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I SENTIERI DI FRIGG-Northern Lilium
I SENTIERI DI FRIGG-Northern Lilium
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I SENTIERI DI FRIGG-Northern Lilium

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About this ebook

Disperata ma speranzosa, nel suo consueto pessimismo, Artemisia continua la sua vita a Sarnico, nell'attesa del ritorno di Roy, che tarda ad arrivare. Vive sempre tra casa e negozio, con Lisa Amaya e Mariastella, la sua tatuatrice veggente che l'avverte di non abbattersi. Una sera, dopo una litigata con Genna, Artemisia sfodererà davanti a lei i suoi poteri, non ancora abbastanza forti e controllati. Sarà allora Roy ad intervenire e dichiarerà che è il momento che lei torni alla sua terra delle origini antiche, la Norvegia, dove la ragazza accetterà di andare di buon grado, ritrovando tanto di sè e del suo tempo perduto. Conoscerà gli amici di Roy, anche loro stregoni appartenuti alla congrega di Asgardhr e scoprirà che tra Lisa ed uno di loro, Svein, c'è un rapporto particolare. Artemisia rivivrà le passioni mancate da secoli con il suo vero amore ed otterrà maggior controllo sui suoi poteri, fino al momento in cui Roy le farà una proposta. I Sentieri di Frigg- seguito de Il Giglio Nordico edito da Temperino Rosso Edizioni: https://www.amazon.it/Il-giglio-nordico-Northern-possibili-ebook/dp/B00WQBF9FW/ref=pd_rhf_dp_p_img_4?_encoding=UTF8&psc=1&refRID=C2NH70FKQFVB5571HC81
LanguageItaliano
PublisherPubMe
Release dateMay 2, 2017
ISBN9788871631110
I SENTIERI DI FRIGG-Northern Lilium

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    I SENTIERI DI FRIGG-Northern Lilium - Alessandra Toti

    abbraccio

    I SENTIERI DI FRIGG

    NORTHERN LILIUM

    Alessandra Toti

    PubMe

    self-publishing

    www.pubme.me

    Cosa mi guidò a te?

    Ancora mi chiedo come ti trovai...

    O forse, senza che io sappia,

    sei stato tu a cercarmi

    Ed alla fine mi trovasti...

    Tu, che hai preso il ruolo del Fato,

    Mescolando le tue carte

    Ma non lasciando a me l'onore di giocare

    Forse solo l'onore di assistere...

    E come l'arcangelo Ariel contro il Male

    Hai giocato tu questa partita!

    Oh, mio bel tenebroso

    Ogni giorno mi chiedo incessantemente

    Che cosa spinse il mio sentiero verso te?

    Forse tu hai ridipinto il tuo...

    E ad un bivio ci siamo incontrati

    Ora le nostre strade

    Varcano insieme le oscure brume della vita

    1

    Le feste di Natale erano state uno dei periodi migliori attra­versati dalla cittadina di Sarnico, tranquilla, semplice e pacifi­ca, ma proprio a questo luogo ero legata e ringraziai spesso, nell'ultimo periodo, di non averla mai lasciata per andare a vivere in un altra città con i miei genitori, dove loro avevano lavoro.

    Avevo la mia professione a Sarnico, nell'erboristeria La Rosa Celtica di Lisa Amaya, mia datrice di lavoro, grande amica e, nell'ultimo pe­riodo, Madrina.

    Madrina, sì: ero diventata come lei. Una strega. Una sacerdotessa.

    Diverse erano solo le nostre origini: lei era napoletana, devota ai culti della dea Diana, nata e cresciuta come Janara.

    Io, Artemisia Norse, ero bergamasca e dall'antica discendenza norre­na. Probabilmente avrei dovuto essere devota ai culti della dea Frigg, ma purtroppo ero nata inconsapevole, cresciuta nella razionalità e lo scetticismo della mia famiglia e per questo sviluppatami con poteri da strega nordica soppressi che ora, ad un quarto di secolo dalla mia nascita, protestavano in me.

    Volevano uscire allo scoperto senza controllo. Da poco lo sapevo...

