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Sai correre forte: Le parole confondono, #6
Sai correre forte: Le parole confondono, #6
Sai correre forte: Le parole confondono, #6
Ebook391 pages5 hours

Sai correre forte: Le parole confondono, #6

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About this ebook

Nella Napoli prossima alle elezioni comunali del 2016, storie di vita quotidiana alimentano le chiacchiere degli avventori del bar "Della Strada", deliziati da un buon caffè.

Ad ascoltarle ogni giorno c'è un giovane che lavora lì da poco, Salvatore, desideroso di scoprire se stesso, di realizzare i propri sogni, di essere indipendente e di amare. 

Ma Napoli non è una città facile, la sua non è una famiglia facile e la paura e l'insicurezza fanno sempre capolino all'orizzonte. E, proprio mentre le cose iniziavano ad andare per il verso giusto, suo fratello Sergio, a cui è molto legato, e una ragazza, che lui credeva speciale, lo mandano in frantumi.

Si ritroverà devastato e incapace di rimettere insieme i cocci della propria vita. Eppure non tutto sembra essere davvero perduto, c'è sempre una seconda possibilità, se si vuole. Oppure non c'è più nulla da fare?

 

Due fratelli. Un nonno. Un terribile segreto.

La voglia di sognare e di essere indipendenti.

Una realtà che spaventa e che reprime i propri sogni.

Una ragazza misteriosa. Napoli.

Una storia raccontata a colpi di caffè.

 

Sesto volume della serie "Le parole confondono", può leggersi come romanzo a sé stante, anche se si consiglia la lettura di "Sai correre forte" dopo "Le parole confondono", "Certe incertezze", "I motivi segreti dell'amore", "Un giorno, sempre" e "Sempre coi tuoi occhi".



Due fratelli. Un nonno. Un terribile segreto.
La voglia di sognare e di essere indipendenti.
Una realtà che spaventa e che reprime i propri sogni.
Una ragazza misteriosa. Napoli.
Una storia raccontata a colpi di caffè.

 

Giovanni Venturi è autore anche dei racconti/raccolta di racconti:

- Deve accadere

- Viaggio dentro una storia

- Journey within a story

- Racconti dall'isola

- Questa estate succede che

 

dei romanzi:

- Joe è tra noi

 

e dei romanzi della serie "Le parole confondono":

- Le parole confondono: volume 1

- Certe incertezze: volume 2

- I motivi segreti dell'amore: volume 3

- Un giorno, sempre: volume 4

- Sempre coi tuoi occhi: volume 5

- Sai correre forte: volume 6

LanguageItaliano
Release dateJun 25, 2017
ISBN9788890755972
Sai correre forte: Le parole confondono, #6

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    Book preview

    Sai correre forte - Giovanni Venturi

    Bar Della Strada

    Quella mattina l’aria era fresca, ma le previsioni sul cellulare informavano di un brusco aumento di temperature entro un paio d’ore. Oramai non si trattava nemmeno più di prevedere, perché era così già da qualche giorno, inoltre di lì a una settimana il clima sarebbe cambiato ulteriormente, e anche la mattinata non avrebbe più goduto della sua frescura. Nonostante fosse solo la fine del mese di maggio, l’estate era entrata in modo prorompente nel quotidiano e, a Napoli, ancora di più.

    Il caos che c’era in strada già dalle prime ore del giorno non riusciva a capacitare Salvatore.

    C’era chi batteva, bloccato al semaforo, con agitata impazienza, i pugni sul clacson, anche con il segnale fermo sul rosso. Per non parlare, invece, di chi a un incrocio si addormentava al volante facendo in modo che gli autoveicoli in fila dietro protestassero, bisognava scattare e sempre. C’era chi sfrecciava sul motorino, senza casco, spesso in due e minorenni, quasi certamente senza assicurazione, anche contro mano, altri invece si portavano dietro la famiglia al completo: padre, madre e figli. Le scene erano sempre le stesse e sfumavano dentro la realtà in modo oramai noioso. Non c’erano novità in giro, i giorni passavano sempre uguali, l’uno replica del precedente e uguale al successivo.

