Gli uccelli dalle ali di cenere
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Sanno soltanto che il cognome era di origine veneziana, che aveva la qualifica di mastro vetraio e che è deceduto l’anno in cui fu terminata la costruzione dell’edificio. Per il resto l’identità dell’uomo rimane un mistero. Allora Lumeaux si ricorda di un’antica filastrocca popolare che parlava di un Veneziano divenuto pazzo; chiedendo dettagli al nonno paterno, viene a sapere che si trattava di un vetraio del XII secolo. Ammesso che fossero la stessa persona, cos’era successo per portarlo alla follia?
Il nome di Redor è legato a un passato non ben chiaro, e a una donna di nome Odette, bruciata al rogo con l’accusa di stregoneria. Nonostante siano trascorsi degli anni, d’un tratto la presenza della donna sembra tornare a farsi viva. Il figlio di Lucio, Flavio, n’è testimone, ma non sa chi sia veramente la strega perché il padre non ne ha mai parlato. Colpito da sogni e incubi in cui gli appare il suo volto, il ragazzo è sempre più perplesso e domanda spiegazioni. Lucio tace. Nessuno dei due immagina quale oscura vendetta si sta preparando, e quali rovinosi eventi sconvolgeranno le loro vite.
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Gli uccelli dalle ali di cenere - Roberto Bolognesi
VIII
Roberto Bolognesi
GLI UCCELLI DALLE ALI DI CENERE
Un bussare energico mi risvegliò per la seconda volta, quella notte. Dapprima confusi il battere ripetuto con i rumori del temporale che aveva accompagnato il mio sonno, e solo dopo alcuni istanti fui consapevole che qualcuno stava bussando alla mia porta.
Mia moglie Hortense, sentendomi abbandonare le coperte, borbottò un po’ dopodiché si tirò un lembo del lenzuolo fin sul mento, girandosi dall’altra parte. Era ancora buio. Mi legai bene la vestaglia, precipitandomi verso la porta dove intanto quei colpi non avevano cessato un solo momento di abbattersi. Nella fretta non feci in tempo ad accendere una lampada. Sceso al piano sottostante non potei nemmeno controllare che ore segnasse l’orologio a pendolo del soggiorno, la qual cosa mi irritò un po’.
Non appena domandai chi fosse a bussare così a quell’ora (quale ora?) la voce che mi rispose mi fece capire che non sarei tornato a coricarmi di nuovo. Era il domestico del signor Poincaré. Tolsi il catenaccio e gli aprii. Mi apparve subito quell’espressione che, ormai, conoscevo piuttosto bene; quella di un sottoposto che aveva guidato la vettura in piena notte, attraversando la campagna di Autun per piombare a casa del medico di fiducia del suo padrone. Mentre mi parlava trafelato sul malessere di quest’ultimo, io non potevo fare a meno di pensare alla mia voglia di dormire, mentre invece il mio dovere mi stava costringendo a togliermi il sonno come ci si può togliere un abito sporco.
Era ovvio che assentii alla sua richiesta, rassicurandolo tosto che lo avrei visitato. La sua ansia parve quietarsi; mi abbozzò un leggero sorriso, aggiungendo che avrebbe atteso che mi preparassi.
Tornai di sopra, mi vestii e ridiscesi portandomi dietro la piccola valigia con cui ero solito far visita ai malati. Prima di afferrare la maniglia della porta, mi sorpresi del fatto che mio figlio, benché piccolo e sensibile a qualunque rumore insolito, non si fosse svegliato. Mentre mi accomodavo sul fiacre chissà perché non la smettevo di pensare a René e mi sovvenne la filastrocca che gli cantavo per farlo addormentare. La strofa narrava di un uomo misterioso – il vénitien - che portava via i bambini disubbidienti.
Solevano raccontarla sempre a me, e per gran parte della mia infanzia ne fui terrorizzato. Ecco la ragione per cui l’avevo sfruttata con mio figlio. Il fatto che di rado scoppiasse a piangere in piena notte dimostrava che l’espediente adottato era efficace.
