alla terza media, e si batteva senza tregua per emergere —e possibilmente allontanarsi, anche senza rinnegarlo— da tutto quello che era il suo mondo nativo.
Nonostante il lancinante dolore alla mano, le labbra atteggiarono un sorrisetto ironico. E come richiamato da quello, il dottor Villa alzò la testa, sollevò un poco le palpebre e la guardò.
Rosa, con il suo, sfidò quello sguardo.
Nessuno dei due batté ciglio.
Fu un istante lungo come otto mesi. Era da otto mesi, infatti, che non si vedevano. Da otto mesi il dottor Villa la cercava. La cercava pieno di rabbia e odio.
Nessuno dei due era cambiato.
Ad allentarsi la stretta, Rosa ritirò frettolosamente la mano e si allontanò. E ancora lui approfittò per girarsi e contemplare l’inconfondibile, ineguagliabile grande culo che la stoffa nera, con lucidi bagliori, accompagnava nei movimenti.
Rosa era l’immagine viva delle sculture di Botero.
Quelle donne gli scatenavano un desiderio sessuale che lo faceva impazzire. Immaginare che quelle forme prendessero vita, e averle a portata di mano… Dio! Uno strano turbamento lo graffiò in tutto il corpo e, come un adolescente, sentì ergere e pulsare il suo sesso. Ansimò, guardò davanti a lui senza vedere. Per un breve lasso di tempo l’eccitazione gli fece dimenticare gli avvenimenti spaventosi della primavera di quell’anno.
Poi finì il suo pasto prendendosela comoda.
Dopo il caffè non se ne andò subito come al solito; restò lì e continuò a guardare fuori, imbambolato, tamburellando piano sulla tovaglia con le dita di una mano. Si sentiva bene, forse con la sfumatura di un sentimento sconosciuto che tutti chiamano felicità.
Mentre continuava immerso in un limbo, inconfessabilmente godendo di esserle vicino, di respirare la stessa aria di Rosa, la sala pian piano si svuotò sino a che lui rimase l’unico cliente. Chiese ancora un caffè e continuò ad aspettare.
Cosa?
Niente. Stava bene lì seduto e basta. Non pensò neppure agli affari da sbrigare che lo aspettavano.
Il direttore di sala si avvicinò e gli chiese se tutto andasse bene. Quel giorno il dottore si comportava in modo strano. Lui gli sorrise e disse:
«Tutto bene, grazie Vittorio, il pesce era ottimo!»
Il direttore di sala strabuzzò gli occhi. Era la prima volta che da quella bocca usciva un apprezzamento per la cucina del ristorante. Lo avrebbe riferito subito al proprietario e allo chef!
Finalmente si alzò.
Andò alla toilette.
Stava asciugandosi le mani quando la porta dell’antibagno si aprì. Nel vano della porta si stagliò la figura di Rosa che portava una pila di asciugamani puliti.
Il dottor Villa sorrise.
Ecco perché il suo istinto lo aveva fatto aspettare!
Lei rimase sulla porta, interdetta, combattuta tra il dovere e la paura.
Ma lui le risolse il problema. Incurante degli asciugamani candidi che caddero al suolo, l’afferrò per un braccio e le sibilò:
«Se ti azzardi a dire a ti faccio cacciare immediatamente!»
La strattonò sino al gabinetto da dove era uscito pochi minuti prima, chiuse la porta e la sbatté contro il muro.
«Non fiatare!» la minacciò di nuovo.
Ma lei non ci pensava proprio a gridare per poi trovarsi disoccupata. Aveva penato troppo per trovare quel lavoro. E senza lavoro, un’altra volta, avrebbe patito l’ennesima sconfitta.
Ignorando la sua inutile difesa —Rosa si dibatteva come una muta forsennata—, con una mano bloccandole le braccia, con il suo corpo la premette di più contro la parete schiacciandole l’enorme petto.