    I miei occhi si facevano d'oro sempre più spesso, permettendomi di vedere le aure delle persone, ma ciò non rappresentava il problema maggiore, perchè potevo nasconderli con degli occhiali da sole.

    Il dramma peggiore erano le mie mani, da cui ogni giorno uscivano pezzi di ghiaccio sempre più di frequentemente, e in base a ciò che facevo potevano trasformarsi in guai.

    Un giorno ghiacciai erroneamente un mucchio di fiori secchi che servivano da esposizione alla vetrina del negozio, scusandomi in modo pressochè isterico con Lisa, che mi assicurò che non era un problema. Ma dal canto mio mi rendevo conto sempre più, e lo sentivo, che non andava bene affatto: la situazione sarebbe precipitata. Mariastella, da sempre la mia tatuatrice, ci aveva svelato di avere doti di chiaroveggente e avvertiva ogni giorno, quando veniva nel nostro negozio, che stava vedendo cose legate a me che sarebbero risultate gravi, se non fossi partita al più presto per il suolo delle mie antiche origini: la Norvegia.

    Per tornare là dovevo attendere il ritorno del mio amato delle origini, Roy Dharkan, uno stregone devoto ai culti di Odino. Quando lo in­contrai le prime volte temetti fosse un malintenzionato, e dopo che scoprii essere uno stregone temetti, per conoscenze errate sui culti dei nordici, mi avrebbe divorato il cuore. Ma imparai che in realtà era solo energia tantrica quella di cui si nutriva di me.

    Scoprii chi lui fu in passato e perchè fosse venuto da me, giunto per riportarmi sul giusto sentiero delle origini. Rinacque quell'antico amore tra di noi e si rinnovò il potere della Triade: lui, io e Lisa.

    Roy però se n'era andato, dopo il mio saggio di hip hop di Natale, promettendomi che sarebbe presto venuto a portarmi con sé. La stes­sa sera del saggio, avevo scoperto che streghe e stregoni del Mondo festeggiavano Yule, il Solstizio d'Inverno, che si sarebbe protratto fino al ventitré dicembre. Lisa me lo aveva spiegato e forse era proprio quello il motivo per cui Roy se n'era andato.

    Erano già giorni lontani o, per le meno, a me sembravano lontani: solo due settimane erano trascorse, il nuovo anno era arrivato, ma sembrava che fosse passata un'eternità. Attendevo ed attendevo ogni santo giorno ma Roy non arrivava.

    Sarnico era tornata ai suoi soliti ritmi lenti e quasi monotoni, dove le persone si accalcavano in paese solo nei week end e nei periodi caldi. Le feste erano passate e finite e così anche le ferie dei lavoratori, ragion per cui era tornata quella pace che che spesso definivo quasi depressiva! Ma era diverso quella volta: la noia non m'importava perchè stavo aspettando, con il timore che Roy non sarebbe tornato. Ogni giorno, in negozio, sobbalzavo quando sentivo il campanello della porta che si apriva suonare, ma la delusione si faceva preda di me, quando constatavo trattarsi solo di clienti venuti ad acquistare prodotti erbo­ristici. Di Roy nessuna traccia. Non più. Forse lo avevo perso ancora prima di riaverlo...

    ***

    «Alla faccia loro! La nuova impiegata fatica a venire a Rovato da Ber­gamo e adesso quelli si troveranno in merda!» Canzonò Genna spaval­damente e con tono compiaciuto.

    Aveva ricevuto la lettera di avviso di licenziamento, da lì ad una set­timana per alcuni cambi di personale impiegatizio, e su consiglio di Amos si era messa in mutua per fare dispetto all'azienda.

    Vero che il suo licenziamento era stato ingiusto, senza grandi giusti­ficazioni, e faceva bene a farla pagare con la mutua ai suoi ex datori, fingendosi malata. Ma quel licenziamento era arrivato in un brutto periodo di crisi e non parve che lei fosse molto turbata. Anzi: Genna contava sull'anno di disoccupazione che le spettava per continuare a vivere, mentre cercava un'altra professione.

