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Gli eletti di Duveth
Gli eletti di Duveth
Gli eletti di Duveth
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Gli eletti di Duveth

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About this ebook

Si risveglia dopo non sa quanto tempo, in un luogo che non riconosce. Si guarda le mani, dimentico di se stesso, lo sguardo alla febbrile ricerca di particolari che gli dicano chi è, cosa ci fa lì, nel deserto, cosa significa quel tatuaggio sulla caviglia destra... Solo un nome riecheggia nella mente: Duveth.
È così che ha inizio l’avventura del giovane Aleor, la difficile ricerca della propria identità, che da subito si rivela essere intrecciata a una missione ancor più impegnativa: arginare il dilagante potere di Vard, radunare le forze del bene in uno schieramento compatto, che metta fine all’odio e alla violenza imperanti nel mondo.
L’impresa è quasi impossibile ma la speranza rimane salda anche nelle circostanze più disperate, perché chi ripone la propria fiducia in Duveth non rimane deluso; Egli ascolta le invocazioni di quanti lo temono e infonde coraggio nel cuore degli audaci, riempiendo di doni inattesi le loro vite e i loro cuori.
Gli eletti di Duveth è un Fantasy assolutamente nuovo, un romanzo fortemente allegorico ricco di azione, inventiva e sentimenti, in grado di comunicare al lettore entusiasmo, coraggio e voglia di vincere sulle difficoltà della vita.
LanguageItaliano
Release dateApr 30, 2017
ISBN9788856782813
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    Gli eletti di Duveth - Leonardo Silvi

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2017 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-8281-3

    I edizione elettronica aprile 2017

    Capitolo 1. Duveth

    Aria. Aria nei polmoni. Stava respirando ed era l’unica cosa che sapeva. Chi era? Non ne aveva la minima idea. Non ricordava nulla di chi fosse e di come mai si trovasse lì. Lì dove? Aprì gli occhi ed il sole lo costrinse a richiuderli immediatamente. Li riaprì di nuovo e con più cautela, aspettando pazientemente che si abituassero alla forte luce che c’era e scoprendo piano piano il paesaggio che lo circondava: era disteso in un enorme letto di sabbia e nient’altro. Tutto intorno a lui era identico.

    Si tirò su e si mise a sedere; si guardò le mani sporche di sabbia. Notò che erano mani abituate al lavoro, segnate da qualche callo e piccole cicatrici, anche se erano mani giovani. Osservò il resto del corpo e pensò che non doveva avere più di venti anni: il corpo era snello, ma si intravedevano le linee di una muscolatura ben sviluppata e tonica. Era vestito con una sola casacca di tela marrone strappata in alcuni punti. Forse era un semplice contadino, ma come era arrivato in mezzo al nulla? Cosa c’era da coltivare nel deserto?

    Mentre rifletteva e vagava con lo sguardo sul suo corpo che non conosceva, notò qualcosa sopra la caviglia destra: da lontano sembrava una macchia di sporco, ma avvicinandosi scoprì che era un piccolo tatuaggio fatto interamente in inchiostro nero; vi era disegnata una luna sopra una stella a quattro punte. Nonostante le piccole dimensioni e la semplicità del disegno, sembrava che fosse stato realizzato con molta cura.

    Duveth. Questa parola gli entrò in mente con la forza di un uragano e vi si stampò per diversi secondi, facendogli provareun senso di timore mischiato a coraggio. Forse era il suo nome, ma poteva un semplice nome provocare dei sentimenti così forti? Dentro di sé sentiva che era qualcosa di più; non sapeva ancora cosa, ma era certo che quello non fosse il suo nome. Si innervosì pensando a tutte quelle domande che invece di ricevere risposte facevano posto ad altri quesiti.

    Sbuffò, quindi cercò di mettere ordine ai suoi pensieri. Osservò di nuovo il tatuaggio: un bracciante qualsiasi difficilmente avrebbe potuto permettersi di fare tatuaggi così minuziosi ed elaborati, per cui decise di scartare l’ipotesi del contadino. Ma allora chi era?

