Il linguaggio segreto della casa. Psicologia dell'abitazione
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Il linguaggio segreto della casa. Psicologia dell'abitazione - Roberto Pinetti
testualmente.
Premessa
Ho iniziato questo lavoro molti anni fa, a partire dalla tesi con la quale mi sono specializzato in psicoterapia all'Istituto Riza. Ricordo che presi spunto da uno scritto di Raffaele Morelli* e, più ampiamente, da un'edizione di Riza Scienze [«Casa dell'uomo, casa dell'Universo» - AA.VV. - Marzo 1989] e mi piacque l'idea di sviluppare una delle sue belle intuizione proponendo la casa come espressione simbolica del corpo umano. Un corpo, a sua volta, riletto
nella particolare visione psicosomatica proposta da Riza e che va inteso come manifestazione fisica (concreta, materiale) dell'anima. Da allora ho riscritto almeno una dozzina di volte questo libro
che non si decideva a divenire tale. Spesso sono intervenuto, erroneamente, a togliere e sintetizzare lì dove mi pareva d'aver scritto cose ovvie e risapute salvo, poi, sentirmi dire da qualche cortese collega, dopo aver letto le mie bozze, che .. [era] particolarmente interessante quel determinato passaggio. Ma sarebbe stato meglio estenderlo e approfondirlo maggiormente in modo da renderlo più comprensibile
. C'era, però, qualcosa di specifico che m'impediva di completare il lavoro. Qualcosa che si opponeva invisibilmente alla conclusione del mio scritto e non riuscivo a decifrare. Sono dovuti trascorrere parecchi anni, infatti, per riuscire a permettermi di riconoscere come valide alcune intuizioni giovanili. L'intuito mi diceva che mancava qualcosa nella descrizione delle parti essenziali dell'abitazione. Mancava lo spazio corrispondente allo studio, il laboratorio, magari l'orto, un luogo, insomma, dedicato all'attività creativa/produttiva degli abitanti. In fondo facevo riferimento ad un modello archetipico di casa. Non, quindi, ad una casa qualsiasi e tantomeno una casa ideale
secondo qualche concezione architettonica di moda. E un modello archetipico di casa include, come vedremo, un soggiorno-polmoni, un luogo dei pasti-cuore, una cucina-stomaco, un bagno-intestino, una stanza da letto-reni e uno studio-laboratorio-fegato. Quest'ultimo elemento era presente, fin dall'inizio della mia attività professionale, nel mio appartamento. Anzi, vista la mia parallela attività artistica, la mia casa contemplava ben due studi: quello di psicoterapia e quello d'arte (ovviamente si trattava solo di due stanze adattate all’occorrenza). Ho, però, sempre vissuto questa condizione come un particolare privilegio e per molti anni ciò mi ha confuso le idee. Nel senso che non mi pareva opportuno concepire una struttura domestica comprensiva di uno studio o simile a fronte di un mondo colmo di abitazioni-dormitorio e, in ogni caso, dedicate a popolazioni la cui attività lavorativa si svolgeva in fabbriche e uffici anche molto lontani dai luoghi di residenza. Gente il cui destino era caratterizzato, perlopiù, dal lavoro dipendente e che non avrebbe avuto, nemmeno volendo, il tempo di dedicarsi a qualche attività casalinga al di fuori delle mansioni affidatele dall'azienda. Ovviamente, ora lo so, sbagliavo clamorosamente prospettiva. La mia, infatti, non voleva (e non vuole) essere una ricerca storica o antropologica o, tantomeno, sociologica dell'abitazione, ma un modello psicosomatico capace di restituire informazioni utili alla comprensione della persona e delle sue problematiche psichiche (e fisiche) tramite l'osservazione della casa in cui vive. Una simile impostazione richiede, appunto, lo sviluppo di un modello archetipico dell'abitazione, cioè di qualcosa che racchiuda in sé l'intera essenza del luogo in cui vive l'uomo, al di là delle infinite forme concrete che tende ad assumere anche in relazione ai differenti ambiti culturali, economici e storici in cui viene costruita. Una volta compreso che lo studio-fegato è anch'esso un elemento essenziale della struttura psicosomatica