«Allarga le gambe!» le sussurrò mellifluo all’orecchio, «allarga, tesoro!» E con un colpo deciso la sodomizzò. Mentre stava dentro di lei, l’abbracciò e la baciò sul collo, ripetutamente.
Da lei solo un singhiozzo di dolore. E rabbia sorda.
Lui si sentiva nel suo diritto.
L’atto durò poco: il desiderio carnale, spinto dallo spirito di vendetta immagazzinato durante otto mesi, era stato troppo forte per poterlo trattenere. Quello appena concluso non era il suo atto sessuale preferito, ma senz’altro il più doloroso, così improvviso, per oltraggiare il suo soggetto indifeso.
Si asciugò nel grembiulino bianco, si sistemò i calzoni e uscì lasciandola appoggiata alla parete con i due palmi aperti, semi nuda, le gambe divaricate, la biancheria a terra, la faccia appiccicata alle piastrelle.
«Rosa! Ti spicci?» chiese impaziente, fuori dal bagno, il direttore di sala.
Immediatamente lei riacquistò la padronanza, si rivestì con premura, mise al loro posto gli asciugamani puliti e, senza guardare il suo violatore che si lavava un’altra volta le mani, uscì correndo. «Eccomi direttore!» rispose con deferenza.
Il dottor Villa si diresse al guardaroba.
«Rosa! Il cappotto del signore!» ordinò la voce di prima. A passi svelti lei entrò nel vano guardaroba, prese il cappotto e lo mise sul bancone di legno.
Ma il cliente pretese che glielo sostenesse —era un capo di cachemire—, e dopo che gli porgesse il Borsalino —dello stesso colore dell’abito—. Visto che lei, guardando all’altezza del suo petto, nascondeva le sue emozioni dietro a un’espressione indecifrabile, il dottore le infilò un dito in mezzo alle gambe e dopo, sorridendo, glielo mise in bocca; poi le diede un buffetto sulla guancia, tirò fuori due monete e l’obbligò a stringerle nel pugno, ancora una volta stritolandole la mano. «Per il servizio» le mormorò con un ghigno. «Ciao, Rosa, è stato un piacere rivederti. A domani. Aspettami!» La fissò con intensità e ripeté la minaccia: «Aspettami!» E se ne andò.
Lei prolungò un silenzio doloroso, interrotto solo da qualche singulto soffocato e un susseguirsi di tremiti.
Il dottor Villa, pervaso da inconsueta allegria, uscì dal ristorante e, camminando rapido per riguadagnare parte del tempo sottratto al lavoro, si immaginò un domani felice, giorni ricchi di nuove soddisfazioni.
L’aveva ritrovata!
Rosa era l’unica femmina che, al pari di certe opere d’arte, gli scatenava brividi di piacere.
Trascorse uno dei suoi dinamici pomeriggi: si impegnò nel periziare un dipinto ferocemente contestato da due esperti; fu incaricato da una nota galleria d’arte —proposta presentata su un vassoio d’argento, quasi una preghiera— della vendita di una serie di tele importanti, la commissione delle quali, per lui, sarebbe stato di una cifra più che sostanziosa; in un negozio di periferia continuò la trattativa per comprare una serie di bozzetti che odoravano della mano di Michelangelo —intuizione che si guardò bene dall’esternare—, sino a che, stanco, decise che per quel giorno aveva guadagnato abbastanza e che era ora di tornare a casa.
Nella prima parte della notte le luci della città diluivano, nel breve alone del loro raggio, il buio nebbioso che, a Milano, in inverno, a seconda delle giornate, è denso. Arrivato a Porta Romana puntò il muso del BMW verso la sbarra automatica di un parcheggio sotterraneo; scese lentamente e posizionò la vettura nel suo spazio personale.
Non fu determinante che l’illuminazione fosse scarsa.
No.
E poi fu praticamente indolore.
Quando scese dalla macchina non vide nessuno.