Volevo un marito nero
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Book preview
Volevo un marito nero - Valentina Gerini
Valentina Gerini
Volevo un marito nero
VOLEVO UN MARITO NERO
Collana Gli scrittori della porta accanto
Copyright © 2017 Valentina Gerini
Copertina: immagine ed elaborazione grafica Stefania Bergo
Impaginazione: Valentina Gerini
Prima edizione 2013
Seconda edizione gennaio 2017
A mia figlia Amy
Trattiamo bene la terra su cui viviamo: essa non ci è stata donata dai nostri padri, ma ci è stata prestata dai nostri figli.
antico detto Masai
UUID: 7d9829d9-adc6-40d9-b963-ecb4125ddcaa
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write
http://write.streetlib.com
Indice dei contenuti
Premessa
Africa
Italia
Repubblica Dominicana
Matrimonio
La nuova vita
Appendice
Masai, un abbraccio che arriva dritto al cuore
La ricompensa è il viaggio: I miei Masai
Chi è Valentina Gerini
Gli Scrittori della Porta Accanto
Collana editoriale
Ringraziamenti
Premessa
Ho lavorato come assistente turistica dal 2008 al 2011 e ho avuto la fortuna di visitare tanti luoghi meravigliosi. La prima esperienza in Grecia mi ha formata molto, donandomi la capacità di essere paziente e di risolvere problemi in breve tempo. La successiva esperienza a Zanzibar mi ha letteralmente cambiato la vita, aprendo la mia mente e il mio cuore a tutto ciò che è diverso. Una vita senza aver visto l’Africa, oggi, per me è impensabile. Poi sono stata spedita
a Santo Domingo dove ho trovato l’amore. Che dire… Il destino ha scritto per me un libro meraviglioso.
Quando dico che questo romanzo è in parte autobiografico lo faccio perché le esperienze raccontate sono reali ma, ovviamente, romanzate. Il finale poi non rispecchia con precisione ciò che sono adesso. Oggi sono madre ma non di due gemelli, bensì di una sola bambina che è frutto di tutto ciò che ho vissuto. Se non fossi partita come assistente turistica non avrei viaggiato così tanto, non avrei conosciuto mio marito e non sarebbe nata mia figlia. A questo lavoro devo tutto.
Africa
Africa. Questo è il centro del mondo!
pensai non appena i miei piedi ebbero toccato il suolo dell’aeroporto di Zanzibar. Un caldo soffocante rendeva affannoso il mio respiro, una forte umidità non lasciava scampo al sudore. Dalla pista vedevo palme altissime, una vegetazione rigogliosa di un verde smeraldo intenso faceva capolino dietro al piccolo edificio adibito ad aeroporto. Il cielo azzurro lasciava spazio a un sole già alto, caldo e splendente, ed erano solo le 07:00 del mattino del primo Dicembre. Fummo indirizzati all’interno dell’aeroporto per compilare i visti e pagare la tassa d’entrata. Un aereo completo di almeno 200 passeggeri era stipato in una piccola stanza, intasando il passaggio tra la sala visti e il ritiro bagagli. Si iniziava letteralmente a morire di caldo! Compilato il mio visto, pagai la tassa e mi recai a ritirare il bagaglio. L’aria condizionata era diventata ormai una necessità per la sopravvivenza, ma sembrava proprio che non ce ne fosse traccia. Alla ricerca del nastro trasportatore m’imbattei in un semplice bancone di legno, dietro il quale gli addetti ai bagagli sventolavano in aria valigie e borse come in un mercato, cercandone il proprietario. Scorsi le mie due piccole valigie rosse e, previo pagamento di una mancia qua‐ si obbligatoria, riuscii a farmele consegnare. Diretta verso l’uscita fui fermata da due agenti della polizia doganale che, impalati di fronte a me, decisero che sarei potuta passare solo se avessi aperto la valigia per un controllo; era chiusa con un lucchetto, e io non avevo assolutamente idea di dove fosse finita la chiave! Supplicandoli di lasciarmi passare non ottenni alcun risultato, quindi offrii loro la banconota di taglio più piccolo che avevo a portata di mano, 20 dollari, e si aprirono come un sipario lasciandomi passare come una regina. Uscii finalmente da quell’incubo e fui catapultata in un ammasso di gente, per lo più uomini, ragazzini e anziani, che si offrivano di farti da facchini in cambio di due spiccioli. Scorsi il mio operatore turistico e mi avvicinai al banco per informare del mio arrivo. Ero stata mandata in Tanzania per la stagione invernale, come assistente turistica quale ero, dopo aver trascorso l’estate precedente in Grecia. Quella che si rivelò essere la mia responsabile, Sarah, dopo avermi gentilmente accolta, mi disse di lasciare i bagagli a un ragazzo locale attaccandoci sopra un’etichetta per riconoscerli, e di dirigermi al bus numero dieci. Mi separai dal mio bagaglio non molto convinta, guardandolo mentre veniva messo, o meglio lanciato, su di un carretto, e salii sul bus dieci. Anche qua l’aria condizionata non c’era, i sedili erano di dimensioni gnomiche e l’autista sembrava uscito da un cartone animato. Quando il bus fu pieno di quelli che, nei successivi giorni, sarebbero stati i gentili ospiti di cui mi sarei dovuta occupare al villaggio, partimmo in direzione Nungwi, a nord dell’isola.