    Salvatore osservò un’ambulanza bloccata a causa di due auto ferme in doppia fila mentre un camioncino, al centro della strada, scaricava dei prodotti alimentari per una salumeria. I due giovanotti continuavano a trasportare gli scatoloni per niente preoccupati della coda di automobili che si stava formando alle loro spalle, ignorando le maledizioni e il pulsare frenetico delle auto. Un palpitare di risonanze che dava la sensazione di appartenere a grossi esseri vivi e scalcianti, imprigionati sotto il cofano delle auto, pronti a balzare fuori per sbranare e uccidere con denti metallici aguzzi. Lo strombazzare ripetuto sembrava raggiungere punte sempre più forti di frastuono, ma Salvatore sapeva bene che quel caos era poca cosa. Era appena l’inizio della lunga mattinata pre-estiva napoletana media. Fino al calare delle tenebre, anche per chi fosse stato abituato, c’era comunque tanto altro da udire e a cui assistere.

    Un uomo anziano scosse la testa. «Nata juornata e battaglia è schiarata, jesc sooooole!»

    Sì, c’erano sempre nuove giornate di battaglia che rischiaravano il cielo, sì, esci bel sole. Luce testimone degli eventi. Jesc sooooole! Sempre. E il popolo tutto si svegliava alle prime luci in modo regolare, sempre più presto, di continuo più eccitato e nervoso, pronto ad azzuffarsi.

    Due ragazzi salirono col motorino sul marciapiede. Andavano di fretta. Erano anche loro senza casco, quello dietro stava felicemente smanettando sul cellulare, magari scambiava messaggi su qualche applicazione di chat. Il mezzo accelerò ed emise un flebile suono.

    «Lievt ra’ nanz ’o cazz, strunz!» urlarono.

    Togliti da davanti al cazzo, stronzo!

    Salvatore sorrise alla poesia che si ripeté ancora una volta su altre persone che, come lui, avevano disturbato il loro presto cazzeggiare. Li seguì con lo sguardo. Si fermarono davanti a un bar, litigando con un anziano che reclamava.

    Potrebbero entrare e arrivare fino al bancone con tutto il motorino, cosa glielo impedirebbe? Sorrise di più.

    Intanto l’ambulanza era ancora ferma, sbraitante, come un animale messo all’angolo, ma appena pochi secondi dopo riprese a spostarsi. I ragazzi avevano concluso le consegne al negoziante, erano rimontati sul furgoncino e si erano dileguati, come se non vi fossero mai stati.

    Al centro dell’incrocio avanzava una volante della polizia, anch’essa esitante, con sirene spiegate che si unirono al rumore degli autisti inferociti e fermi all’interno dei loro abitacoli. Accelerò e si divincolò rapida, mentre il semaforo continuava a cambiare colore, dal rosso al verde, e poi ancora al giallo e poi di nuovo al rosso, mentre il crocevia era paralizzato su tutti e quattro i lati di cui si componeva. Sembrava ci fosse un raid aereo, anzi no, era come se fosse l’attimo dopo un attentato terroristico, dove qualcuno poteva essersi fatto esplodere, eppure non era nemmeno quello. Salvatore non sapeva dare un senso a ciò che vedeva, nemmeno ne aveva molta voglia. Cosa gli sarebbe cambiato?

    Di questo passo il caos si sarebbe espanso fino al cielo, non sarebbe affatto restato isolato, l’armonia sgargiante si sarebbe percepita sino al quinto piano del palazzo alle spalle di Salvatore, e di quello davanti, e di quello più avanti ancora.

    Alcune donne iniziarono a bestemmiare i morti degli autisti, mentre si lanciavano davanti alle uniche auto che, in qualche modo, erano riuscite a sgattaiolare proprio lì innanzi a Salvatore. Il ragazzo era in attesa del segnale di verde.

    «Avete il rosso! Non lo sa leggere il semaforo?» Una donna spinse il viso fuori del finestrino del piccolo autoveicolo per protestare, forse per farsi udire meglio. «Signora, si muove, almeno?»

    «Chiur o’ cess’, bucchì!» La donna, in ciabatte e con lunghi capelli rosso fuoco, in parte raccolti e tenuti fermi con un mollettone, non la guardò nemmeno in viso, continuò incurante a tagliarle la strada assieme a dei bambini. Saltavano e strepitavano in modo possente e acuto, era probabile che stessero usando tutte le loro forze, meglio di un tenore, meglio di un soprano. Al seguito, sempre in ciabatte, e con abiti consunti e capelli spettinati, una ragazza magrissima, con un volto cereo, quella che poteva sembrare la madre di quei piccoli demoni. «È schiarata a juornata, quanta granda bucchin uommn e femmn stann pa’ via, già a chest’ora!»