    Certo che non avrebbe trovato una risposta fermo lì dov’era, decise di mettersi in viaggio; stupendosi di se stesso e delle sue conoscenze, ricavò l’orientamento dei punti cardinali dalla posizione del sole e dalle ombre che alcuni sassolini formavano sulla sabbia. Decise di ascoltare il suo istinto che gli diceva di muoversi verso ovest, alla ricerca di qualcosa che non fosse sabbia. Provò ad alzarsi, ma una fitta di dolore proveniente dalla coscia sinistra gli mozzò il fiato e lo fece ritrovare di nuovo seduto a terra.

    Si ispezionò la zona in cui aveva provato dolore e notò un lungo taglio orizzontale: era largo un palmo, ma non sembrava troppo profondo. Si strappò un pezzo della tunica e lo avvolse intorno al taglio, facendo bene attenzione a stringere sopra e sotto la ferita, lasciando la fasciatura più morbida al centro.

    Evitò di pensare a come facesse a sapere anche questo e, con molta calma, provò ad alzarsi di nuovo.

    Il secondo tentativo andò a segno e si ritrovò in piedi, pronto a partire. Iniziò a camminare, cercando di non badare al dolore che gli arrivava dalla coscia. Rimase sorpreso di come riuscisse a concentrarsi sulla strada da compiere senza lasciarsi condizionare dai lamenti della ferita, alla quale si aggiunsero preso la fame e la sete.

    Quando il sole stava ormai per tramontare e il ragazzo iniziava a perdere le speranze, comparve in lontananza un’oasi: era piccola e circondata da una sottile ma fitta rete di palme.

    Avanzò con calma e in maniera circospetta finché, quando si trovò ad una decina di metri, si stese a terra per cercare di non essere visto da chiunque potesse trovarsi lì dentro. Procedette strisciando fino alle prime palme, quindi si nascose dietro una di esse. Da lì, facendo capolino da dietro il tronco ispezionò la zona cercando di cogliere ogni minimo dettaglio.

    L’oasi era larga una ventina di metri ed aveva l’aria di essere tutt’altro che naturale: il laghetto, che si trovava esattamente al centro di essa ed aveva un diametro di circa dieci metri, era perfettamente circolare e le palme che lo racchiudevano erano tutte alte poco più di un uomo adulto ed equidistanti l’una dall’altra. Non vedeva traccia di uomini o animali, così il ragazzo senza nome si avvicinò all’acqua, abbassando le difese.

    Si specchiò nel lago e ciò che vi vide riflesso poteva essere il viso di un ragazzo qualunque. Era un volto normale: né troppo allungato, né troppo schiacciato, le guance erano tonde e ricoperte da un sottile e accennato strato di barba troppo corta per essere definita tale. Le labbra sottili e screpolate gli ricordavano il suo bisogno di bere, mentre il naso era corto e schiacciato. Si guardò i capelli: erano lunghi diversi centimetri e di un biondo scuro che la luce del tramonto trasformava in castano; nonostante fossero abbastanza corti erano completamente fuori posto e sembrava che ognuno di essi volesse andare per la sua strada. Gli occhi erano di un marrone acceso, che nemmeno i due grossi cerchi che vi si erano disegnati intorno erano riusciti a spegnere. Guardandosi bene si disse che non era poi così male sotto quell’aspetto trasandato.

    Rimase ancora qualche secondo ad osservare quel volto, il suo volto, poi la sete fu più forte. Con le mani prese l’acqua dal lago e la portò alla gola per dissetarsi, bevendo a grandi sorsi e godendo della piacevole sensazione di fresco che piano piano gli invadeva la gola.

    Ne approfittò anche per controllarsi la ferita: alcuni punti stavano sanguinando, ma non sembrava aver fatto infezione, né aver perso troppo sangue. Decise comunque di lavarla e per sicurezza di dare una pulita anche alla benda.

    Sistemata la gamba si stese comodamente sotto una palma e, nel giro di pochi secondi, la stanchezza ebbe la meglio sulle domande che lo attanagliavano. Sentì di nuovo quel nome: Duveth; poi sprofondò in un sonno profondo e senza sogni.

