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Veleni: La morte chimica in Brasile
Veleni: La morte chimica in Brasile
Veleni: La morte chimica in Brasile
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Veleni: La morte chimica in Brasile

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Veleni. Veleni ovunque. Nella foresta brasiliana, nelle nostre case europee, nel nostro cibo italiano... Veleni prodotti, perlopiù, dalle grosse multinazionali che hanno interessi nell'agricoltura, nell'allevamento, nella produzione farmaceutica. Mostri finanziari che tendono a espandersi, ad ampliarsi in continuazione, a fagocitarsi l'un l'altro. E tutto gira a loro favore finché alcune associazioni non raccolgono le prove delle loro malefatte e decidono di denunciarle pubblicamente. Allora scattano i meccanismi di difesa che, spesso, non sono molto legali e rischiano di colpire, violentemente, gli innocenti se non fosse che ...
Tra Argentina e Brasile, tra Milano e Tokio, tra Verona e il Nicaragua, ritornano alcuni dei protagonisti dei primi due romanzi di Graziano TURRINI: guidati da un vecchio lupo della Stasi - il servizio segreto dell'ex Germania dell'Est - e da un giovane hacker, faranno di tutto per mettere i bastoni tra le ruote alle multinazionali più odiate al mondo, tentando di porre fine alla scia di violenza da esse generata.
LanguageItaliano
Release dateJun 12, 2017
ISBN9788893780445
Veleni: La morte chimica in Brasile

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    Veleni - Graziano Turrini

    abitiamo.

    Prologo

    La vigilia di Natale

    Milano

    L'uomo alla guida della BMW nera spense il motore. Si sentiva tranquillo. Aveva compiuto gli ultimi duecento metri con le sole luci di posizione, e questo gli dava una certa sicurezza. Parcheggiò all'inizio del sentiero, sotto una macchia di platani, poco fuori dalla strada in leggera salita che delimitava la zona industriale. Dietro gli alberi iniziava la campagna, formata da una miriade di piccoli appezzamenti di terreno, arati qualche giorno prima, che si apprestavano al lungo riposo invernale. Cominciò a parlare, in tedesco, agli altri due. Diede le ultime istruzioni, poi li fece scendere dall'auto. Le due figure nere scivolarono veloci lungo il muro scarsamente illuminato che costeggiava l'altro lato della strada, poi scomparvero dalla sua vista. Il cielo era coperto e cupo. La luna, che avrebbe dovuto essere quasi piena, si nascondeva dietro uno strato consistente di nuvoloni, all'apparenza innocui. L'assenza di vento garantiva, comunque, l'immutabilità della situazione.

    L’uomo nella BMW considerò che, anche se qualcuno fosse passato da quelle parti, difficilmente lo avrebbe potuto notare. Lontano, nel fondovalle, le luci della città scintillavano fiocamente tra la nebbiolina persistente e, spegnendosi poco a poco, stavano a indicare che i milanesi erano arrivati alla fine dell'abbuffata di tacchini, capitoni e panettoni.

    Si sporse dal finestrino impugnando il binocolo a infrarossi. Rivide i suoi uomini mentre attraversavano l'ultimo tratto di strada e si predisponevano a scavalcare la recinzione. Guardò l'orologio. Le ventitré e quarantasette. Erano passati solamente sette minuti. Altri tre minuti pensò.

    Trascorso il tempo stabilito, dieci minuti prima di mezzanotte compose il 113. Parlò prima in arabo, assumendo un tono agitato e quasi gridando il messaggio. Frasi senza senso dove inserì, per due volte di fila, anche Allah akbar, contando sull'effetto che avrebbe ottenuto. Dall'altro capo del filo sentì del trambusto. Sedie che si spostavano, voci che chiamavano e gente che gridava. Sorrise e attese qualche attimo, poi passò al francese, sicuro che in quel caso lo avrebbero immediatamente capito: «Une bombe à la gare. Allah akbar.» Si risparmiò l'italiano, convinto che tanto ormai il risultato era stato ottenuto. Le immagini dei due attentati in Francia, al Charlie Hebdo in gennaio e al Bataclan, sempre a Parigi, poco più di un mese prima, erano ancora sotto gli occhi di tutti e facevano scattare l'allerta nelle forze dell'ordine al primo segnale di terrorismo islamico. Immaginò che, di lì a poco, la maggior parte delle pattuglie sarebbe stata richiamata dalle periferie della città e mandata verso la stazione, a Milano Centrale, per verificare l'allarme. Di sicuro i suoi uomini avrebbero potuto agire indisturbati.