    Chiudi il cesso, stai zitta, succhia cazzi! Che bella giornata che è spuntata, quanti grandissimi succhia cazzi, uomini e donne, si ritrovano in giro di prima mattina! Certo, perché ammettere di aver intralciato il regolare flusso delle automobili e magari alzare una mano in segno di scusa? Perché parlare, perché riflettere? C’era già troppa confusione, non si riusciva più a dire, a fare, a capire nulla, diventava difficile anche solo orientarsi per giungere a destinazione.

    Salvatore pensò che avrebbero dovuto spegnere il sonoro, ma non si trattava di un film, era tutto vero, lì davanti a sé, in tutte le forme e gli accenti che si spandevano per l’aere. Un’aria variopinta di personaggi in giro a piedi, e non, che caratterizzavano la città, i singoli quartieri, le piazze, le strade, i vicoli. C’era da fare finta di nulla, procedere, senza fermarsi a riflettere.

    Attraversò e si incamminò con passo lento; doveva affrontare anche lui la nuova giornata, con il solito lavoro: il barista. Gli piaceva preparare caffè, ma si sentiva già stonato. La città delirava sempre di più, eppure erano appena le nove. Quel giorno aveva chiesto di poter arrivare circa un’ora dopo del solito, con più calma, forse, però, aveva sbagliato. Avrebbe dovuto presentarsi sempre allo stesso orario, almeno, in quel momento, non si sarebbe sentito completamente aggrovigliato da una miriade di armonie stonate e incontrollabili, provenienti da centinaia, migliaia di fonti sonore diverse, smarrito senza più sapere se attraversare o proseguire sul marciapiedi.

    Non smise di pensarlo che due auto si scontrarono. Gran rumore di frenata e a seguire quello dell’impatto. Due uomini sulla cinquantina uscirono subito dai rispettivi fiammanti abitacoli bestemmiando, urlando e agitando le braccia al cielo. Uno dei due, senza perdere tempo, prese un cric dal cofano e lo brandì in direzione dell’altro che, secondo lui, gli aveva tagliato la strada. In realtà l’uomo armato era passato con il rosso, finendo nella fiancata sinistra dell’altro.

    Salvatore avanzò impassibile. Non era nuovo a quelle scene. La novità stava nel fatto che non avvenissero di sera, ma così presto – quella città era sempre in attività frenetica. Nessuno riposava mai, mentre il cielo, disinteressato quanto il ragazzo, passava dal pieno di nubi all’azzurro radioso, tra il delirio ricorrente di tutti.

    Sollevò la testa. Il sole illuminava l’aria confusa, c’era appena qualche nuvola bianca che pareva un batuffolo di cotone gigante. Gli piaceva e, mentre avanzava, dovette sorreggersi al muro del palazzo alla sua destra. Una piccola voragine nel marciapiede lo aveva fatto inciampare, avrebbe potuto finire lungo disteso a terra.

    La sera precedente, una donna di sessant’anni circa non se l’era cavata come lui. Pare si fosse proprio fatta male, le avevano prestato subito soccorso i commessi della macelleria accanto, poi qualcun altro l’aveva trasportata al pronto soccorso assieme al marito. Da notizie varie che giravano nel quartiere, la donna si era spezzata il polso ed era stata ingessata.

    Proprio lì accanto, il pescivendolo inondava il marciapiede con fiumi di acqua sporca e melmosa. La stessa che aveva fatto scivolare la poveretta la sera precedente. Il pantano c’era, anche se il caldo ne avrebbe asciugato gran parte di lì a non molto. «Pesce! Pesce fresco!»

    Le attività erano così concentrate. Le urla, il traffico, le sirene, i clacson, i due uomini che stavano avendo una colluttazione, il cric che aveva spaccato il lunotto posteriore dell’altra auto. Un pullman fermo all’incrocio che cercava il modo di proseguire diritto. Poi c’era la gente che cercava di aprire i finestrini bloccati del mezzo pubblico, per guardare meglio la scena del folle spaccavetri. Urla intense di donne che poi poggiavano le mani sulle guance e sulla bocca. Atterrite. La polizia di prima non era più lì e la massa di persone che si era radunata a rimirare la scena, e che sembrava essersi materializzata dal nulla, uscita da dietro a chissà quale angolo celato, era il dipinto del mondo regolare di un normalissimo quartiere di quella città.

    Quando Salvatore venti minuti dopo entrò nel bar, dimenticò tutto, o almeno ci provò.

    Stella lo accolse tutta sorridente. «Salvatore, auguri. Quante primavere sono?»

    La ragazza aveva ventisette anni. Gli venne incontro con le braccia aperte e quel suo bel seno prorompente spiaccicato contro la camicia tesa.

    «Ventitré.»