della casa, assieme a quelli già individuati, e non solo una specificità della mia abitazione/vita personale, ho potuto finalmente procedere al compimento del mio progetto. Sono tante le considerazioni che possono derivare da questa mia ultima constatazione. Purtroppo quella che mi appare più evidente è la drammatica perdita, almeno per molte persone, di alcuni spazi simbolici fondamentali per la nostra psiche-abitazione nel corso della industrializzazione come, in seguito, nella nostra trasformazione in consumatori. Questo lavoro parte dall'idea che la casa dell'uomo rifletta, nella sua impostazione, così come nel modo in cui viene vissuta, l'anima dei suoi abitanti. La nostra psiche, quindi, si racconta quotidianamente nel rapporto con l'abitazione in cui viviamo. Una lettura simbolica della casa ci permetterà, allora, di approfondire la conoscenza di noi stessi e delle persone con le quali ci relazioniamo attraverso una sovrapposizione fra casa e corpo in termini psicosomatici. La casa archetipica corrisponde al corpo umano simbolico (nella visione psicosomatica) ed entrambi descrivono l'essenza della persona, ovvero l'anima (la psiche). Partendo dal punto di vista psicosomatico, quindi, procederò col tratteggiare un profilo simbolico dell'abitazione in cui ogni spazio essenziale può essere messo in corrispondenza con una particolare dimensione d'organo, rivelando, così, aspetti altrimenti invisibili delle persone che vivono all'interno di essa.
* Dr. Raffaele Morelli medico, psichiatra, psicoterapeuta, fondatore dell'Istituto Riza di medicina psicosomatica, direttore della rivista «Riza Psicosomatica» e formatore presso la Scuola di psicoterapia a indirizzo psicosomatico omonima.
Prologo
Il mondo ha in sé voci che, se ascoltate, possono indicarci il senso della nostra vita. Quando, anche per un istante, riusciamo a liberarci dal rumore dei perché, otteniamo lo spazio in cui collocare la nostra comprensione. Anni fa trasmettevano una serie di film per la tv* che descriveva il non facile insediamento di una colonia umana su un nuovo pianeta. Quel mondo era già abitato da esseri con caratteristiche molto particolari i quali vivevano nel sottosuolo, i terriani
. A me parve subito che quegli abitatori sotterranei si richiamassero, per molti aspetti, agli aborigeni, e che l'intera vicenda potesse evocare l'insediamento dei britannici nel territorio australiano. In ogni caso, indipendentemente dalle intenzioni consapevoli degli sceneggiatori, questa era stata la sensazione che ne avevo ricevuto. In un episodio della serie, un umano incontrava una donna anch'essa di origine terrestre che, però, era stata adottata fin da piccola dal popolo sotterraneo e ne aveva assimilato usi, costumi e capacità. Il dialogo si svolgeva, all'incirca, come segue:
Donna dei terriani: (rivolgendosi all'uomo) «Ma perché continui a parlare tanto!?»
Uomo della Terra: «Ti sto solo facendo delle domande. È il modo col quale noi terrestri cerchiamo di capire le cose che ancora non comprendiamo!»
Donna: «Siete strani voi terrestri! Noi per ottenere la stessa cosa ce ne stiamo in silenzio, ad ascoltare.»
Questa risposta mi ha sempre intrigato e divertito. Rimanda alla facoltà di ascoltare, cioè alla qualità dell'essere recettivi. Sono sempre più convinto di quanto sia necessario far posto dentro di noi, per consentirci nuove acquisizioni. Fare spazio, insomma, affinché le cose abbiano modo di raggiungerci. La ricettività, in fondo, ha un preciso rapporto con la capacità. Parola, quest’ultima, che ci rimanda alla possibilità di fare ma nel suo significato originale descrive principalmente l’attitudine a contenere. Capacità, quindi, che diviene lo spazio interiore necessario. Un vuoto che dobbiamo scoprire in noi se aspiriamo ad accogliere nuove conoscenze.