    Di tutta quella storia c'era solo una cosa che personalmente mi dava molto fastidio: il suo solito tono baldanzoso di chi credeva sempre che il mondo girasse attorno a sé, e tutti quegli atteggiamenti, sapevo, li aveva acquisiti da quando si era fidanzata con quell'esaltato di Amos. Genna era sempre stata molto più umile di com'era diventata.

    «Hai fatto bene a metterti in mutua» affermai dopo aver sorseggiato la tisana che aveva preparato la mia nemica-amica. Era martedì sera ed Amos non era a casa perchè partecipava ai corsi di Long Lao Dao. Per diventare maestro, diceva.

    «Sì, ho anche mal di schiena! Sai, il dottore ha detto che soffro d'in­fiammazione alla lombaggine».

    La scorsi, pensando tra me e me, che in fondo se la andava anche a cercare perchè portava tacchi alti affetta da caviglie gemelle, e nulla era peggiore per la schiena di pose scorrette e scarpe alte.

    «Te l'ho detto che nella tua condizione i tacchi dovresti evitarli».

    Alzò gli occhi al cielo, e da quell'espressione capii che stava per ini­ziare le storie: «Per quelle poche volte che li metto tu predichi».

    Sempre a dire che volevo predicare, che volevo aver ragione. Quella cosa non sarebbe mai accaduta anni prima, e l'unica cosa che potevo pensare spesso era: da che pulpito!

    «Non è che predico, ma dovresti trovare altro da portare» giustificai così la mia affermazione, anche se fui sul punto di risponderle male quella volta. Era strano che mi accadesse, ma con i poteri intuii anche che una sor­ta di aggressività si era sviluppata in me.

    «Eh, Madonna! Per quattro o cinque ore...».

    «Quattro ore un giorno, quattro un altro e vedrai».

    Da poco anch'io avevo imparato a portare i tacchi, ma non li avevo più messi, da dopo quel paio di volte che li avevo provati, dopo che Lisa mi aveva all'incirca obbligato a comperarli.

    Poco importava: il tacco era una cosa da indossare solo in occasioni speciali, e nelle ultime settimane non ce n'erano state.

    «Sì, sì» tagliò corto con tono annoiato e scocciato, un'espressione tan­to antipatica da far perdere la pazienza ai santi.

    A quel punto mi sentii la nuca formicolare e le mani prudere, mi salì il calore sul volto e quasi ringhiando ribattei adirata:

    «E allora vaffanculo!», ma mi pentii di averlo fatto. Genna mi scrutò a bocca aperta stupita: non le avevo mai risposto tanto male. Chinai la testa: «Scusa, sono parecchio nervosa in questo periodo».

    Pensai che Genna avrebbe iniziato a sbraitare, o peggio: se ne sarebbe stata lì zitta, con quella freddezza falsa che non spaventava nemme­no la gatta Fiammella, che si aggirava nella sala–cucina. Sorseggiò la tisana, e stranamente solo per pochi istanti rimase zitta.

    Mi chiese: «Cosa ti è successo, Art? C'entra Roy?».

    In quell'istante, dopo tanti anni, rivedevo la cara sorella che avevo cono­sciuto alle scuole superiori: pacata e devota all'ascolto.

    «Roy è andato via», affermai «ha detto che sarebbe tornato, ma...».

    «Hai provato a chiamarlo?».

    «Cellulare sempre spento» mi assalì un terribile nodo alla gola, un po' per tristezza, un po' per rabbia. «Se n'è andato così» aggiunsi.

    «Ci hai fatto sesso?».

    Sgranai gli occhi e fissai Genna stupita: «Ma che c'entra?».

    «Se non ci hai fatto niente, non hai nulla da rimproverarti, ha sba­gliato lui, non tu. Se torna lo sputtani, semplicemente».

    Ridacchiai, ma non proprio d'accordo con lei: non perchè sbagliasse, quella volta, ma il perchè solo io lo sapevo. Lui se n'era an­dato così, per ragioni che solo uno stregone poteva avere, ma speravo anche sarebbe presto tornato. «Hai ragione», mentii.