    Non le sorrise, ma fu contento che si fosse ricordata del suo compleanno.

    «Azz, io te ne davo diciotto, non più di venti.»

    «Festeggiamo, Ste’?»

    La ragazza scosse la testa. «E come, Salvatore mio bello?»

    Si sentì arrossire appena la ragazza gli baciò le guance e gli carezzò i capelli ricci.

    Un gruppo di circa venti persone entrò di corsa nel bar, tutte dirette al bancone e la domanda di Stella restò inevasa.

    Salvatore fece un cenno di saluto al collega Antonio e si sentì finalmente lontano dal baccano della strada. L’uomo, aveva circa trent’anni, gli aveva detto con schiettezza che lui era la persona più adatta a lavorare lì perché era un ragazzo serio, spontaneo e sveglio. Gli aveva dato subito una mano per far credere al datore di lavoro che già aveva esperienza dietro un bancone, sarebbe stato un po’ il suo mentore.

    Nessuno mai gli aveva reso le cose così semplici ed erano diventati, pian piano, affiatati.

    Antonio era già lì e stava giusto iniziando a sistemare i piattini e i cucchiaini per i caffè degli avventori. Lo fissò un attimo. «Auguri, guagliò

    «Grazie, Antò, ma tu già stai qui da che ora?»

    «A me mi fanno attaccare alle sei.»

    Salvatore sbuffò, si infilò il cappellino e si mise in posizione di combattimento, accanto a Stella. «Lo hanno chiesto pure a me e da lunedì ti faccio compagnia. Chiesto, poi…»

    «Bello. Così prendi pure più soldi.»

    «No, sono sempre seicento euro.»

    Antonio gli sorrise, poi gli diede una piccola gomitata. «Sta’ zitto, se ti sente il padrone che ti lamenti sai che succede, no?»

    Il ragazzo strinse i denti. «Ma la vasellina…»

    «Giovanotto, ma si possono avere questi caffè, sì o no?» Un uomo in là con l’età muoveva con fretta le dita sul marmo bagnato lì davanti a loro, con aria visibilmente infastidita.

    «Dovrebbe chiamarli, prima.» Salvatore venne in aiuto di Antonio. «Quanti ne sono?»

    «Secondo te io entro qua, mi avvicino al banco per perdere tempo?» Mosse le falangi con ancora più velocità, sembravano cavalli al galoppo, scosse la testa e sorrise, forse ancora più seccato.

    «Faccia vedere lo scontrino.» Stella si intromise, allungandogli un sorriso ammaliatore. Di solito funzionava, la collega sapeva farci con le persone un po’ particolari.

    «Lo sta facendo la collega alla cassa, sempre che il suo collega sia in grado di batterlo.»

    Salvatore buttò lo sguardo in direzione di Alfonso, un ragazzo coetaneo di Stella. Spesso lo vedeva distratto da messaggi che riceveva sul telefono. La mattinata era iniziata in maniera agitata, e non sembrava affatto tendere a un attimo di calma, anzi era l’esatto contrario. C’era sempre più esaltazione in giro, voglia di fare a pezzi gli altri, isteria generale, forse doveva essere a causa delle elezioni comunali, poi ci ripensò. In realtà era sempre così in città, il trambusto si accentuava con l’avvicinarsi dell’estate, quando la gente riposava poco. Spesso sparavano troppi fuochi d’artificio in piena notte e bande di ragazzini urlavano e schiamazzavano per le strade, mentre il caldo iniziava ad avanzare e a spingere le persone a dormire con i balconi aperti.

    «Sono cinque caffè con zucchero, tre amari, tre con poco zucchero, uno in tazza fredda amaro, uno in tazza fredda con poco zucchero, ma di canna e…» La donna davanti alla cassa sembrava dover avere i caffè direttamente da Alfonso, il nipote del proprietario, il cosiddetto padrone.

    «Signora bella, quanti caffè in tutto? Dirà lì ai ragazzi come glieli devono preparare.» Spinse il mento di direzione di Salvatore. «Tutti espressi?»

    La donna si voltò verso l’uomo al bancone. «Quanti caffè sono, Mario?»

    «Venti.»

    Salvatore deglutì. «Venti caffè, allora?»

    «Eh, certo, giovanotto, sei sordo?»