    Riprese in mano il binocolo e cominciò a osservare l'edificio. Ad eccezione dell'atrio della portineria, tutte le luci erano spente. Nell'ultima settimana avevano verificato che le due guardie non si muovevano quasi mai dal loro ufficio, situato nella parte più decentrata e nascosta dell'ampio salone. Prendevano servizio alle nove di sera, facevano il primo giro di perlustrazione attorno alla fabbrica – impiegando una ventina di minuti – alle ventitré e trenta e il secondo alle due di notte. Per il resto del tempo restavano sedute a chiacchierare o a giocare a carte nella loro sede, sicure che più di tanto non sarebbe potuto accadere, visto che, in una fabbrica, non c'era un granché da rubare.

    Immaginò i suoi uomini mentre, dall'altro lato dello stabile, forzavano la porta del magazzino per entrare. Ricontrollò sullo schizzo che aveva in mano il tragitto che avrebbero dovuto fare e i tempi di percorrenza. Dal magazzino al laboratorio non più di tre minuti. Prelievo dal deposito, sotto chiave, dei liquidi infiammabili usati come solventi e loro trasporto al piano superiore: altri cinque minuti. Avrebbe dovuto iniziare a vedere le luci delle torce, proprio nel piano sopra le teste delle guardie, verso mezzanotte e cinque.

    Continuò a osservare l'atrio: nessun movimento e la porta della guardiola semiaperta. I due della sicurezza dovevano per forza essere dentro. Le cose stavano procedendo bene.

    A mezzanotte e tre minuti vide spalancarsi la porta dell'ufficio e i due uscire, pistole alla mano, in tutta fretta. «Accidenti!» esclamò a voce alta. «Probabilmente avevano anche un sistema a sensori, di cui il ragazzo non era a conoscenza.» Prese il cellulare e compose un numero. Parlò ancora in tedesco: «Attenti. Stanno salendo!»

    Vide le torce dei suoi uomini, che si erano appena accese, spegnersi immediatamente e le loro due figure abbassarsi, probabilmente per nascondersi dietro qualche scaffale o scrivania. Nel frattempo, le due guardie avevano iniziato a salire le scale, al buio, guidate solamente dalla luce riflessa del piano terra. Ci fu un momento di stasi, prima che cominciassero i lampi. Una breve fiammata, dall'ingresso del locale verso l'interno, subito seguita da altre due, in rapida successione. Poi due bagliori, meno intensi, in direzione opposta. Vide le due figure provenienti dalle scale cadere a terra e quelle dei suoi uomini rialzarsi e avvicinarsi. Un altro lampo di luce. Un altro ancora. Poi la vibrazione del telefono. «Tutto a posto. Adesso procediamo.»

    Seguì i loro movimenti, inizialmente rallentati. Uno dei due aveva difficoltà a camminare e si sedette appoggiandosi alla parete. Immaginò che fosse stato ferito. L’altro cominciò a correre avanti e indietro da solo portando in laboratorio prima le taniche dei solventi e, subito dopo, trascinandoli, i corpi delle due guardie. Il secondo uomo rimase inginocchiato circa un minuto accanto ai contenitori, poi si rialzò e aiutò il suo compagno a scendere le scale. Uscirono dall’ingresso principale, con le chiavi sottratte alla vigilanza.

    L’uomo alla guida della BMW nera li vide sbucare in fondo alla strada a mezzanotte e ventiquattro. Considerò che, rispetto alla tabella stabilita, erano in ritardo di quasi dieci minuti, ma che questo non avrebbe comportato particolari problemi. Scese per aprire lo sportello a quello che zoppicava e lo aiutò a salire: «Come stai?»