Nel frattempo giungemmo all’abitazione di Poincaré. Come al solito ero nauseato dal puzzo di vino e di escrementi di cui la vettura era ammorbata, dunque fu con sollievo che entrai in casa.
Il domestico mi aiutò a togliere il soprabito con gesti fin troppo affrettati, al punto da trasmettermi la sua angoscia. Detestavo avere a che fare con lui, non tanto per il suo cuore quanto per le sue maniere. Da un corridoio a malapena illuminato sopraggiunse la moglie di Poincaré la quale, stringendomi la mano, mi ragguagliò sulle condizioni del marito.
Ella era piacevole nei modi, inoltre il suo aspetto florido e genuino – forse imputabile alle sue origini contadine - emanava un’aura rassicurante che si diffondeva dappertutto in quella casa.
Seguendo i suoi passi fui introdotto in camera da letto. Le imposte chiuse avevano trattenuto fin troppo i miasmi notturni e per me che venivo da fuori l’impatto fu molto forte. Poincaré era sdraiato su un fianco in posizione fetale, rigido al punto che quasi non osavo salutarlo per timore che, voltolandosi nelle coperte per ricambiare, subisse un’altra scossa di dolore. Esordii dicendo a voce alta di rimanere immobile, poi feci un passo per avvicinarmi al capezzale.
Da quanto tempo accusate queste fitte?
domandai, al che egli mi scrutò a lungo, perplesso.
Le ho da ieri. Solo che ieri non erano così forti
.
Rammentate per caso di aver compiuto sforzi?
continuai.
Dopo aver scosso quella grossa testa calva, vidi Poincaré sospirare con fatica mentre il suo viso, di colpo, si contraeva in una smorfia orripilante.
Come l’ultima volta ancora non capivo se il dolore forte che accusava nella zona sacrale fosse dovuto al clima umido o se – caso ben peggiore – fosse il sintomo di una malattia. La fronte bagnata da gocce di sudore freddo, l’assenza di tremori e tumescenze mi facevano però propendere a un malessere insito nei nervi o nei muscoli. In definitiva non c’era altra soluzione che prescrivergli l’assunzione di un analgesico.
Slacciatevi la camicia, in modo che possa visitarvi
.
Jeanne, esci per cortesia
urlò all’istante. Sentii sua moglie trotterellare cauta, chiudendosi la porta appresso.
Essendo un uomo corpulento, oltretutto costretto in una scomoda posizione, dovetti aiutarlo nello spogliarsi. Cominciai a tastare la schiena lungo la spina dorsale, premendo un poco laddove il grasso mi impediva di sentire le vertebre; quando giunsi quasi alle natiche ecco che si lasciò scappare un guaito, accompagnandolo con un ‘ahi’.
Dovendo verificare se quella fitta fosse circoscritta a un punto preciso, continuai la palpazione sulla natica e sulla zona femorale. Nel frattempo, giacché s’era ammutolito, avevo comunque tenuto d’occhio la sua faccia riscontrando la medesima smorfia di poc’anzi. A questo punto ne dedussi che il dolore riguardava la regione della gamba destra, e a causa del suddetto dolore il paziente era impossibilitato nel movimento, quasi paralizzato.
Orbene?
mi fece lui, roteando gli occhi nei quali m’avvidi della sua preoccupazione. Posto dietro le sue enormi spalle potei abbandonarmi a un sospiro di rassegnazione, dopodiché tornai dall’altra parte del letto per parlargli con tutta franchezza:
A mio parere dovreste riposare. Tutto ciò che posso fare è farvi prendere queste
. Afferrai e aprii la mia valigetta, prendendo la fiala di vetro con all’interno le pastiglie d’oppio. Me ne feci rotolare un paio nel palmo della mano, mostrandogliele.
Cosa sono?
mi domandò.
Servono a lenire il dolore. Coraggio, prendetele
.