    Lo avrebbe voluto prendere a male parole, lo guardò quasi per farlo, era pronto. Per miseri seicento euro al mese doveva sopportare quello e altro. Gli avevano allungato persino l’orario di lavoro, doveva andare anche il sabato e la domenica mattina, oltre che iniziare alle sei anziché alle otto, come era stato fino a quel momento, il tutto senza alcun incentivo economico. Tuttavia, con i problemi che si ritrovava in testa, era meglio uscire e impegnare il tempo, non poteva rimuginarci sopra, almeno non troppo, e magari rifiutarsi, perché gli era già stato detto che non era possibile aumentare la sua paga mensile. Eppure era stanco di non riuscire a farsi valere, di non riuscire a fare capire a un datore di lavoro che, nonostante la giovane età, aveva delle spese. Stava lottando in modo duro per l’indipendenza, per vivere da solo.

    C’erano cose su cose che si accumulavano in testa. Frustrazioni, delusioni, inquietudini che non poteva rivelare a nessuno; aveva paura persino di leggerle sul proprio volto, nelle pupille, quando la sera si lavava i denti e si scrutava nello specchio.

    La cosa che più in assoluto lo disturbava era la clientela maleducata. Era il peggior motivo per continuare a servire dietro un banco, sfruttato, ritrovandosi in tasca un pessimo salario.

    «Sono cinque caffè con zucchero, tre amari, tre con poco zucchero, uno in tazza fredda amaro, uno in tazza fredda con poco zucchero, ma di canna e…» La donna venne al bancone sorridendo e sventolando lo scontrino.

    «E fanno tredici, gli altri sette normali?» Antonio era pronto e attento a servire tutti.

    «Isabella, io non lo prendo amaro, lo sai, accidenti a te, sei un po’ sbadatuccia!»

    «A me zucchero di canna, ma in vetro, niente tazzina altrimenti mi rifiuto!»

    «C’è lo zucchero dietetico?»

    «Nel mio ci voglio la panna.» Una vocina nasale di una donna magrissima, una mazza di scopa, con il volto molto pallido, quasi scavato.

    Salvatore iniziò a sorridere in modo forzato, sentiva i muscoli facciali paralizzati. Sarebbero mai riusciti a preparare venti caffè diversi, a seconda di come avevano l’umore in quel preciso istante quelle venti persone? La donna che sorrideva col fogliettino in mano diceva una cosa, ma le colleghe cambiavano l’ordinazione, mescolavano il tutto rendendo le richieste confuse e da rivedere.

    «Si può avere con un goccio di panna e cacao? Ma senza zucchero, sono a dieta.» Una donna abbastanza voluminosa con una gran coda di cavallo aveva aggiunto un’altra variante ancora.

    Isabella sorrise. «A dieta? Margherita, non lo sapevo, complimenti.»

    L’altra annuì. «Devo fare a meno di zucchero.»

    «Panna e cacao ce li vuole lo stesso?» Salvatore avrebbe voluto sostenere che, in una dieta, la panna era vietata peggio dello zucchero, ma non erano affari suoi.

    «Io invece lo prendo in vetro, ma con zucchero di canna e un po’ di latte. Si può?»

    Si può? Si può? Si può?

    Io lo prendo… Io lo prendo… Io lo prendo… Aveva sentito entrare nei padiglioni auricolari quelle pretese tutte insieme, le aveva sentite fare eco nel cervello, quasi svuotandolo del tutto. Oltre la maleducazione, e il pretendere velocità ed efficienza senza mai un grazie, la cosa che lo faceva incazzare di brutto, era il dover elaborare un caffè personalizzato quando si presentavano in gruppi voluminosi e iniziavano a creare disordine, più baraonda del necessario. La situazione aveva un effetto disarmante su di lui. Se poi era il giorno del suo compleanno, come quella mattina, allora non poteva che provare il più possibile a trattenere le lacrime.

    Era il penultimo di sei fratelli, la famiglia non poteva permettersi di mandarlo all’università. A stento aveva concluso le scuole superiori e, ogni anno, già dall’età di quindici e mezzo, aveva dovuto cercarsi un lavoretto per l’estate. Aveva sgobbato al mercato ortofrutticolo spesso, spostando casse di frutta per alloggiarle all’interno di vari camion, altre volte si era spaccato la schiena allestendo interi autoarticolati di mobili e diverse suppellettili per gente che traslocava. Quando tiravano fuori tutto ciò che c’era in una casa, non si finiva mai, si accumulavano sempre scatoloni e scatoloni ricolmi di roba, vecchi mobili, lampade, di tutto e di più fino a riempire in toto gli spazi per il trasporto, cercando sempre l’incastro preciso per ogni singolo oggetto.