    L’altro indico la fasciatura al polpaccio, intrisa di sangue: «Non è niente. Il proiettile deve essere uscito.»

    Poi si rivolse al suo compagno: «Quanto manca?»

    Per tutta risposta l’altro mostrò l’orologio, indicando sorridendo la lancetta dei secondi e iniziando a contare: «Meno sei, cinque, quattro, tre, due, uno… bum!»

    In quel momento si girarono verso l’edificio e videro cominciare le fiamme seguite, qualche frazione di secondo dopo, dal fragore delle vetrate che si schiantavano e cadevano, frantumandosi definitivamente, sul piazzale d’ingresso. L’incendio si propagò immediatamente anche al locale adiacente, alimentato dai solventi e dal mobilio in legno presente sul luogo.

    Mentre contemplava compiaciuto il rogo, batté con una mano sulle spalle dei due ragazzi: «Bravi. Ottimo lavoro. Adesso torniamo a casa e pensiamo alla ferita.»

    Scattò una foto col cellulare e la inviò con WhatsApp. Poi accese l’auto e si apprestò a ripartire. Immettendosi sulla strada principale, volse un ultimo sguardo all’edificio che stava bruciando. Una vena di tristezza mista a rabbia gli segnò il viso: «Non avreste dovuto far del male alla mia bambina.»

    Parte Prima

    (Tre settimane prima)

    Domenica 6 dicembre

    Castelforte, Verona

    Il volto della ragazza era stuzzicato, con raggi dispettosi, dalla luce che filtrava dalle imposte socchiuse. Il resto del corpo, rannicchiato su di un fianco e avvolto dal piumone, si crogiolava, immobile, nell'ultimo residuo di tepore notturno, destinato in breve tempo a svanire. Fabio la guardò, indeciso se lasciarla dormire ancora un po'. Avrebbe voluto svegliarla, lentamente, sfiorandole le labbra con le sue, ma pensò che era domenica. E pensò che a Elektra, in genere, alla mattina piaceva dormire. Rimase a guardarla, scostandole delicatamente la coperta dal viso. Anche così, nella visione parziale, gli parve meravigliosa. Capelli nerissimi e sottili, portati corti, a caschetto. La pelle chiarissima, di un bianco eburneo, da geisha giapponese. Il viso rotondo con occhi scuri e profondi. Lo sguardo, di giorno spesso malinconico, verso sera assumeva le note tristi che tanto gli piacevano. Nelle sue fantasie, l'aveva spesso associata a una Valentina di Crepax. Eppure, per quanto analizzasse i particolari, non riusciva a capire a chi potesse assomigliare. Aveva conosciuto i suoi genitori, Paola e Luciano. Avevano mangiato assieme un paio di sere, dopo che Elektra aveva deciso di presentarlo alla famiglia. In seguito, nell'ultimo anno, quelle volte che Fabio rimaneva a dormire con lei, si era incrociato con loro molto spesso, frettolosamente, sulle scale o in cucina. A pensarci bene, nemmeno con il fratello, Marco, aveva qualcosa in comune. Glielo aveva fatto notare, qualche settimana prima.

    «Sì, lo so» aveva risposto lei. «È una storia lunga. Un giorno te la racconterò.»

    Si alzò dal letto e scese in cucina per preparare la colazione. Prima però doveva pensare ai cani, che avevano già iniziato a lamentarsi. I cuccioli erano in fondo alle scale, ad aspettarlo. Ivan, Igor e Ianelka. Tre splendidi esemplari di Terrier russo gigante che, messi assieme, pur avendo poco più di sei mesi, davano già un quintale abbondante di muscoli e nervi. Fabio conosceva la passione del padre di Elektra per questi animali. Sapeva che li allevava da una vita, con cucciolate a cadenza biennale. E, di tanto in tanto, si faceva anche un giro in Germania, per procurarsi una femmina nuova e mescolare il sangue. Gli altri due cani, i genitori, Boris e Tanja, erano sulla veranda, appena fuori dalla porta. Stavano all'aperto tutta la notte, a spasso tra casa, campi, fienile, stalla e pollaio, per tenere alla larga i predatori, sia a due che a quattro zampe.

