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Vita da precaria
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Vita da precaria

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About this ebook

Che la Maturità sia da sempre lo spauracchio degli studenti è un fatto.
Ma qualcuno si è mai chiesto quanto questa prova "provi" gli insegnanti? Cosa si nasconde dietro il prof  minacciosamente appostato dietro la cattedra?
E' quanto si propone di svelarci l'autrice in questo scoppiettante romanzo, tra risate e spunti di riflessione.
Susanna, la protagonista, e' sì una professoressa, ma è anche mamma e compagna. E' una normalissima donna, insomma, che come tutte si districa tra casa, lavoro, figli e.. criceto!
In una girandola di tragicomica quotidianità,  i lettori potranno sbirciare il mondo della scuola da una prospettiva insolita: quella dei docenti, che in questo mondo combattono una guerra difficile, disseminata di tante sconfitte ma anche di qualche piccola, preziosa vittoria. Un mondo che da sempre è dato per scontato,  irrigidito dall'opinione pubblica in tutta una serie di clichè che ne sviliscono la funzione.
Attorno a Susanna ruota un carosello di figure ed episodi in cui tutti ci possiamo riconoscere, affettuosamente "deformati" dall'ironia dell'autrice.
Come afferma l'autrice: "Io ho una delirante ambizione: quella di uscire dalla nicchia degli addetti ai lavori per rivolgermi ad un pubblico più vasto: ai genitori e,  perchè no? agli studenti. A chi insomma crede veramente che la Scuola sia importante. Che se si vuole che qualcosa cambi, bisogna cominciare dalle fondamenta. "
LanguageItaliano
Release dateMay 23, 2017
ISBN9788826440668
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    Vita da precaria - Marina Pastore

    VITA DA PRECARIA

    INTRODUZIONE

    A quanti di noi è capitato, almeno una volta, di sentirsi dire  con malcelata incredulità: ma daaai… possibile?!? e di provare di conseguenza un grumo di frustrazione impotente proprio qui, all’imboccatura dello stomaco.

    A noi, precari della scuola, questa sensazione è distribuita a piene mani, da sempre.

    Quando parliamo della nostra condizione lavorativa con chi con la scuola ha rotto i rapporti una volta raggiunto il diploma, passi. Ma che lo sguardo incredulo ci venga rivolto da chi nella scuola ci vive, come noi, con la sola ma determinante differenza che ricopre il ruolo privilegiato di DOCENTE A TEMPO INDETERMINATO, fa molta più rabbia.

    Il nostro è un limbo conosciuto solo da noi: un territorio di nessuno in cui vigono discriminazione ed ingiustizia, il regno dei due pesi e due misure: trattamento tre stelle se sei di ruolo, trattamento pesci in faccia se sei precario. Un lutto per noi non vale il giorno pagato per presenziare al funerale. Una nostra malattia, per essere retribuita, deve durare non più di un certo periodo.

    Una gravidanza, poi, vale comunque meno, cosicchè un figlio di precaria viene al mondo già con il suo bel bollino di incertezza esistenziale sulla morbida testolina.

    E meno male che da qualche anno abbiamo anche noi diritto alla mutua, perché prima, se ti veniva un accidente, eri licenziato in tronco dopo sette giorni di mantenimento posto. Non pagati.

    Le vacanze estive lo sono solo in senso etimologico: è lo stipendio ad essere vacante per due mesi, se sei fortunata, e manco è certo che lo percepirai da settembre, perché 1) devi ottenere una nomina.  2) Devi aver a che fare con una segreteria amministrativa che espleti tutte le innumerevoli pratiche burocratiche e tratti tutti i tuoi dati personali nel minor tempo possibile perché il Ministero del Tesoro possa, bontà sua, pagarti.

    Ci sono stati anni in cui, iniziando a lavorare ad ottobre, ho visto il mio primo stipendio a febbraio!

    Quando per l’ennesima volta mi affacciavo alla segreteria per vedere se c’erano novità in merito, capitava che mi sentissi dire:Su, su…professoressa, stia allegra! Pensi che poi le arrivano tutti insieme"!

    Evviva evviva. E già, mi dicevo, qual è il problema? In fondo basta dire ai vari negozianti: Cari signori, io adesso ho bisogno di pannolini, pane, verdura e benzina. Un lavoro ce l’ho da quattro, cinque mesi, ma siccome non mi hanno ancora pagato e non chiedetemene il perché, hanno detto il mese prossimo, ma lo dicono da due, voi mi date ciò di cui ho bisogno adesso e io, statene certi, vi salderò poi.

    Non si dimentichi, inoltre, che il mio datore di lavoro non è mai stato un disumano negriero specializzato in tratta delle bianche, bensì lo Stato italiano.

    Secondo voi i negozianti  si sono mai accontentati di questo mio bel discorsetto, come garanzia?

    E se questa era la mia situazione, che comunque avevo (ed ho) un marito che lavorava e che, almeno lui,  prendeva regolarmente lo stipendio, come doveva prospettarsi la sopravvivenza per quei colleghi che dovevano contare solo sulle proprie forze o per quelli che, colmo dell’incoscienza, avevano unito due vite altrettanto precarie in un unico sogno d’amore?