    «Posso farti una domanda?» M'interrogò poi Genna ed io annuii. «Come mai, ultimamente, tieni sempre i guanti anche in casa?».

    Fissai le mie mani: indossavo un paio di guanti in seta color avorio, che Lisa aveva cucito per me e che avrei dovuto indossare sempre, almeno finchè non sarei andata in Norvegia per apprendere il controllo del ghiaccio che creavo. Dovetti allora inventare una scusa credibile, in pochi secondi:

    «Mi piacciono», in effetti apprezzavo molto come li aveva cu­citi la mia amica stregata, con i polsini a punte, stile elfo.

    «Ne voglio un paio anch'io, dove li hai presi?».

    «Me li ha regalati Lisa per Natale», di nuovo pronta a copiare la si­gnorina Genna. Possibile che non riuscisse a crearsi una personalità da sé? Era sempre stata così, fin dalle scuole, quando mi vedeva dise­gnare manga. Ma il fatto che copiasse il mio stile di disegno, non era chissà che dramma, e da un lato poteva essere anche un segno di ap­prezzamento.

    Fiammella stava seduta nel mezzo del salotto e ci fissava con occhi grandi ed a palla. Il suo sguardo mirava specialmente Genna, che si alzò lentamente pronta a balzarle addosso per prenderla in braccio. Lo fece: Fiammella cercò di scappare, ma Genna riuscì a prenderla.

    Rimasi ad assistere alla scenata ridicola della piccola gatta che si ribellava a morsi e la padrona che rideva, spezzando le risate con dei sonori ahi!

    Mi assalì il turbamento quando notai qualcosa di nero a terra, pro­prio sotto la ragazza seduta sul pavimento. Sembrava inchiostro che si prolungava, salendo sul muro. Inizialmente pensai fosse la sua om­bra ma l'angolazione era irregolare ed il nero troppo evidente.

    Sul muro appariva una sagoma che non era Genna. Una sagoma scura e mostruosa, incomprensibile, perchè era solo un'ombra. Mentre la fissavo ad occhi sgranati parve ricambiare il mio sguardo ed aprire la bocca, con un ringhio agghiacciante che solo io sentii.

    Emettei un grido e balzai in piedi. Genna smise di tormentare Fiam­mella e mi rivolse lo sguardo, allarmata dal mio urlo.

    «Artemisia che cosa c'è?».

    L'ombra nera era sparita, ma vedevo l'aura di Genna, bianca con un grosso contorno nero e intuii che i miei occhi dovevano esser diventati nuovamente d'oro. Oh, no, i miei occhi!

    «Genna... Genna... io...» farfugliai incapace di trovare scuse e sempre più turbata da quello che avevo visto alle sue spalle.

    Senza mai distogliere gli occhi da me inclinò il capo, stringendo a sé Fiammella che la mordeva per liberarsi, ma Genna non se ne accorgeva neppure, tanto era impegnata ad osservarmi.

    «Artemisia ma... i tuoi occhi?».

    Chinai il capo ed indietreggiai un paio di passi. Le lacrime mi stavano già sorgendo sull'orlo degli occhi. Indossai il cappotto e presi la mia borsa mugolando:

    «Scusami, Genna!», uscii di corsa sentendo la ragazza chiamarmi nel tentativo di fermarmi, ma non la ascoltai. Non pensai nemmeno che avevo l'auto parcheggiata proprio fuori dalla sua casa e mi misi a correre lungo via Veneto. Passando davanti alla casa di cui si era im­possessato Roy, mi fermai davanti, con un senso di angoscia che mi rodeva dentro. Mi avvicinai al cancello esterno e suonai il campanel­lo. Nessuna risposta. Il cancello chiuso. Le luci spente.

    Mi attaccai con le mani alla sbarre del cancellino e guardai oltre, verso la porta silenziosa. A quel punto non trattenni più le lacrime.

    «Dove sei, Roy? Dove sei finito?» singhiozzai spezzata dal dolore. Udii una macchina accostare alle mie spalle e subito dopo il finestri­no elettrico che si abbassava.