    Boris e Tanja gli mettevano paura. O meglio, se non paura vera e propria, perlomeno soggezione. Soprattutto la femmina. Sotto il folto ciuffo nero e ribelle che le cadeva dalla fronte si intravedevano due occhi scuri in continuo movimento, attentissimi a tutto ciò che le ruotava attorno e pronti a far scattare l'intera mole del potente corpo. Luciano, il padre di Elektra, gli aveva raccomandato di non darle troppa confidenza: «Avvicinati con il cibo, ma niente di più. È molto equilibrata, però non ama carezze o moine.»

    E così aveva sempre fatto, anche perché aveva visto di cosa fosse capace quando, qualche tempo prima, un randagio si era avvicinato troppo alla casa.

    All'apertura della porta i tre cuccioli schizzarono fuori nel cortile, cominciando a rincorrersi. Le galline, fino a quel momento indaffarate a razzolare ai margini dell'aia, si allontanarono verso il campo berciando. Boris si sollevò sulle quattro zampe, in tutta la sua imponenza, e si avvicinò per farsi grattare sotto la gola. Dopotutto era quasi un mese che, mattina e sera, Fabio gli portava la ciotola con il cibo. Un minimo di gratitudine era consentito. Tanja invece rimase ferma, immobile sul suo tappetino, finché Fabio, dopo averle riempito la ciotola, si allontanò. A quel punto si alzò, iniziando a mangiare, senza nessuna avidità e senza mai distogliere lo sguardo dal ragazzo.

    Per ultimo portò le crocchette anche ai tre cuccioli che chiuse nel recinto, finalmente liberi di correre tutto il giorno, lontani da ogni situazione pericolosa che la loro giovane età avrebbe sicuramente potuto causare. Poi tornò verso casa.

    Prima di rientrare si soffermò, come faceva spesso, a guardare la facciata dell'edificio. Fin dalla prima volta che vi aveva messo piede era rimasto affascinato da quella vecchia costruzione in pietra, ristrutturata qualche decennio prima, dopo secoli di abbandono. Hanno fatto un buon lavoro pensò. Sia chi l'aveva costruita che chi gli aveva ridato vita. Anni addietro, da quelle colline la gente era fuggita per andare verso i paradisi artificiali che la città sembrava offrire. I più lungimiranti invece erano rimasti oppure avevano comprato a basso prezzo tutti i rustici che, uno alla volta, venivano abbandonati. Il padre di Elektra probabilmente doveva appartenere a questa seconda categoria. Si ripromise di chiederglielo, un giorno.

    Nel rispetto degli antichi canoni di saggezza architettonica, la costruzione era rivolta verso sud. Quasi tutte le finestre pertanto erano state progettate su quella facciata in modo da ricevere il massimo dell'apporto solare nella stagione invernale. Ai lati estremi dell'edificio erano state mantenute le due porte originarie a volta, presumibilmente vecchi accessi alle stalle, dal momento che, nel passato, anche il calore animale veniva utilizzato come mezzo di riscaldamento. Tutta la parte centrale, con le tre porte che consentivano l'ingresso ai vari settori della casa, era abbellita da una centenaria vite di uva fragola, in attesa dell'annuale potatura che il padrone di casa effettuava sempre metodicamente e con cura. Vite che, intervallata a una pergola di glicine, proteggeva l'edificio dai raggi solari estivi. Sulla facciata, l'alternarsi di scuri aperti e chiusi e delle grate in ferro alle finestre, dava l'impressione di una sorridente bellezza perfettamente incastonata in una più generale situazione di armonia.

    Fabio sapeva quanto Elektra amasse quel posto. Le piaceva la casa, nel suo insieme, e le piaceva l'appartamentino che il padre aveva ricavato per lei nell'ala ovest, con vista sul lago. Le piaceva tutta la zona della Valpolicella. E le piaceva quella collina, in particolare, l'ultima prima della frattura geologica dalla quale si dipartiva la Valdadige in direzione Trento. Da lì dominava i grandi spazi della pianura Padana e tutta la parte del Garda che va da Torri del Benaco a Sirmione, con uno sguardo che arrivava fin sulla lontana riva bresciana. Inoltre, nelle giornate invernali di sole, quando l'aria era particolarmente tersa, rigida e frizzante, si riusciva a vedere senza difficoltà il profilo dell'Appennino, distante qualche centinaio di chilometri, con le cime innevate.