    Aveva servito, inoltre, durante tutta l’estate ai tavoli di pub in cui gli pisciavano in mano, come diceva lui, portava a casa anche meno di quattrocento euro in un mese, intrappolato in turni allucinanti, fino a notte inoltrata, mentre gli amici se la godevano al mare con le pacche nell’acqua; e il giorno dopo stessa storia, mentre la sua vita si sgretolava pian piano. Aveva anche venduto quotidiani universitari fuori la facoltà di Lettere e Filosofia, ma con la diffusione sempre più capillare di internet e di smartphone, e con la sempre crescente noia dei ragazzi per tutto ciò che era su un foglio scritto, spesso non aveva ricavato nemmeno i soldi per il biglietto del pullman o per una pizzetta a pranzo. L’unica cosa buona che gli era capitata di recente, era stata quella di lavorare in quel bar, ma dietro al bancone, non certo come un ragazzino che portava solo bibite e caffè a destra e a manca. Eppure gli toccava. Doveva andare anche a consegnare l’acqua, i caffè, le bibite, i panini, presso gli uffici in zona, oppure da parrucchieri e botteghe varie, con il vassoio stracolmo. La sera, poi, doveva persino lavare a terra con la candeggina per ripulire il locale perché non potevano permettersi altre spese.

    «A me con un po’ di latte, ma non troppo…» Altra richiesta ancora. C’era sempre quel con un po’, ma non troppo. Era un elemento che non poteva mai mancare quando chiedevano un caffè. Con poco zucchero, ma non troppo. Con poco latte, ma non troppo. Con poca panna, ma non troppa. Soprattutto quando, a ben pensarci, il poco era già poco di suo. Come faceva ad aumentare al punto tale da diventare troppo? C’era parecchio sconcerto sull’uso della lingua italiana, ma non doveva fregarsene. Da quando, lui che era vissuto sempre per strada parlando spesso il dialetto, voleva correggere il modo di parlare degli altri?

    Antonio fece un largo sorriso a Stella e a Salvatore. «Mo’ sistemiamo tutto.»

    La ragazza iniziò a riempire bicchieri di vetro con acqua. «Minerale per tutti o qualcuno la preferisce naturale?»

    Una donna alzò il dito, come se attendesse il permesso per parlare, si voltò prima a destra, poi a sinistra, poi guardò Salvatore. «Io naturale, ma in monouso.»

    Un uomo avanzò verso il bancone. «Io la preferirei metà naturale e metà minerale. Si può?»

    Si può? Si può? Si può?

    «Fai tutti monouso, Stella, sennò ci spicciamo stasera. Non possiamo metterci già a lavare venti bicchieri alle nove del mattino.» Salvatore le fece l’occhiolino.

    «E tu stasera tieni che fare, ho capito, bello guaglione

    Gli piaceva quando lei lo chiamava così. Lo sapeva di essere carino, ma faceva sempre un certo effetto sentirsi dire che era un bel ragazzo.

    «Quante minerali?» La donna che aveva fatto lo scontrino si voltò per raccogliere le preferenze dalla platea dei venti avventori amici suoi.

    C’era da sudare freddo, erano ancora incerti.

    Antonio passò accanto alla collega. «Ferma. Sennò li butto fuori a calci nel culo. Aspetta che dicano loro. Alfonso sta guardando da questa parte come un falco, quello spiffera tutto allo zio se facciamo mezzo errore, fai attenzione.»

    «Allora, faccia tutti in monouso, dieci naturali e dieci minerali.» Isabella decise per tutti.

    Ecco, una cosa era stata disposta. Certo, la meno importante, visto che c’era ancora da stabilire sui caffè.

    «Io la preferirei metà naturale e metà minerale. Si può?» Il signore di prima aveva una faccia poco allegra. Lo avevano completamente ignorato. Tutti, ma proprio tutti.

    «A me in bicchiere di vetro, grazie.» L’uomo che tamburellava le dita sorrise a Stella.

    «Minerale o naturale?»

    Non ci fu risposta.

    «Giorgio, minerale o naturale?» Antonio gli pose davanti il primo caffè.

    Salvatore voleva ridere. Il collega chiamava tutti Giorgio quando non conosceva il nome. L’uomo con modi un po’ scostanti e insopportabili dovette capire che gli si era rivolto in malo modo. Eppure continuava a muoversi e ad agitarsi come chi doveva essere servito e riverito perché aveva pagato e, proprio perché ci aveva messo i soldi, erano gli altri che dovevano già conoscere i suoi gusti. Chiamarlo così era stata una specie di piccola vendetta, un modo di mandarlo al diavolo e di dirgli tante cose senza aprire bocca? Salvatore ne era sicuro. Immaginò Antonio dirgli: «Giorgio, ma vedi di andare a fare in culo. Puoi? Perché se non ci riesci, vedi di riuscirci lo stesso. Bevi sto caffè e leva le tende, ’sta faccia da ebete».