    Capitolo 2. Imboscata

    Freddo. La sensazione del freddo di una lama lo svegliò immediatamente; si maledisse mentalmente per non aver pensato ad alcuna precauzione prima di addormentarsi.

    «Ehi tu! Sveglia!». La voce roca e rude di uno sconosciuto lo costrinse ad aprire gli occhi. Intorno poteva sentire il rumore di passi e di voci, segno che l’uomo che gli stava puntando la spada alla gola non era solo. Guardò in faccia il suo aggressore: aveva il viso largo e grasso, coperto da un elmo ammaccato in diversi punti. La barba scura e poco curata richiamava il nero degli occhi, nei quali il ragazzo senza nome lesse puro disprezzo.

    «Chi sei? E cosa ci fai qui?» chiese l’uomo che doveva avere all’incirca una quarantina d’anni.

    «Bella domanda! Te lo direi se lo sapessi». Sorrise pensando all’assurdità della situazione. Certamente avrebbe voluto collaborare per fargli almeno abbassare la lama e provare poi con calma a trovare una via di fuga, ma non aveva nessuna informazione utile che lo aiutasse in quel momento.

    «Non fare il furbo con me! Dimmi chi sei!». L’uomo non sembrava essere molto convinto. D’altronde, pensò il ragazzo, chi si sarebbe lasciato persuadere da una risposta come la sua?

    «Te l’ho detto! Non lo so nemmeno io; mi sono ritrovato in mezzo al deserto e non ricordo nulla di ciò che mi è successo prima». Sperava di convincere il soldato a smettere di fare quella domanda che si era già posto mille volte senza trovarvi risposta.

    «Cosa succede qui?». Un altro uomo si era avvicinato ai due. Dallo stato dell’armatura, lucidata e senza ammaccature, e dal pennacchio rosso che svettava in cima al suo elmo, il ragazzo senza nome capì che quello che aveva di fronte doveva essere il capitano della squadra in cui si era imbattuto, o per lo meno qualcuno che poteva dare ordini a quel soldato intenzionato a tagliargli la gola.

    «Capitano Olat! Abbiamo trovato questo qui che si faceva un bel sonnellino! Si rifiuta di dirmi chi è e per quale motivo si trova qui. Non credo sia per una passeggiata di piacere per cui non mi resta che credere che sia una spia di Vard» disse il soldato con una punta di stizza per giustificare il suo operato.

    «Non sta a te decidere chi è quest’uomo e quali siano i suoi scopi. Lo porteremo con noi e toccherà al generale Kravor stabilire la sua sorte. Per ora assicurati che non scappi e che non muoia». Il ragazzo senza nome fu grato al capitano Olat, che gli aveva appena salvato la vita, o rinviato la morte; tuttavia, se fosse stato attento, ora avrebbe potuto provare a scappare e avrebbe avuto tempo per escogitare un piano.

    Guardò meglio quell’uomo: era alto e snello, la sua armatura era costituita da una corazza semplice e poco elaborata, ma chiaramente di buona qualità e molto resistente, dagli schinieri della stessa fattura della corazza e da due bracciali di cuoio. Alla cintola portava una spada inserita in un fodero in pelle scura molto semplice; l’elsa dell’arma invece era più elaborata: l’impugnatura era ricoperta di un tessuto nero e, all’altezza del pomolo, si divideva in una specie di quattro tentacoli che si avvinghiavano attorno ad un rubino rosso; la guardia crociata era finemente decorata con piccoli intarsi rossi, che risaltavano sul grigio lucido dell’acciaio. L’elmo, anch’esso poco elaborato, era dotato di un lungo nasale.

    Ma ciò che colpì subito il ragazzo senza nome furono i suoi occhi: erano verdi smeraldo e sembravano brillare di luce propria. Invece non riusciva a vederne i capelli, ma intuiva che fossero neri come le sopracciglia. Gli zigomi erano alti e ben marcati e davano un senso di forza e, nonostante la barba rasata di recente e il resto dei lineamenti restituissero un’aria d’eleganza, quell’uomo aveva tutta l’aria di essere un guerriero micidiale.