    Fabio non ci aveva messo molto a innamorarsi di quel posto. Rinnegando la sua propensione alla vita cittadina, aveva persino chiesto a Elektra il permesso di trasferirsi in collina da lei e vivere assieme. Lei però aveva rifiutato. Non si sentiva ancora pronta per una convivenza definitiva. «Sì, mi piaci e sto bene con te. Forse anche ti amo» gli aveva detto ridendo e baciandolo sulla punta del naso. «Però per adesso preferisco così: qualche sera in città, a casa tua, e qualche sera qui da me.»

    A volte assieme, altre da soli, dunque. Era una situazione che Fabio faticava a digerire, ma non se la sentiva di insistere più di tanto. D'altro canto, si conoscevano da un anno appena: troppo poco, pensava, per decidere il resto di un'esistenza. E troppo poco, in ogni caso, per conoscere una persona. Soprattutto se quella persona era Elektra.

    Si diresse verso l'entrata. Con un impercettibile miagolio soffiato e uno scatto da centometrista, Penelope, la gatta, saltò sulla schiena di Boris e, passando tra le gambe di Fabio, si infilò nella porta. Lui non fece nulla per ostacolarla perché sapeva che, nel giro di cinque minuti, l'avrebbe trovata, raggomitolata, sulla coperta del letto e appoggiata al corpo ancora tiepido di Elektra. Era una gatta tricolore, di quelle chiamate anche tartarugate o calicut. Animali che, per uno strano scherzo della natura e una storia di cromosomi X e Y, potevano essere solamente femmine. Per la sua formazione scientifica, Fabio non si stupiva di questo. Piuttosto, ciò che lo colpiva ogni volta, era quello che la gattina riusciva a fare ai cani senza che quei giganti dessero il minimo segno di insofferenza o di ostilità. Salti, moine, coccole, agguati per poi finire, immancabilmente, al calduccio in mezzo alle zampe di Tanja, a dormire per il resto del giorno.

    Accese il camino, rimestando delicatamente le braci rimaste dal carico di legna della sera precedente. Poi fece la stessa operazione con la stufa. Non avevano termosifoni, ma la casa era stata progettata in maniera tale che le canne fumarie, coadiuvate da un intrico di tubi ad aria forzata, portassero il calore anche ai piani superiori. Tecnologie antiche e moderne, sinergicamente unite per avere il massimo del risultato e del risparmio energetico allo stesso tempo.

    Caricò la moka e la pose sul fornello. Mise a tostare sul fuoco quattro fette di pane e, nell'attesa, preparò un vassoio con il vasetto di marmellata e il piattino di burro. Quando tutto fu pronto, affrontò la ripida scala che portava al piano superiore con la colazione in traballante equilibrio tra le mani.

    «Buongiorno, cuore mio.»

    Dopo aver scostato le tende e aperto completamente gli scuri, la stanza gli apparve completamente illuminata. Guardò la sua donna far lentamente emergere il viso dal piumone con gli occhi ancora socchiusi. La vide stirarsi sotto le coperte, allontanando con una leggera spinta la gatta che le si era incuneata tra le gambe.

    «Buongiorno tesoro» rispose lei con uno sbadiglio. «Com'è il tempo?»

    «Bello, direi. Se volevi il freddo, oggi sei stata accontentata. Comunque, tra un po' il sole comincerà a scaldare.»

    In effetti l'inverno stava facendo le bizze. Fino a quel momento, pochissima pioggia e nemmeno l'ombra della neve. E solamente qualche rara giornata di freddo intenso, rigido ma secco, accompagnata sempre da un sole splendido e da un cielo di un azzurro così carico da far pensare a qualche spiaggia caraibica.