Chiamò di nuovo la signora Jeanne, facendosi portare dell’acqua e le ingoiò senza pensarci su.
Stavo per prendere commiato quando egli, tranquillizzato dal mio intervento, parve riprendere le forze nel parlare:
Debbo confessarvi che mi sento come una vecchia cattedrale che cade a pezzi. Vi ringrazio per l’aiuto, Monsieur Lumeaux. Mia moglie vi pagherà il dovuto
.
Mi limitai ad annuire, dopo ben due volte che mi recavo da lui per il medesimo, e apparentemente incurabile, dolore alla gamba. La signora mi porse le monete, non senza mostrare quel suo sorriso con il quale riusciva a depurare perfino l’aria pesante della stanza.
Quando rientrai nel soggiorno per prendere il soprabito, scorsi la debole luce del mattino fare la sua comparsa dalle imposte. Non sapevo se felicitarmene, ahimè, o piuttosto lasciarmi prendere dallo sconforto al pensiero che un giorno intero di lavoro mi attendeva.
Una sensazione soporosa, e non dissimile da quella dovuta al bere troppo vino, mi invase la testa, soppiantata poco più tardi da un sonno invincibile contro il quale le mie forze nulla poterono.
Quando mi svegliai ero sempre scosso dal movimento della carrozza e avevo un gran mal di testa. Qualcosa mi diceva che doveva essere già spuntato il sole, ma volli sincerarmene osservando fuori dal finestrino. Vidi tosto che la vettura stava entrando in paese. Percorrevamo una strada carrareccia e irta di pozze d’acqua, per giunta le ruote affondavano producendo uno strano sciacquio. Anche il profilo della cattedrale si faceva più vicino, e fu proprio allora che mi sovvenni delle parole di Poincaré.
Iniziai a chiedermi perché avesse paragonato se stesso alla cattedrale, eppure non era né vecchio né decrepito. Egli era stato testimone degli eventi del ‘93 e del 1814, il nostro paese era cambiato sotto i suoi occhi, tuttavia mi rifiutavo di credere che si sentisse un venerabile possidente solo perché afflitto da quel dolore. Le costruzioni antiche erano robuste, erette secoli fa come la cattedrale di San Lazzaro e tutto mi induceva a concludere che essa fosse incrollabile, al contrario di quanto aveva affermato il mio paziente. Sarebbe stato corretto dire che sentiva di avere la forza delle fondamenta di una cattedrale, semmai!
La testa continuava a dolermi, dunque abbandonai quelle vuote elucubrazioni preparandomi a raggiungere mia moglie e mio figlio. Solo che la decisione presa di riposare la mente non ebbi a mantenerla perché, frattanto, un’altra riflessione mi aveva colpito. E a scatenarla era stata l’osservazione della cattedrale. Innumerevoli le volte in cui avevo potuto vederla sia lontana che vicina, quando alla luce del giorno, quando sul far della sera, senza scorgere nient’altro che un luogo consacrato a Dio. Un posto freddo e grigio, costruito nei secoli bui e affatto accogliente durante le funzioni. Perché mai adesso ero come ispirato da un sentimento diverso? Perché osservarla sotto il bagliore dell’alba mi spingeva a considerarla in maniera nuova?
Subitanea mi colse la voglia di entrarvi. Prima che ne fossimo troppo distanti mi affacciai e gridai al vetturino di fermarsi nei pressi del sagrato. Poco dopo udii lo zoccolio rallentare, fino a cessare.
Sentendo crescere in me quel desiderio – la cui natura era in parte fanciullesca e capricciosa – mi affrettai ad uscire dalla carrozza dirigendomi verso il portale dell’edificio. Un attimo prima di fare il mio ingresso osai soffermarmi di fronte alla maestosità delle sue mura, osservando in particolare il fregio sopra il portone. Raffigurava Nostro Signore Gesù Cristo. Perché solo adesso coglievo la magnificenza di quest’opera? Sentii avvamparmi per l’onta, sì, proprio il