*«Progetto Eden» (Earth2) - produzione: USA - 1994-1995 genere: fantascienza - autori: Mark Levin, Billy Ray, Michael Duggan, Carol Flint - registi vari - trasmesso in Italia su RAI 3 dal luglio 1998
Questo lavoro parte dal presupposto che esistano modi di conoscere più ampi rispetto ai processi mentali di tipo lineare, guidati unicamente dalla logica causale. L'intento è di allargare lo sguardo lì dove di solito siamo abituati a restringerlo e limitarlo. Il metodo è quello che si serve del pensiero analogico il quale, come vedremo, ci permette di risalire dal particolare alla totalità e di attribuire connessioni significative fra cose od eventi che, diversamente, rimarrebbero oscuri per continuare ad apparirci insignificanti.
La forza travolgente dell'esperienza
Forse non è un caso che le prime righe di questo scritto risalgano al periodo in cui stavo predisponendo il mio primo studio di psicoterapia. Di lì a poco dovetti affrontare la perdita di mio padre seguita a pochi mesi dalla morte della sua ultima sorella e io ricevetti in eredità l’appartamento nel quale andai ad abitare. Per me quel luogo divenne, come ogni autentica eredità, impasto d’amore e dolore. Entrare, prendere possesso, vivere in quella casa, furono azioni ben diverse da ciò che in passato avevo già sperimentato. Mi trovavo improvvisamente a contatto con tutti quei mobili ed oggetti, che rimandavano al ramo paterno delle mie origini. Tutta la memoria della famiglia di mio padre, delle origini di mio padre e delle mie stesse era racchiusa fra quelle mura. La storia della mia famiglia era nelle mie mani.
Ma, contemporaneamente, dovevo ricavare in quel luogo i miei spazi, fare della casa delle mie origini la mia casa. Dovevo decidere cosa tenere e cosa scartare e, come una chiocciola, dall’interno, costruirmi la mia conchiglia, il mio guscio. Questa, in breve, è la storia della prima fase, quando, come dicevo, tracciai solo le basi di questo lavoro. Sono poi trascorsi anni in cui ho continuato a svolgere sia l’attività di psicologo e psicoterapeuta sia quella di artista o, come preferivo definirla un tempo (così come mi era stato trasmesso da un professore all'epoca degli studi d'arte), di ricercatore visivo. Ma proprio quando i quadri parevano sul punto di liberarsi del carico nero dei miei lutti e le mie installazioni*(1), sempre più esplicitamente, descrivevano un anelito alla spiritualità, mi trovai a precipitare in un baratro così scuro che non me ne avvidi se non dopo molto tempo e così profondo da farmi scambiare per volo ciò che risultò essere, invece, caduta.
Quando scegliamo di rapportarci all'interiorità e alla profondità dobbiamo fare attenzione che essa non si confonda con la solitudine annichilente dell'isolamento, così come affacciandoci sull'orlo dell'abisso è necessario rimanere saldi e non farci trascinare dalla vertigine. Spesso però, fortunatamente, la vita ci porta con le malattie anche le cure, ovvero, coi problemi anche le soluzioni.
In quel difficile periodo la mia abitazione mi appariva sempre meno curata. Senza rendermene pienamente conto avevo omesso, giorno per giorno, di dedicarle quelle attenzioni che sono invece dovute al luogo in cui viviamo. In una stanza erano accumulati tutti i miei quadri e, lentamente, la polvere iniziava a ricoprirli. Tolte le tende dalla finestra, infine, le persiane erano rimaste permanentemente chiuse, ponendo definitivamente quel luogo nell'oscurità e nell'abbandono. Ma proprio in coincidenza con una delle estati più torride che a memoria d'uomo si fosse registrata in Italia, si verificò un cambiamento, improvviso e inatteso. In quel momento presi finalmente atto di dover fare qualcosa per la mia casa. Fui altrettanto certo, da subito, che quel qualcosa
era essenziale alla mia persona e per la mia vita. Procuratomi il materiale occorrente, mi misi a scrostare le pareti della cucina. Ripresi, così, il duro lavoro cominciato col mio insediamento in quell'appartamento. Allora non avevo ritenuto necessario imbiancare la cucina. Ora non solo intendevo ridipingerla ma iniziavo addirittura con lo scrostarne i muri. Il caldo opprimente e il lavoro, già di per sé piuttosto faticoso, presto mi portarono in una direzione fino ad allora quasi ignota, in cui il presente era l'unico tempo esistente e mi apriva a dimensioni immaginative straordinarie, come fossi precipitato in un diverso stato di coscienza. Tra il caldo terribile, il sudore e la fatica, il dolore della mia anima continuava a persistere ma assumendo via via un senso diverso, quasi si fosse trattato di un percorso iniziatico. Mi scoprii, così, a tessere analogie con l'idea che mi ero fatto, allora senza alcuna conoscenza diretta, della capanna sudatoria*(2) in uso presso la tradizione dei nativi americani e di simili esperienze d'altri popoli lontani.