    Il capitano Olat se ne andò a parlare con un gruppetto di soldati da un’altra parte. Intanto l’uomo che l’aveva trovato, con l’aiuto di un paio di compagni, gli legò le mani dietro la schiena e, strattonandolo, lo portò fuori dall’oasi, dove erano radunati una cinquantina di cavalli.

    Dopo aver assicurato l’altro capo della corda alla sella di uno di questi, gli disse: «Sei stato fortunato che il capitano Olat abbia deciso di risparmiarti. Fosse stato per me ti avrei già tagliato la gola, ma che ci vuoi fare? Ora stai fermo qui e aspetta».

    Il soldato fece spallucce e si sedette lì vicino.

    Il ragazzo senza nome iniziò a guardarsi intorno: c’erano circa una trentina di guerrieri, tutti dotati di cavallo; dal punto in cui si trovava era praticamente impossibile scappare: l’animale a cui era legato era tenuto assieme ad altri quattro da un soldato, mentre l’uomo che l’aveva catturato lo fissava ininterrottamente e sembrava essere più che vigile; come se non bastasse, c’era un viavai continuo di cavalieri che si stavano occupando di rifornirsi di acqua.

    Da quello che capì dai discorsi sentiti a metà dei passanti, intuì che si trovavano lì per vedere se c’era traccia dell’esercito nemico: l’esercito di Vard, che sembrava essere a capo di quello che chiamavano Impero Varda. L’atmosfera non era delle migliori; gli uomini sembravano alquanto tesi e nervosi e questo li faceva scattare con poco: quando ad un ragazzino cadde la borraccia e rovesciò buona parte dell’acqua che aveva preso sui piedi di un soldato grande e grosso, dovette intervenire il capitano Olat per bloccare sul nascere un linciaggio. A differenza dei suoi uomini, questo non dava segni di nervosismo: si faceva rispettare senza fatica, era sempre lucido e sapeva cosa fare, non mostrava tentennamenti e impartiva ordini a destra e sinistra per non dare modo ai soldati di fermarsi a pensare su cosa non andasse. Nonostante fosse più giovane di molti di loro, riusciva ad essere il leader di quel gruppo grazie a quelle qualità che chiunque, anche osservando distrattamente, avrebbe notato.

    In breve furono sistemati gli scudi e le selle danneggiate e furono riempite le borracce; allora Olat ordinò a quello che ormai era il custode del prigioniero di sistemare quest’ultimo su un cavallo che non doveva trasportare nessuno e di legare la bestia alla sua. Il soldato fece come gli era stato ordinato, slegando l’altro capo della corda a cui era assicurato il prigioniero, ma assicurandosi che fosse ben stretta suoi polsi ed evitando così ogni tentativo di fuga: se avesse provato a scappare a piedi sarebbe stato facilmente raggiungibile persino dal più lento degli animali lì presenti.

    In breve tempo gli uomini formarono una colonna composta da tre file di cavalieri: il capitano Olat stava in testa e guidava i suoi, il ragazzo senza nome si ritrovò al centro del gruppo assieme ai viveri, che erano sistemati su alcuni cavalli senza cavaliere; ancora una volta la fuga era improponibile, circondato com’era.

    Decise che, dal momento che non poteva scappare, non era una pessima idea raccogliere qualche informazione, perciò chiese al suo carceriere: «Chi è Vard?».

    L’uomo sembrò sorpreso, come se gli avessero chiesto cos’era l’aria, poi cambiò espressione e con il sorriso di chi si crede molto furbo rispose: «Mi prendi in giro? Tutti su questa terra sanno chi è! Se credi che sarai liberato facendo finta di non conoscere il re che servi, caschi male».

    L’uomo si voltò ponendo fine alla discussione e non lasciando il tempo al suo prigioniero per rispondere; poi però sembrò ripensarci e si girò di nuovo verso di lui.

    «Ma visto che sono le prime parole che sei riuscito a dire da quando ti abbiamo preso, ti risponderò a modo mio. Vard è un bastardo che sta rovinando le vite di tutti grazie all’aiuto di gente come te; per cui, quando il boia ti taglierà la testa, perché so che succederà così, spero tanto di essere lì per...».