    «Artemisia».

    Riconobbi la voce di Mariastella e mi voltai verso di lei. Subito si ac­corse dei miei occhi dorati, gonfi e lacrimanti. «Ciao Mary».

    «Ma cosa ti è successo? Perchè stai piangendo? Dai, sali».

    Girai attorno all'auto e mi sedetti sul sedile. La piccola utilitaria bian­ca si mosse lungo via Veneto, allontanandosi dalla casa di Roy. Vuota e deserta, così com'ero io dentro all'Anima.

    Mi asciugai le lacrime, iniziando a sentirmi più tranquilla: la presen­za di Mariastella riuscì a farmi frenare il pianto.

    «Da dove sei arrivata?» Domandai.

    «Ho portato a casa Aurora, stavo tornando a casa. Ma dimmi tu, cosa ti è accaduto? Dove stavi andando?».

    «Da Lisa». A dire il vero non ero intenzionata ad andare da lei, ma im­provvisamente mi assalì il bisogno di parlarle. «Mi è successo un fat­to strano da Genna. Credo di aver visto la sua negatività».

    Udii Mariastella sospirare e di riflesso sbirciai verso di lei, notandola pensierosa. La sua aura con i cristallucci era lieve ed opaca attorno a lei. Se continuavo a vedere la sua aura significava che i miei occhi insistevano a restare d'oro, ma non m'importava: lei sapeva. Purtrop­po anche Genna temevo sapesse ora.

    «Ti accompagno da Lisa» non ci volle molto. Attraversammo ciò che restava di via Roma e giungemmo in piazza XX Settembre, dove Ma­riastella sostò vicino alla banca centrale.

    «Grazie Mary».

    «Arty, stai tranquilla» mi diede una buffetto sulla guancia. Annuii con sguardo sconsolato e gli occhi che non tornavano verdi. Maria­stella continuò: «Non perdere l'equilibrio per colpa degli altri».

    «Lo farò. Grazie mille» scesi dall'auto, e poco prima di richiudere la portiera alle mie spalle, la donna aggiunse ammiccando:

    «Non disperarti, non manca molto».

    Non riflettei granchè su quella frase, dopo aver chiuso la portiera. Mi avviai verso la via Lantieri e giunsi davanti alla Rosa Celtica, sopra la quale c'era l'appartamento di Lisa. Suonai il campanello.

    Il campanile di San paolo scoccò le ventitré e mi augurai che Lisa fosse sveglia o non si fosse presa un colpo. Invece la porta si aprì ed io salii, trovando la mia amica stregata che mi attendeva in cima alle scale. Mi sorrise in modo freddo:

    «Sapevo saresti venuta. Su, vieni dentro».

    Lo sapeva...

    Un forte profumo d'incenso naturale mi salì su per le narici appena entrata. In mezzo al salone c'era il tavolino rotondo, che di solito ave­va posizionato accanto al divano, coperto con una tovaglietta di seta nera. Troneggiavano al centro del tavolo i suoi tarocchi, disposti al centro a croce celtica.

    «Capisco perchè sapevi» mormorai.

    «Hai visto qualcosa da Genna, vero?», mi lanciò uno sguardo: «I tuoi occhi sono aurei, ciccina. Che cos'hai visto?».

    «La negatività» un singhiozzo mi ruppe la voce. La sua aura era vio­letta, ma sfumava verso un alone di porpora. «Sei... nervosa?».

    «Sì, stai distinguendo già i sentimenti dai colori delle aure».

    «Genna ha visto i miei occhi» confessai.

    «Oh, Mado', l'ultima persona che avrebbe dovuto vedere», mi invitò a seguirla in cucina dove c'era un bollitore d'acqua sul fuoco. Lo tolse e ne ver­sò un po' in due tazze, vi immerse rispettivamente due sacchettini con della polvere dai granuli, grossi e color ocra: l'acqua iniziò ad assumere un colorito giallastro. «Camomilla».

    «Che marca comperi? Mai vista con questi granuli».