    Ma, come dice il solito sadico saggio, al peggio non c’è mai fine. Infatti, quando proprio non ce la fai più , all’ennesima vergogna perpetrata nei nostri confronti te ne lamenti con la prima collega che ti capita a tiro. Senza realizzare in tempo che è una di ruolo. E’ la fine: con aria di annoiata sufficienza biascica: Su, su…guarda che siamo stati tutti supplenti, prima del posto fisso!

    Il mio velenoso contrattacco, ormai, parte col pilota automatico: Ah sì? E dimmi, cara, per quanto tempo sei stata supplente? Oh, almeno un paio d’anni! Ma pensa…allora sappi che questo è il mio ventitreesimo anno di supplenza!"

    L’effetto, ahimè, è sempre lo stesso:ma daaai... sguardo incredulo ecc. ecc..

    E d’altronde, a essere obiettivi, come si fa a non essere increduli?

    Ogni anno alle nomine ci ritroviamo a centinaia, sempre gli stessi, solo più grigi.

    Lo scorso anno è morta persino la responsabile delle nomine, credo di vecchiaia.

    Alla ferale notizia mi sono sentita, dopo tanti appuntamenti annuali, quasi orfana!

    E il giovane brillante che la coadiuvava nelle operazioni è andato in pensione quest’anno.

    Alle scorse nomine c’è stato un inceppo quando, mentre si procedeva con le chiamate, si è arrivati al nome di un collega. Chiamato per tre volte dall’altoparlante, come consuetudine, non rispondeva.

    La cosa è risultata strana a tutti noi, perché era noto che tutti gli anni, già tre o quattro nomi prima del suo, lui era già lì che scalpitava con la carta d’identità in mano, pronto a schizzare come un centometrista al tavolo nomine.

    A un certo punto una voce dal fondo fa: E’ morto!                                                                         Come, è morto!?

     Ci guardiamo costernate. Quanti anni avrà avuto? 42, 43…

    Si è suicidato. La macabra precisazione arriva dalla fila dietro. Subito ho pensato a una battuta di dubbio gusto, ma guardando il collega che aveva parlato, un tipo serio, lui ha fatto cenno di sì con la testa.

    Allora era vero. Un collega che, come molti altri, qui dentro, avrebbe ormai potuto essermi parente, visto da quanto lo vedevo, si era cortesemente tolto di mezzo!

    Per carità, magari lo avrà fatto per motivi del tutto estranei alla sua condizione di precario a vita,  però la notizia ha immediatamente creato un’atmosfera di pesante, doloroso sconforto.

    Perché scrivere un libro sulla condizione di una precaria della scuola?

    La risposta è semplice e complessa ad un tempo: il termine precario, ormai (e finalmente..) è assurto agli onori della cronaca.

    I giovani nascono ad un mondo lavorativo precario, sono dotati di autocontrollo precario, di capacità espositiva precaria e persino loro, tra le varie sigle che ormai snocciolano con maggior padronanza della lingua natia, hanno inserito anche co.co.co.

    Certo si saranno chiesti, distratti dalla contemplazione del videofonino perennemente in campo visivo, di che cosa si tratti.

    La marca di un ennesimo prodigio tecnologico?

    Il verso di una gallina balbuziente?

    L’amico ritrovato di Cip e Ciop?

    Boh.

    Comunque, consapevolezza del problema a parte, il termine precario è ormai entrato nel lessico comune. Se ne parla, certo. Adesso anche le reti televisive hanno scoperto questo nuovo filone e realizzano programmi di divulgazione e approfondimento sul fenomeno, sempre più diffuso.

    Ogni volta che vedo un promo che annuncia il prossimo programma del genere, mi annoto mentalmente che non me lo devo perdere, nella speranza che, tra le varie testimonianze, faccia finalmente capolino quella che rappresenta la  categoria degli insegnanti.

    A meno che mi sia persa l’unica trasmissione in cui un povero supplente sfogava il suo livore, le mie speranze sono sempre state deluse.

    Ma come? Alla TV ultimamente sfilano precari per tutti i gusti, ognuno con l’espressione debitamente (e giustissimamente) delusa- incazzata- depressa, che narra l’ingiustizia di un lavoro a scadenza, l’impossibilità di programmarsi un futuro, la crudele discriminazione rispetto ai colleghi col posto fisso, l’umiliazione di dover vivere, a trent’anni, ancora a casa con mamma e papà.

    E le facce grondanti comprensione dei conduttori!

    Bene: rivendico anch’io la mia parte di dovuta comprensione. O anche pietà, ormai mi accontento.

    Se nessuno racconta la nostra storia, ho deciso: lo faccio io.

    A onor del vero, da tempo abbiamo anche un Comitato Interregionale che tenta coraggiosamente di unire le forze delle migliaia di precari della Scuola. Adesso sì che potremo far tremare le mura del Ministero dell’Istruzione!