    Le parole dell’uomo furono interrotte da una freccia che gli trapassò da parte a parte il collo; nello stesso istante il cielo si fece scuro e un nugolo di dardi precipitò sul resto dei soldati, uccidendone un paio e ferendone altrettanti; a questo punto il capitano Olat intervenne in maniera impeccabile.

    Prima che arrivasse un’altra scarica i suoi uomini avevano già formato una specie di testuggine a cavallo ed erano pronti ad incassare il colpo. Il secondo nugolo lasciò solo qualche ferita e diede modo ai cavalieri di partire alla carica del nemico, puntando verso la direzione da cui erano arrivate le frecce.

    Allo stesso tempo sbucarono circa un centinaio di uomini a piedi che caricarono i cavalieri: le loro vesti erano logore e le armature ammaccate in diversi punti; anche le armi non sembravano in buona condizione. Dalla loro avevano il numero, ma gli uomini di Olat erano equipaggiati in maniera migliore e, grazie alla pausa fatta di recente, erano avvantaggiati anche dal punto di vista fisico. Se Vard aveva un esercito così, allora non doveva essere poitanto forte come sembrava.

    Il ragazzo senza nome pensò che quello era il momento buono per scappare: col caos della battaglia nessuno avrebbe fatto caso ad un prigioniero in fuga, soprattutto ora che il suo carceriere era morto. Scese da cavallo e provò a fuggire via, ma prima che riuscisse ad uscire dalla mischia nella quale era finito, un paio di assalitori gli si pararono davanti.

    «E tu dove vai?» lo schernì uno dei due.

    Il ragazzo si affidò di nuovo all’istinto. Guardò l’equipaggiamento degli assalitori e subito gli fu chiaro come muoversi: uno dei due aveva il braccio destro fasciato e da come teneva la spada sembrava che la ferita gli desse fastidio. Fece finta di scappare nella direzione opposta e, quando sentì scattare anche gli altri due, si fermò di colpo, si abbassò per evitare i due fendenti che arrivarono puntuali sopra la sua testa e sferrò un potente calcio sulla fasciatura dell’uomo ferito.

    Il colpo andò a segno e il suo aggressore, imprecando, perse la spada; approfittò del momento di sorpresa dei due per sferrare un altro calcio che andò dritto sul mento scoperto dell’uomo armato; il colpo gli fece un po’ male, ma sentì sotto il suo piede la mascella scricchiolare e qualche dente rompersi.

    Mentre guardava l’uomo cadere a terra buttando la testa all’indietro, si stupì delle sue conoscenze; forse la mente aveva dimenticato, ma il corpo ricordava ancora tutto.

    Si rese conto che quella breve digressione rischiava di dare tempo all’ultimo uomo rimasto tra lui e la fuga per attaccarlo, ma quando si girò verso di lui gli trovò in faccia un’espressione di completo terrore.

    «No-non può essere… Vi-vi abbiamo u-uccisi tutti… Tu-tu dovresti essere…».

    Morto. Non finì la frase perché una spada gli tranciò di netto la testa; il ragazzo senza nome riconobbe quella spada: Olat era sceso da cavallo e gli stava parlando, ma non capiva cosa stesse dicendo. La sua mente era altrove: che stava dicendo quell’uomo? Perché doveva essere morto? Perché aveva parlato al plurale? Aveva degli amici? Dei compagni? Una famiglia? Qualunque fosse stata la risposta sapeva che ora non esisteva più: se ne erano andati e lui nemmeno ricordava chi fossero.

    Fu il capitano a dargli uno spintone che lo scosse dal vortice dei suoi pensieri.

    «Ti tenevo d’occhio ragazzo. Pensavi ti lasciassi scappare? Comunque ho visto cos’hai fatto e, beh, non nascondo che mi hai messo un po’ di curiosità. Chi sei in realtà?».

    Prima che potesse rispondere, il ragazzo vide un soldato lanciare verso di loro una lunga asta; di colpo prese Olat per i fianchi e si buttò a terra sentendo la punta dell’asta sfiorargli la spalla. Solo quando caddero sulla sabbia e rotolò di fianco, Olat si accorse di ciò che era successo; per la prima volta da quando si erano incontrati, il capitano abbandonò per un istante la sua espressione impeccabile.