    Lisa ridacchiò: «Nessuna marca, la faccio io», mi porse la zuccheriera con lo zucchero di canna: «Ti aiuterà a calmarti».

    La zuccherai e ne bevvi un sorso. Era buonissima, anche meglio della normale camomilla industriale.

    Notai il mio riflesso nell'acqua della camomilla ed i miei occhi che sembrarono fosforescenti. Sospirai:

    «Mi aiuti, Lisa?».

    Lei mi guardò, bevve un sorso di camomilla e posò la tazza sul piano del tavolo. Appoggiò una mano sulla mia testa e chiuse gli oc­chi, afferrando con la mano libera la gamba di legno del tavolo. Un alone violetto mi avvolse il capo, dandomi un senso di benessere, e lo stesso alone si materializzò nell'altra mano di Lisa. Il tavolo tremò leggermente, come se si fosse scatenata una scossa di terremoto. Con un sospiro mi guardò: i miei occhi erano tornati normali.

    «Un poco di negatività si era attaccata addosso anche a te, l'ho scaricata nel legno del tavolo, un buon catalizzatore».

    «Perchè si era attaccata?».

    «Persone negative possono intossicarci l'Anima», scostò una ciocca di capelli. «Inoltre c'è stato spavento, paura e... qualcos'altro ti turba» posò su di me un volto malizioso «Ti manca Roy, vero?».

    Annuii sentendo le palpebre appesantite ed un sonno fortissimo che mi stava assalendo. «Mi manca da impazzire» bofonchiai, sbadigliando.

    Lisa mi sorresse, facendomi stendere sul divano del salotto e copren­domi con una morbida coperta. Mi diede una carezza sul capo, guar­dandomi come se fossi stata sua figlia.

    «Tornerà, cicci, vedrai».

    «Ho paura mi abbia dimenticata», le lacrime mi rigarono il volto.

    «No, tesoro, ricorda il filo del destino».

    «E se si fosse spezzato?».

    «Artemisia, non si può spezzare il filo del destino. Mai».

    Annuii mentre i miei occhi si chiudevano, facendomi cadere in un sonno colmo di immagini. Stavo in piedi, in cima ad un altopiano, e fissavo la vallata che si stendeva ai piedi dell'alto sperone. Aleggiava delicata la nebbia, la foresta spruzzata di neve spuntava dalla coltre, un fiume scendeva, creando un lago appena sotto di me.

    Mi vedevo in terza persona, in posa fiera, baciata dal sole che riflet­teva sulla fascia di metallo con il compasso runico inciso. I miei avambracci erano coperti da spessi bracciali di cuoio e rame e la mia veste bianca scendeva morbida sui miei fianchi con le spalle av­volte da una spessa pelliccia bianca.

    Sospirai mentre il vento muoveva leggermente le due trecce bionde. Sembrò che l'altra me mi guardasse, e sorridendo diceva:

    «Tillit», si voltò a baciare il sacerdote di Odino. Ero io, mi ero voltata verso Roy e avevo baciato. In norvegese, l'altra me, aveva detto solo una parola: fiducia.

    2

    Mi mancherai tanto, tantissimo quando me ne an­drò, Lisa... Fu il pensiero che la mattina dopo mi svegliò, insieme ed un ordinato trambusto e il rumore della moka, il caffè che borbottava mentre sa­liva, accompagnato dal suo delizioso aroma.

    Impiegai diversi istanti a riprendere al meglio coscienza, i miei occhi erano tanto gonfi che faticavo ad aprirli, chissà quanto avevo pianto? Riuscii a svegliarmi bene quando mi giunse all'orecchio una carezzevole voce dal timbro partenopeo, che cantava con tono soffice una canzone napoletana.

    Ero distesa sul divano di Lisa, avvolta dalla calda coperta in pile viola. Con un verso strozzato mi tirai su a sedere e sfregai gli occhi, ritro­vandomi le mani nere per via del trucco, che la sera prima non avevo tolto. La luce che filtrava dalle persiane era ancora debole.