    «Scusi?» L’avventore doveva essersi risentito di essere stato chiamato Giorgio, con quel tono, da un perfetto estraneo e, in particolare, da uno la cui professione era quella di barista, magari barista da quattro soldi, visto il modo in cui continuava a fissarli disgustato. Doveva stare pensando proprio quello.

    «L’acqua la vuole naturale o con le bollicine?» Antonio subito corresse il tiro, eppure sembrava fare caricature una dietro l’altra.

    «Minerale. Come lo hai fatto questo caffè?»

    Salvatore lo guardò senza capire. «Con le mie mani.»

    «È zuccherato?»

    Il ragazzo si spostò e fece leggere il cartellone in bella vista su cui Stella aveva scritto, con caratteri cubitali, mesi prima:

    Il caffè in questo bar lo serviamo zuccherato, chi lo preferisce amaro deve dirlo.

    «Sì, va bene, ma con dolcificante. Qui non ci metterò più piede. Siete capre!»

    Isabella era ancora lì davanti a loro che si sbatteva, incapace di dominare colleghi e colleghe per le ordinazioni che cambiavano a ripetizione, il volto paonazzo. Si voltava a destra e a sinistra, senza ancora aver preso il caffè che le spettava.

    Il vociare in strada, il vociare dentro il bar, le mille richieste diverse per un po’ di caffè con acqua, fecero fermare Salvatore. «Certo, col dolcificante.» O magari un po’ di veleno, che ne dice? «I restanti sono tutti normali e zuccherati?»

    «No, no, giovanotto.» Isabella prese la tazzina dal piattino di Mario. «Questo lo prendo io, poi c’è il suo con dolcificante, poi ci sono cinque caffè con zucchero, tre amari, tre con poco zucchero, uno in tazza fredda amaro, uno in tazza fredda con poco zucchero, ma di canna, e altri cinque. Uno lungo senza zucchero, uno molto ristretto con cremina…»

    «Sì, certo.» Salvatore si era perso di nuovo.

    «Uno con cremina e un po’ di latte, uno schiumato, ma non zuccherato, un altro…» Il ragazzo provò a ricordare le varianti, mentre preparava i caffè. Non ci riusciva, era un caos completo, così decise di farli tutti amari. «Il dolcificante, lo zucchero di canna e quello normale sono nella tazza grande lì davanti a lei, vede?» Indicò alla donna per maggior precisione. «Proprio davanti a lei. Li facciamo tutti amari e poi ognuno prende la bustina giusta.»

    «Sì, vedo, ma io ho pagato per essere servita nel modo più corretto.» L’accento non era napoletano. Ne era più che certo, eppure non capiva di quale città fosse originaria.

    «Allora, uno è andato, un altro lo serviamo con dolcificante. Restano cinque caffè con zucchero, tre amari, tre con poco zucchero in tazza fredda, tre con cremina, e quattro con quello di canna e per oggi siamo tutti felici e contenti.»

    «No, no, ce ne sta uno anche lungo senza zucchero, uno molto ristretto con cremina…»

    «Io lo voglio con un po’ di polvere di cacao, si può?»

    «Certo, certo.» Salvatore era sfinito, voleva piangere. Pensava ancora a quelle sere in cui restava seduto per alcuni minuti sul bordo del letto prima di stendersi del tutto. Faceva lunghi respiri, e qualche volta aveva una necessità impellente di piangere, perché non riusciva a vedere il futuro, una svolta decisiva che avrebbe interrotto tutto quel disastro in cui era catapultato ogni singolo giorno della propria vita.

    «Ragazzo, forza spicciati, andiamo di fretta. Noi un caffè dobbiamo prendere, mica siamo qui per una colazione continentale completa? Che ci vuole a fare un caffè?» Isabella si stava spazientendo? Il tono della voce era in falsetto e il fatto che fosse anche abbastanza bassa non riusciva a rendere credibile la sua aria da comandante, forse in ufficio doveva essere la schiava di tutti, mentre lì, in quel bar, voleva rovesciare i ruoli, ma i tentativi non sembravano essere andati in porto.

    Con cremina, senza. Con zucchero, senza zucchero, con quello di canna. In tazza fredda. Lungo. Macchiato. Schiumato. Con cacao.

    «Salvatore, c’è qualche problema?» Alfonso allungò il viso nella sua direzione. «Ti muovi?»