    Si sedette sul letto accanto a lei, predisponendo il vassoio su un treppiede in modo da poter mangiare assieme. Più volte aveva pensato che Elektra di notte dovesse consumare una montagna di energia perché, quando si alzava alla mattina, aveva sempre una fame spaventosa. Perciò anche quella volta le lasciò tre delle quattro fette di pane tostato e imburrò l'ultima per sé.

    Mangiarono in silenzio, con calma. Poi fu lei la prima a parlare: «Che programmi hai per oggi?»

    «Mah, non saprei» rispose Fabio. «In mattinata, pensavo di andare a trovare Romeo. E, dopo, volevo passare da casa mia a dare un'occhiata. Ormai sono tre giorni che non ci metto piede. E tu?»

    «Non ho tanta voglia di muovermi. Se mi lasci qui da sola, senza darmi troppi incarichi, potrei prepararti un buon pranzetto…»

    «Tipo?»

    «Be’, non essere troppo curioso adesso. Comunque sarà qualcosa che ti piacerà, di sicuro.» Bevve un sorso di caffè. «Abbiamo l'ultima settimana tutta per noi…»

    Fabio sorrise: «Hai ragione. Ormai mi ero abituato all'assenza dei tuoi genitori.» Rimase un attimo con i pensieri in aria. «Certo che questo mese è passato in un attimo. Quando tornano? Domenica prossima?»

    «No, sabato sera» rispose Elektra. «Domenica c'è l'inaugurazione della mia mostra e ci tengono a essere presenti. Ah, adesso che ricordo! Ci sarà anche Hans. Dovrebbe arrivare sabato anche lui. Devo ricordarmi di preparargli una camera.»

    «Hans? E chi sarebbe?»

    «È un vecchio amico di mio padre. È un tedesco. Forse l'hai visto l'anno scorso quando è venuto oppure… no, fammi pensare, no… tu non c'eri ancora. Comunque ci dobbiamo organizzare. Tanto per cominciare, oggi pomeriggio potrei fare un salto in città per controllare i locali dell'esposizione.» Terminò la tazza di caffè. «È assurdo, però» continuò.

    Fabio la guardò: «Cosa è assurdo, tesoro?»

    «Andare due volte a Verona. E se facessimo tutto nel pomeriggio, assieme? Non credo che per Romeo sarebbe un problema.»

    «Ma no, figurati. Basta avvisarlo.» Fece per alzarsi dal letto. «Adesso lo chiamo e poi, mentre tu pensi alla cucina, vado nel bosco a fare un po' di legna.»

    Elektra allungò la mano per trattenerlo. «Il mio eroe!» esclamò. Fabio perse l'equilibrio e ricadde di schiena sul letto. Lei gli sfiorò le labbra con la bocca. Poi inizio a sussurrargli in un orecchio: «E se invece di tagliare legna ti fermassi un po' qui con me? Non ti andrebbe di ricominciare dal punto lasciato in sospeso ieri sera?»

    «Elektra!» le rispose lui facendo una faccia volutamente sbalordita. «Saresti disposta a rimanere al freddo per un giorno intero…»

    Entrambi sapevano benissimo che non c'era nessuna necessità di altra legna, perché la scorta fatta da Luciano nell'inverno precedente, sommata a quella tagliata in estate, sarebbe stata sufficiente per almeno altri due inverni. Lo zittì con un lungo e appassionato bacio sulla bocca: «Pur di stare a letto con te, rinuncerei al riscaldamento tutto l'inverno.»