    Il ragazzo senza nome lo guardò e gli sfuggì un sorriso che si trasformò in una smorfia di dolore. Cadendo era finito sopra una spada e ora aveva un taglio bello profondo sul costato; il sangue usciva copioso e la vista si stava offuscando. Ebbe paura e si girò verso Olat. Prima di svenire, sentì la voce del capitano come se arrivasse da molto lontano dire: «Grazie».

    Duveth. Dentro di sé sentì di nuovo quella parola che gli infondeva coraggio e gli faceva disegnare un sorriso beato sul volto, poi fu di nuovo buio.

    Capitolo 3. Un nuovo risveglio

    Si risvegliò che era in un letto, coperto da un sottile lenzuolo. Lo sollevò piano e si guardò il fianco in cui era stato colpito: una larga fasciatura copriva il taglio. Forse il suo destino era quello di svegliarsi ferito in un luogo sconosciuto; questa volta però sapeva qualcosa di se stesso e di cos’era successo fino a... Si bloccò. Ignorava quanto tempo fosse passato da quando aveva salvato la vita al capitano Olat, ma di certo abbastanza da permettere a qualcuno di vincere la battaglia, prenderlo e portarlo lì dov’era per curarlo.

    Si guardò intorno: la stanza era semplice e spoglia; le pareti erano in legno e non c’era pavimento, solo terra battuta. Con ogni probabilità erano usciti dal deserto. In un angolo vide una piccola cassapanca in vimini con delle bende pulite appoggiate sopra e una ciotola contenente una poltiglia verde che doveva essere qualche medicina per le sue ferite. Oltre ad una porta chiusa, c’era una sola finestra, alla quale era stata fissata una grata, che non gli avrebbe mai permesso di uscire, ma che, allo stesso tempo, lasciava che i raggi del sole illuminassero la stanza.

    Fuori qualcuno stava parlando; il ragazzo si concentrò per cercare di capire.

    «Capitano, mi faccia passare!».

    «Il ragazzo dorme da giorni; che vuole che le dica?». Era la voce di Olat. Questo significava che era stato lui a portarlo fin lì; la cosa lo rincuorò un po’: aveva un debito col capitano e preferiva essere in mano sua piuttosto che con i soldati che avevano ucciso quelli come lui, anche se non sapeva chi fossero.

    Fu Olat a riprendere la parola.

    «La prego, vorrei parlarci prima da solo. Poi le giuro che potrà fargli tutte le domande che vuole, ma quel ragazzo lì dentro ha battuto un soldato di Vard ed aveva le mani legate. E poi… mi ha salvato la vita. Devo capire delle cose».

    Disse l’ultima parte abbassando un po’ il tono di voce, come se si vergognasse di ciò che aveva appena detto.

    «D’accordo Olat. Solo perché sei uno dei migliori uomini che ho a disposizione farò un’eccezione, ma aspetto ancora il rapporto completo della missione da cui sei appena ritornato. Vedi di farmelo avere entro breve».

    «Sissignore!».

    Poco dopo la porta si aprì e ne emerse la figura del capitano; questa volta era senza armatura, ma portava quella che probabilmente era la sua tenuta da allenamento: pantaloni in pelle ed una cotta di maglia rovinata più dal tempo che dai colpi subiti. Era impeccabile: barba e capellierano ben curati, ma si vedeva che c’era qualcosa che lo turbava.

    «Dormito bene?».

    Olat si era accorto subito che il ragazzo era sveglio e lo osservava.

    «Sì, grazie; forse un po’ troppo».

    «Diciamo che quella ti ha dato abbastanza da fare, ma sembra proprio che il tuo corpo sia di roccia» disse indicando la fasciatura. «Zaana diceva che ti saresti ripreso tra un paio di giorni; e invece…».

    Il ragazzo si tirò su con molta calma e appoggiò la schiena al muro, avendo cura di mettere dietro di sé il cuscino.

    «Dove sono?».

    «Sei nell’accampamento del generale Kravor, a due giorni da Jis». Quei nomi non gli dicevano nulla.

    Olat, dato il silenzio del suo interlocutore, parlò di nuovo.