    «No, no, ora serviamo tutto rapidamente, nessun problema se la signora ci mette tutto per iscritto con tanto di firma.»

    Dannazione, dannazione! Il ragazzo tratteneva il tremito, gli occhi gli bruciavano.

    «Ottimo.» Alfonso sorrise nella solita maniera, ora lo zio avrebbe saputo anche che non sapevano fare venti caffè in venti modi diversi in meno di venti secondi. L’aumento eventuale richiesto loro, sempre da valutare, se lo sarebbe sognato.

    «Isabella, il mio è un caffè del nonno, lo hai fatto presente?»

    «Va bene.» Si voltò e annuì ai baristi.

    «Il caffè del nonno costa un euro e cinquanta, signora bella. Deve dare settanta centesimi di differenza alla cassa» specificò Stella.

    Un caffè di ottanta centesimi di merda te lo fanno uscire dal culo! Io ho pagato per essere servita nel modo più corretto! Ma perché, io sarei scorretto? Ma che stronza! Togliti davanti ai miei occhi e subito! «Senta, davvero, perché non prende un foglietto se li segna e noi così li facciamo nell’ordine giusto? Qui non si capisce più niente e lei sta bloccando il bancone da dieci minuti» riprese Salvatore, con energia.

    «Ma come, devo dare la differenza? Abbiamo speso sedici euro di caffè!»

    «Salvatò, fai ’sto caffè del nonno, lasciate perdere la differenza, ma muovetevi.» Alfonso intervenne ancora una volta per mettere becco, fissandolo con un’aria che sembrava di sfida.

    Stella venne in suo aiuto. «Ho detto io…»

    «No, a questo punto la vengo a pagare questa differenza.» La donna prese dal borsellino una moneta da cinquanta centesimi e una da venti e si diresse verso la cassa, pareva agguerrita.

    Alfonso intascò senza farle lo scontrino. La donna lo fissò, attese e lui sorrise. Pigiò le dita sui tasti e le consegnò quanto voleva. «Ecco a lei lo scontrino per la differenza.»

    L’uomo avanti con l’età, avuto finalmente il caffè, era sparito senza nemmeno salutare. Nessuno si sarebbe aspettato una reazione diversa.

    Salvatore e Antonio piazzarono i caffè amari sui piattini davanti al bancone e iniziarono a chiedere a ciascuno degli avventori come voleva essere corretto il proprio.

    «Zucchero di canna, ma in tazza fredda» biascicò una donna. «Questo scotta un accidente!»

    «Giusto.» Salvatore prese la tazzina, rovesciò il caffè nel lavello e si apprestò a rifarlo. Prese una tazzina appena lavata, scottava, così la passò un po’ sotto l’acqua fredda e poco dopo servì alla signora il caffè con zucchero di canna in tazza fredda.

    «Lei?» continuò con l’altra in fila.

    «Una spremutina di cacao.»

    Certo, come se fosse aranciata.

    Prese il cacao in polvere e lo fece volare sulla superficie del caffè.

    «Zucchero di canna.» Un uomo.

    Pochi minuti e avrebbero servito tutti.

    Salvatore fece per afferrare la bustina, ma l’altro lo fermò con un gesto della mano. «Non si preoccupi, faccio io.»

    «Restano tre amari, due in tazza fredda, uno con cremina e uno senza, ma con poco…»

    «Poco cosa?» Salvatore tornò ancora una volta a studiare quella donna energica e un po’ ingenua, un po’ arrogante. Aveva i capelli biondi che le arrivavano sulle spalle.

    Che ci vuole a fare un caffè?

    «Zucchero» completò Stella per la bionda.

    «Uno con panna e cacao, un altro con un goccio di latte…»

    Pian piano riuscirono a liberarsi della comitiva e nel bar riprese un attimo di calma.

    «Manco dieci centesimi di mancia!» Antonio rise. «E non ci ho capito niente. Ti giuro, Salvatò. È la prima volta che mi capita.»

    «Sì, però la signora ha pagato sedici euro di caffè vari e ha dato la differenza per la crema caffè.» Stella sembrava seria, poi scoppiò a ridere. «Con certa gente non ce la posso fa’.»

    «Fate meno casino e siate più veloci. Capito, festeggiato?» Alfonso aveva parlato dalla sua postazione dietro la cassa allungando verso Salvatore un mezzo sorriso.

    Non gli aveva nemmeno dato gli auguri, visto che aveva sentito bene Stella, ne era certo. Oppure quello era stato un

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