    E come si chiama, questo temibile strumento di lotta?

    C.I.P.

    E non scherzo.

    Ma daaai! Con una sigla del genere che ci rappresenta,  possiamo aspirare al massimo ad un posto fisso in un fumetto per bambini!

    Che le nostre organizzazioni vengano menzionate sempre sotto sigla apposta per ridicolizzare la categoria rappresentata? E guardate che non è complesso di persecuzione: ce n’è un’altra, che presenta le stesse rivendicazioni, la cui sigla è MIIP.

    Manca solo più Wile Coyote.

    Bè, a essere onesti, anche co.co.co. non scherza.

    Ma torniamo alle ragioni di questo libro. Dopo l’ennesima trasmissione in cui, a turno, i vari sfortunati illustravano la loro trista condizione (sembrava un concorso per eleggere il lavoratore a singhiozzopiù pietoso, mancava solo il televoto…) e nessuna voce si è levata a rappresentarmi, ho detto: Basta: se la montagna non va a Maometto.., soprattutto perché è ora di spiegare

     che non tutti gli insegnanti sono dei privilegiati che lavorano mezza giornata per uno stipendio intero, che hanno tre mesi di ferie all’anno, insomma tutti gli stereotipi triti e ritriti che da sempre aleggiano attorno alla nostra professione.

    Il precariato lo abbiamo inventato NOI.

    Per quanto mi riguarda, ho abbracciato questo look di pessimo gusto ventidue anni fa e non solo non sono diventata demodèe, ma mi ritrovo oggi a considerarmene un’antesignana!

    I supplenti, si sa, sono sempre esistiti. A chi è della leva dal ’65 circa a ritroso, è senza dubbio

    capitato, da studente,  di avere a che fare con una  giovane laureata chiamata a sostituire l’insegnante titolare. Per una settimana. Per quindici giorni, insomma,  il lasso di tempo fisiologico per guarire da un acciacco improvviso.

    Quando io ho cominciato ad insegnare, nel lontano 1985, la situazione era già ben diversa.

    Certo, anch’io ho sostituito colleghi in scuole diverse per una settimana o poco più, ma in quelle occasioni ebbi modo di avvicinare una specie nuova, ancora poco conosciuta e quindi inevitabilmente affascinante: il supplente annuale.

    A me questi esemplari ispiravano, all’epoca, un misto di venerazione e invidia: esseri superiori che venivano nominati direttamente dal Provveditorato agli Studi a coprire una cattedra per un intero anno!

    Quale insperabile fortuna, per una ragazza fresca di laurea che racimolava qualche lira lavorando una settimana in una scuola media di Chieri, dieci giorni in un istituto professionale a Ciriè, un mese, se era epoca di vacche grasse ( o meglio di influenza perniciosa) in un alberghiero di Lanzo?

    Il ruolo, all’epoca, non mi riguardava. Anzi, a questa espressione associavo invariabilmente un’immagine di insegnante incartapecorito, vagamente olezzante di tarmicida.

    Quando si dice Beata ignoranza!

    Per due o tre anni ho continuato a lavorare a intermittenza e intanto mi impratichivo nel mestiere sul campo ed apprendevo i rudimenti della farraginosa burocrazia che opprime il sistema scuola.

    Quale docente?

    Una cosa mi fu subito chiara: non esiste la figura amministrativa del docentetout court.  

    Un insegnante può essere:

    Docente a tempo indeterminato (più noto come insegnante di ruolo)

    Supplente annuale (a tempo determinato)

    Supplente temporaneo (a tempo, oserei dire, determinatissimo)

    A beneficio di coloro che vogliano masochisticamente avventurarsi nei misteri dell’Universo Scuola, ecco una veloce panoramica sulle caratteristiche delle tre categorie su menzionate.

    Procediamo in ordine di sfiga.

    SUPPLENTE TEMPORANEO

    E’ colui o colei che è chiamato a sostituire un collega assente per un periodo di tempo breve e ben definito. Viene interpellato via mail o telefonicamente dalla scuola e deve rispondere immediatamente sì o no, pena la perdita dell’occasione lavorativa.

    Facciamo un esempio: Qui è l’Istituto Tal dei Tali di Ronco Canavese. E’ disponibile per una supplenza di sette dieci dodici giorni per la materia XY?

    All’aspirante supplente batte il cuore.. ecco il momento che aspettava da sempre. La Cattedra, maestosa nel suo simbolico significato, gli si materializza davanti agli occhi sognanti.

    Certo, quella località non l’ha mai sentita nominare…ma che fai, rifiuti? Giammai! E farfuglia:

    Certo, va bene, accetto, grazie! Domani alle sette? Praticamente sono già lì… , ansioso di dimostrare la sua buona volontà.

    Scemata l’euforia di aver ottenuto qualche giorno di lavoro retribuito, finalmente, il neo assunto comincia a ragionare. Ben presto deve trattenere l’insopprimibile impulso di prendersi a schiaffi: l’istituto in questione è disperso nelle valli di Lanzo, zona tragicamente nota per le nebbie perenni che

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