    «Ti volevo di nuovo ringraziare per avermi salvato la vita, ma devo sapere chi sei e cosa ci facevi in mezzo al niente».

    Il ragazzo era indeciso se parlare o meno. Poi si disse che, in fondo, non c’era nulla da perdere.

    «A dir la verità, non so chi io sia. Mi sono risvegliato in mezzo al deserto e non ricordo nulla prima di quel momento se non una parola della quale non conosco il significato».

    Olat non si scompose, ma era chiaro che era deluso.

    «Che parola?» chiese.

    «Duveth».

    Olat sgranò gli occhi, poi rimase a fissarlo sorridendo; sembrava quasi divertito.

    «Sai? O sei la spia più originale al mondo oppure tutto ciò che mi hai detto è vero».

    «Sai che significa quindi?».

    «Duveth? È un nome, niente di che. Molti uomini credono che Duveth sia il creatore di questo mondo e che lo governi donandoci la pace o la guerra, in base al nostro essere buoni o cattivi».

    L’unica parola che ricordava era il nome di un dio allora! E lui ci credeva? Non sapeva darsi risposta, ma sapeva che quando sentiva quella parola si sentiva un po’ meno solo e insicuro. Guardò Olat.

    «E tu ci credi, capitano?».

    «Io credo negli uomini. Gli dei li lascio agli altri. E tu? Dal tatuaggio che hai alla caviglia sembrerebbe di sì».

    Il ragazzo rimase di stucco. Olat proseguì: «L’ho notato quando ti ho portato qui, insieme al taglio sulla gamba, ma quello sembra ormai a posto».

    «E cosa significa questo tatuaggio?».

    «È un simbolo che viene usato per indicare Duveth. Se vuoi fare più chiarezza dovresti andare a chiederlo ai monaci che si trovano a Rinna, ma dovrai convincere il generale Kravor della tua innocenza, come hai fatto con me».

    Il ragazzo si prese un po’ di tempo per riflettere. Perché l’unica parola che ricordava era il nome di un dio? L’unica soluzione era andare a Rinna e provare a raccogliere qualche informazione in più, ma non aveva la minima idea di dove fosse quella città.

    «Dove si trova Rinna?» chiese a Olat.

    «A est, a due settimane di viaggio da Jis». Chissà come avrebbe fatto a raggiungerla. E chissà come avrebbe convinto il generale Kravor a lasciarlo andare.

    Il silenzio scese tra lui e Olat, poi ricordò della battaglia e si diede dello stupido per non aver chiesto prima cosa fosse successo agli uomini del capitano, che invece si era mostrato molto disponibile nei suoi confronti.

    «Cos’è successo dopo che sono svenuto?».

    Negli occhi di Olat vide un moto di tristezza che scomparve in un lampo quando iniziò a parlare.

    «Ci siamo battuti, anche se eravamo in minoranza. Abbiamo sconfitto quel drappello di uomini, ma dei quaranta cavalieri che eravamo siamo rimasti in dodici. Tredici se contiamo anche te. Molti erano feriti e due ci hanno lasciato prima di arrivare qui, anche se abbiamo cavalcato senza sosta per due giorni interi, fermandoci solo per cambiarvi le bende e controllare le vostre ferite. Quando siamo giunti qui Zaana, la curatrice del campo si è occupata di voi. Questo è successo tre giorni fa. Il resto del tempo l’ho passato con i miei compagni feriti e a stendere un rapporto in cui non so cosa scrivere».

    Olat sembrava profondamente triste per gli uomini che erano caduti ed anche senza nessuno con cui sfogarsi. Il ragazzo provò a dire qualcosa di consolatorio.

    «Hai fatto il possibile, no? Nonostante l’imboscata hai serrato subito i ranghi e sei riuscito a riportare a casa più uomini possibile».

    Olat non sembrò molto convinto, ma sorrise, poi si congedò dicendo che la sera sarebbe tornato con il generale.

    «Manderò qualcuno a darti qualcosa da mangiare. Avrai fame».

    Quando la porta si chiuse, il ragazzo ringraziò mentalmente il capitano per quello che stava facendo.