Il dolore dell'anima non cessava ma, con il caldo terribile, la fatica e il sudore, pareva potermi parlare, dirmi cose che, forse, non avevo mai avuto il coraggio di ascoltare. Il raschiare della spatola contro il muro emetteva un suono stridulo, e presto mi parve trasformarsi come in una nenia o un'antica canzone. Rasch, rasch, rasch, una preghiera senza tempo si diceva da sé e più o meno faceva così:
Raschiando le pareti della mia cucina, raschiando strati di pittura e intonaco, raschiando strati di storia e memorie nascoste, raschiando ciò che va tolto per scoprire cosa rimane, raschiando senza nulla cercare, raschiando sino ad arrivare al cuore, fino al di là del cuore, fino alle radici più profonde, nel luogo dove si prepara il cibo, nel luogo in cui si consuma il cibo, nel luogo ove si trasforma ciò che sarà trasformato, raschiando via le idee ed i pensieri inutili, raschiando via le recriminazioni, raschiando via le paure e gli impedimenti, raschiando tutto ciò che non serve, per lasciare solo il necessario, raschiando con forza e fatica, grondando sudore, raschiando fino ai mattoni, fino al centro della terra, sino a vedere le stelle, fino al mattino di un nuovo giorno, raschiando per poi ricostruire, vivere e continuare, tutto questo avviene ed è già, raschiando, raschiando i muri della mia cucina.
Furono mesi di grande fatica. Alcuni giorni maledicevo il momento in cui avevo iniziato quel lavoro e, in particolare, di non aver chiesto aiuto ad alcuno. Ma in fondo al mio cuore sapevo di essere nel mezzo di un percorso che a nessuno avrei potuto demandare. Un percorso che in quel momento connetteva in un'unica, inscindibile totalità, il mio corpo, la mia casa, la mia anima. Col finire dell'estate il lavoro non risultava ancora del tutto compiuto. Dovetti liberarmi dei progetti inattuabili e orientarmi su ciò che era realizzabile con le mie forze e i mezzi che avevo a disposizione in quel tempo. Ma questa non poteva essere un'operazione di mera rinuncia. Era necessario che le soluzioni adottate nel risistemare la cucina fossero ben altro che un semplice ripiego: dovevano generare piacere e soddisfazione. Dovevano nascere da un processo creativo spontaneo, l'unico in grado di produrre un esito autentico. Così fu. Solo a quel punto mi resi conto dello stato di penoso abbandono in cui da tempo versava la stanza in cui tenevo i miei quadri. Iniziai, allora, col riaprire le persiane, così che la luce tornasse ad illuminare, coi tempi naturali del sole e delle stagioni, ciò che troppo a lungo avevo lasciato sprofondare nell'oscurità. Lavai scuri, vetri ed infissi e proseguii fino a che quella stanza non assunse una nuova identità. E così facendo mi resi conto di quanto, immancabilmente, l'agire su di una stanza non potesse non coinvolgere ogni altra stanza: la casa nella sua interezza e, con essa, la mia vita.
Feng Shui
Proprio in quel periodo scoprivo e mi accostavo, per la prima