    Mi alzai e barcollai in cucina: Lisa stava imbandendo la tavola per la colazione, e quando si accorse di me sorrise, augurandomi il buon­giorno. Spostò la sedia dal tavolo per farmi accomodare.

    L'orologio da parete segnava le sei e quarantacinque del mattino. Era da tanto che non mi svegliavo prima delle sette, dai tempi della scuo­la, quando la mia radio–sveglia trillava sempre alle sei in punto e mi deliziava della possibilità di vedere l'alba, in certi periodi.

    Lisa posò due tazze di caffè, un piatto con sopra posate due croissant calde al cioccolato, succo all'arancia e latte.

    «Di solito non faccio colazione a casa, ma ci sei tu come mia ospite, stamattina» versò il latte nella sua tazza e lo porse a me. «Sono stata qui dal fornaio della contrada, apre prestissimo» iniziò con tono sve­glio ma stranamente più lento di com'era solitamente. Ridacchiò: «Hai gli occhi da panda, dopo ti do del cotone. Ti ho preparato il bagno».

    Versai del latte nel caffè e lo zuccherai in silenzio, pensando a quel che mi aveva detto.

    «Non ho intimi di cambio, però».

    «Tranquilla, per l'intimo ho qualcosa di ancora impacchettato da darti, mai usati».

    Bevvi il caffè-latte, dopo aver addentato la brioche, controllando Lisa che parlava con quello strano tono di voce. Il suo viso sembrava più angelico del normale, e mi pareva strano a quell'ora del mattino.

    «Sei strana. A che ora ti sei alzata, se posso chiedertelo?».

    Sorrise: «Alle cinque, come sempre. Bagno caldo e meditazione».

    «Alle cinque mediti? Io lo faccio sempre in pausa pranzo».

    «Buon per te, se funziona, il meglio sarebbe la mattina presto».

    Fare meditazione ogni giorno a quell'ora mi faceva bene, mi aiutava a stare più serena, anche se in altri momenti ero tutto fuochè tran­quilla. Non pensai mai di alzarmi alle cinque per mettermi a meditare, ma credevo a Lisa: Janara esperta qual'era, ero sicura che ci sapesse fare bene, sicuramente più di me.

    Dopo colazione mi lasciò usare il suo bagno per sistemarmi, mentre lei riassettava la cucina. Mi lavai e ripulii gli occhi dal nero dell'eye liner, dopo di che asciugai i capelli ed indossai il mio reggiseno e gli slip nuovi che mi aveva dato Lisa. Li guardai alcuni istanti, prima di metterli: erano ancora nella scatola, nuovi di zecca quando li presi. Avevano il pizzo sui bordi, ma fortunatamente erano in cotone e non negavo che davano un certo non so che di sexy.

    Avevo insistito di non prestarmi anche gli abiti, ma Lisa si oppose, di­cendo che i capi che mi avrebbe dato non le vestivano più. Anche se su quel particolare non le credevo perchè era più magra di me, probabilmente le stavano grandi.

    Per via della sua insistenza dovetti accettare l'offerta.

    Oh, tutta quell'ospitalità e quell'affetto, tipico dei calorosi abitanti del Sud Italia, era una cosa cosa adoravo e che forse ad alcuni abitanti del Nord Italia mancava. A volte, nonostante io fossi abitante del Set­tentrione, mi risultava quasi fastidiosa l'idea che parecchi fossero dif­fidenti. Arrivai a chiedermi come fossero gli abitanti dell'estremo Nord Europa, a volte freddi e riservati.

    Se pensavo a come si era comportato Roy, la prima volta che ero stata da lui, non mi pareva affatto che i nordici fossero poco ospitali. Do­mandai a Lisa se ne sapesse qualcosa quando, dopo essermi vestita del tutto, uscii dal bagno e la raggiunsi.

    «Sono come noi Meridionali, si fanno in quattro per ospitarti».

    «Motivo?».

    Lisa si picchiettò un dito sulla bocca mentre rifletteva. «Posso ipotiz­zare sia per via del clima e del territorio freddi».

    «Credo che un

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