    Dopo poco tempo arrivò un giovane a dargli un piatto con del pane e formaggio ed una brocca d’acqua. Era lo stesso che qualche giorno prima si era lasciato sfuggire la borraccia sui piedi del compagno. Senza parlare aspettò in disparte che l’altro finisse di mangiare, poi con un sorriso prese il piatto vuoto e la brocca e se ne andò.

    Il ragazzo senza nome passò il resto della giornata guardando gli alberi fuori della finestra e godendosi un po’ di riposo; tuttavia non riusciva a non pensare all’incontro col generale che avrebbe avuto di lì a poco. Cosa gli avrebbe detto e come l’avrebbe convinto senza alcun argomento a suo favore?

    Quando ormai il cielo iniziava ad imbrunire sentì bussare alla porta. Senza aspettare risposta questa si aprì ed entrò Olat accompagnato da due uomini.

    Non aveva dubbi su chi dei due fosse il generale: era un po’ più basso rispetto ad Olat, ma aveva un fisico molto più robusto. I lineamenti del viso erano marcati e tutto in lui parlava di guerra e comando; aveva i capelli rasati e gli occhi color nocciola. Si era lasciato crescere i baffi fino al mento, totalmente bruni tranne qualche accenno di bianco qua e là. Indossava una tunica rossa senza maniche, con i bordi neri, al centro della quale era stata ricamata la sagoma nera di un falco. Sotto questa portava un paio di pantaloni in stoffa neri, mentre le braccia scoperte erano muscolose e segnate da diverse cicatrici. Doveva avere quasi cinquant’anni, ma il corpo sembrava non aver sentito il passare del tempo.

    L’altro uomo con lui era il suo opposto: la sua tunica bianca, dotata di lunghe maniche, era ricoperta di arabeschi in oro. Il corpo era magro e il volto scarno; il naso adunco e gli occhi neri, coperti da un paio d’occhiali, gli davano l’aspetto di un corvo con i capelli completamente bianchi pettinati all’indietro. Doveva avere qualche anno in più rispetto al generale, ma portato in maniera peggiore; probabilmente non era un soldato, ma un funzionario di chissà quale stato, a giudicare dalle pergamene e dal calamaio che portava con sé.

    Il generale Kravor presentò se stesso e il suo accompagnatore, un certo Clevesto, un consigliere che, tra gli altri, aveva il compito di registrare missioni, catture, interrogatori e tutti gli altri avvenimenti importanti.

    Fu Kravor a parlare per primo.

    «Allora, il capitano Olat mi ha detto che non ricordi nulla».

    «Esatto».

    «E com’è possibile? Chi ci assicura che tu non menta?».

    «Nessuno».

    Il generale proseguì così per diverso tempo senza ricavare nulla di ciò che sperava; il ragazzo senza nome rispondeva ad ogni domanda con il minimo indispensabile; quell’uomo era troppo rude e si sentiva sminuito nei suoi confronti. Gli avrebbe volentieri urlato in faccia che non sapeva nulla e che era stanco di perdere tempo, ma continuava a ripetersi che la sua sorte sarebbe stata decisa da quell’uomo.

    Ad un certo puntò Kravor cambiò domanda.

    «Perché hai salvato Olat? Lui ti aveva fatto prigioniero e se fosse morto saresti potuto scappare senza problemi».

    Il ragazzo senza nome decise di dire al generale le stesse cose che si era detto mille e più volte.

    «Non lo so. Ho agito d’istinto e l’istinto mi ha detto che il capitano Olat non meritava di morire in quel modo. Ho fatto ciò che sentivo».

    Il generale si prese una pausa, si appoggiò al bordo della finestra e guardò il sole che stava tramontando massaggiandosi il mento con la mano. L’attesa durò poco, ma per il ragazzo senza nome fu un’eternità; alla fine Kravor si tirò su e avvicinandosi alla porta parlò a Olat.

    «Come tu hai consigliato, il ragazzo andrà al monastero di Rinna. Tuttavia, dato che è importante essere prudenti, è bene che vada accompagnato da qualcuno; per cui appena sarà in grado di cavalcare, tu, Olat, lo accompagnerai a Jis e lo affiderai al capitano Loni che

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