    El Descanso, Nicaragua

    Si sollevò dall'amaca in un bagno di sudore. Con un gesto delle mani mandò via i moscerini che si stavano accanendo sulla sottile fetta di arancia galleggiante nel bicchiere di rum. Portò la bevanda alla bocca e la sorseggiò con calma, scoprendola ancora gradevolmente fresca, nonostante del ghiaccio non rimanesse ormai nessuna traccia. Guardò l'ora. Quasi le quattro. Tra non molto avrebbe cominciato a far buio. Notò a est i nuvoloni neri che si stavano avvicinando rapidamente. Calcolò che nel giro di un'ora avrebbe iniziato a piovere. Doveva andare a recuperare Paola. Nell'ultima settimana si era reso conto che, quando lei stava con Mayra, era come se per loro l'orologio non esistesse. Già dopo il primo giorno di conoscenza avevano trovato un'intesa perfetta e adesso le due donne riuscivano a passare l'intera giornata a raccontarsi la loro vita, lavorando, senza mai stancarsi. Sellò in fretta il cavallo e si diresse verso l'uscita della finca. In direzione nord, un paio di chilometri oltre la collina che sovrastava le poche case del nucleo abitato, Cipriano Chávez aveva costruito la stalla e il recinto per le sue vacche Brahma. Razza particolare, da carne, di specie zebuina, introdotta in Nicaragua una trentina d'anni prima da alcuni allevatori locali; la presenza abbondante di ghiandole sudoripare e la notevole resistenza ai parassiti avevano fatto immediatamente ambientare questi esemplari al clima caldo e umido del tropico. Il problema rimaneva il costo, molto superiore a quello delle normali vacche presenti in Nicaragua. Cipriano aveva fatto parecchi debiti per acquistare un magnifico toro da monta e una decina di manze. Adesso si trovava ad avere quasi cinquanta capi e poteva iniziare a venderne qualcuno, per recuperare parte dell'esborso iniziale.

    Nei due chilometri di sentiero maledisse mille volte il Centro America. Fu aggredito da nugoli di zanzare che, sentendo il cambiamento del tempo e l'avvicinarsi delle ore serali, si scatenarono con feroce aggressività su braccia, collo e caviglie. Non si era mai abituato alle zanzare; non c'era riuscito vent'anni prima né, tantomeno, in quella breve vacanza. Anche il cavallo, assalito da famelici tafani, seguitava a dare segni di inquietudine, scalciando in continuazione. Dovette strattonarlo più volte per mantenerlo calmo ed evitare di essere colpito in viso dai rami degli arbusti che penzolavano minacciosi ai lati della mulattiera.

    Arrivando, vide Paola dirigersi in una corsa traballante verso la stalla; i due secchi d'acqua che stava portando la mantenevano in equilibrio, ma lo sforzo era chiaramente superiore alle sue forze. Dall'interno sentì provenire i muggiti strazianti di una mucca. Fissò con un gesto rapido le redini alla staccionata e sollevò la sua donna dai pesi.

    «Come siete messe?»

    Lei non si era accorta del suo arrivo. Sorrise e gli stampò un bacio in fronte: «Male, purtroppo. Una vacca ha deciso di partorire proprio oggi e il veterinario non è ancora arrivato.» Guardò verso il fondovalle: «E, vista l'ora, penso proprio che non arriverà più. È sabato e, ci scommetterei, in questo momento sarà seduto in qualche bettola di Matagalpa a ubriacarsi.»

    Entrarono. Mayra era seduta dietro la mucca, che era stata isolata dalle altre e condotta in un recinto con paglia pulita. Videro che dalla vulva dell'animale cominciava a uscire una sacca d'acqua, sferica e giallastra.

    «Ci siamo, Paola» disse la donna, sentendo i passi alle sue spalle. «Portami l'acqua, presto.»

    Poi, voltandosi, si accorse della presenza dell'uomo. «Ah, ci sei anche tu?» continuò rinfrancata. «Sei arrivato al momento giusto per darci una mano.»

    Paola scoppiò a ridere: «Lascia stare, Mayra. Forse è meglio se ci arrangiamo da sole. Gli unici due parti cui ha assistito l'hanno così sconvolto che anche la sola vista del sangue lo farebbe star male.»

    Era vero. Luciano ripensò alla nascita di Elektra. Poi a quella di Marco, suo figlio. In entrambi i casi non aveva avuto il coraggio di guardare e il suo unico sostegno alle partorienti era stato quello di offrire loro il braccio, affinché potessero affondargli le unghie nella carne, per fare forza. Si adombrò, perché non era il caso che Paola lo sottolineasse. «Non è certo colpa mia» disse lui. «Le ho provate tutte, davvero, ma non c'è niente da fare. È più forte di me…»

    «Dai, non fare il permaloso adesso» continuò la sua compagna. «Stavo solo scherzando…» Passò uno dei due secchi a Mayra, poi si rivolse nuovamente a Luciano: «Se vuoi aiutarci davvero, facciamo così: tu adesso sistemi anche i nostri cavalli e li riporti alla finca. Tra un paio d'ore, se anche Cipriano sarà tornato, prendi la camioneta e ci vieni a prendere. D'accordo?»

    «Perfetto, tesoro. Come al solito, hai sempre la soluzione pronta» le rispose, uscendo sollevato dalla stalla.

    Le due amiche attesero di sentire i cavalli allontanarsi, prima di mettersi a ridere. «Uomini!» esclamò Mayra. Indugiò un attimo: «E credi che Cipriano sia diverso? Dopo dieci anni di guerra e con tutto quello che ha visto, a volte anche lui ha le stesse reazioni.» Poi divenne seria: «O forse è perché ne ha viste troppe.» Sospirò, scuotendo la testa come per allontanare cattivi pensieri: «Ne hanno viste troppe, tutti e due.»

    Si alzò in piedi, prendendo la bestia per la cavezza e facendole infilare il capo tra due sbarre della recinzione. Poi abbassò una terza sbarra, fissando così l'animale per impedirgli di agitarsi troppo. Si tolse la camicia, per lavarsi bene mani e braccia fino alle spalle. Spiegò a Paola che, se il vitello fosse stato in posizione podalica, sarebbe dovuta entrare per tentare di raddrizzarlo.

    La vacca iniziò a muoversi, aumentando spinte e contrazioni, mentre le due donne con dei massaggi laterali cercavano di facilitarle il travaglio. Dopo qualche minuto spuntarono le zampe anteriori.

    «Bene!» esclamò Mayra. «Sono rivolte verso il basso. Significa che il vitello è in posizione corretta. Tra non molto dovremmo vedere anche il muso.» Si girò, indicando verso la porta della stalla: «Per favore, vammi a prendere quel sacco di plastica bianco, quello appeso. C'è dentro una corda tirapiedi pulita. Dobbiamo essere pronte ad aiutarla, non appena tutta la testa sarà uscita.»

    Ci volle del tempo prima che il vitello spuntasse al mondo mostrando l'intero capo. A quel punto, Mayra prese la corda e con un mezzo nodo doppio la fece passare attorno agli zoccoli e appena sotto il ginocchio. Poi iniziò a tirare verso il basso. «Veloce, Paola, in fretta» disse esortando la sua compagna ad assisterla. «Al massimo entro un minuto dobbiamo farlo respirare.»

    Mayra era una nera della Costa Atlantica, di etnia garifuna. Discendenti dagli schiavi africani deportati al tempo delle colonizzazioni, i garifuna non si erano mai mescolati completamente con gli indios locali, conservando nel corso dei secoli tradizioni e usanze del tutto proprie. Mantenendo soprattutto, grazie al loro isolamento in una sottile striscia di terra che si affacciava sulla sponda caribica del Nicaragua, caratteristiche fisiche totalmente differenti dalla comune morfologia del meticcio nicaraguense. Alta di statura, pelle color ebano e lunghi capelli acconciati in trecce stile rasta, spalle robuste e braccia abituate alla fatica, Mayra, al fianco di suo marito Cipriano Chávez, appariva come un'enorme statua di una nera Biancaneve che portasse sottobraccio uno dei sette nani. Si erano conosciuti combattendo assieme, verso la fine degli anni Ottanta, quando la guerra alla Contra volgeva ormai al termine e Cipriano Chávez era ancora il Comandante Chávez, uno dei responsabili delle operazioni militari alla frontiera con l'Honduras. Oltre trecento chilometri di confine, da dove provenivano le bande armate dei controrivoluzionari – finanziate dalla CIA – che cercavano di far cadere il governo sandinista uscito vittorioso dalla rivoluzione del '79. Trecento chilometri di confine, dieci anni di guerra e migliaia di morti, da una parte e dall'altra. Poi le elezioni del Novanta, la sconfitta del Sandinismo e il ritorno, per tutti, a una vita quasi normale. Il momento ideale per prendersi cura del Comandante, fargli togliere la divisa, sposarselo e portarlo in una finca dimenticata da Dio e

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