Le strade erano malmesse e gli ammortizzatori del bus non erano certo in migliori condizioni, quindi il viaggio sembrò più un viaggio in nave che in autobus. Durante il tragitto avrei dovuto ascoltare il piccolo briefing fatto dall’assistente che avrei sostituito, ricco d’informazioni e nozioni utili sul posto, ma fui rapita dalle immagini che si sovrapponevano fuori dal finestrino. La vegetazione, le case, le capanne, le persone, le mucche. Donne con turbante portavano in testa grandi cesti colmi di ogni bene, bambini con uniformi andavano e uscivano da scuola, carretti erano trainati da mucche con la gobba, palme altissime riempivano i giardini e i boschi ai lati delle strade, banchetti di panini e carni alla brace contornavano le strade, si udivano grida e urla da mercato provenire da ogni lato, potevo sentire i rumori e gli odori di quella di cui sempre avevo sentito parlare, ma mai avrei pensato di vedere: l’Africa. Qua gli odori erano più odori, i colori erano più colori, i rumori erano più rumori. In una specie di trance arrivai al villaggio e appena scesa dal bus m’incantai a osservare la danza di benvenuto che i Masai dell’hotel facevano in onore dei nuovi clienti arrivati, un benvenuto ricco di salti, strilli e canti. Delle figure nere, longilinee e forti erano avvolte in drappi colorati, prevalentemente sul rosso, bracciali di ogni genere, perline e orecchini, mazze e pugnali. I Masai, ne avevo sentito parlare forse una volta fino a quel momento. Bellissimi nel loro essere sé stessi, erano persone meravigliose, glielo si leggeva negli occhi.
Dopo aver atteso che i clienti facessero il check‐in in hotel fui accompagnata nella mia stanza, all’interno della staff house, dove avrei dormito per cinque lunghi mesi...IN AFRICA! Continuavo a ripetermi emozionata che sarei rimasta in Africa per cinque mesi. Eccitata, continuavo a pensare che sarei stata in Africa fino ad aprile.
Africa....
Nemmeno il tempo di farmi una doccia e incontrare il primo scarafaggio gigante di quest'avventura, tranquillamente appollaiato sulla maniglia dell'acqua della doccia, che fui subito chiamata a rapporto dalla responsabile. Dovevo osservare cosa avrei dovuto fare una volta arrivata nel villaggio con gli ospiti: accoglienza, passaggio in spiaggia per verificare la soddisfazione dei clienti, entrata al ristorante con saluto, vendita escursioni. Non ero stanca, il fuso orario non era massacrante, soltanto due ore in più di differenza rispetto all'Italia, ma il caldo mi stava indebolendo. Mi sentivo letteralmente intontita, il sole sembrava picchiare sulla mia testa con un martello, l'aria era così calda e densa che sembrava uscire da un asciugacapelli a tutta potenza. Andai in spiaggia dove si trovavano il nostro ufficio operativo, il teatro e il ristorante. Praticamente il centro vitale dell'hotel si sviluppava in spiaggia. Misi un piede sulla sabbia bianchissima e rimasi sorpresa nel sentire che non bruciava, era semplicemente tiepida. Ovunque io fossi stata prima di allora la sabbia scottava a causa del calore del sole, ma questa no. La responsabile mi spiegò che era sabbia di origine corallina e che per questo motivo non bruciava. Vera o no questa spiegazione, la sabbia non bruciava affatto.
I miei primi giorni trascorsero bene, ero immersa nel lavoro ed ebbi poco tempo per dedicarmi alla scoperta del nuovo territorio fino al sabato sera, quando era prevista una festa dedicata alla luna piena nel bar in spiaggia vicino al nostro villaggio, unico bar nel giro di 3 km. Il Full Moon Party
è una festa organizzata ogni mese ed è molto famosa in tutta Zanzibar, le persone vengono a ballare e ascoltare musica da ogni parte dell’isola. Il caldo era molto forte anche se erano le dieci di sera, l’unica differenza tra il giorno e la notte era solamente la presenza del sole o della luna nel cielo, perché i gradi e l’umidità non variavano per niente. Io e le mie colleghe di lavoro ci vestimmo con abiti leggeri, una gonna di jeans e una canottiera, e senza scarpe né ciabatte ci incamminammo a piedi nudi verso il bar, camminando sulla battigia. Arrivate vedemmo che era stata creata un’entrata con delle reti che circondavano, come un campo da tennis, la spiaggia vicino al bar. Pagammo l’entrata 10,000 scellini, l’equivalente di 5 euro, importo che includeva anche due bevute. Alla festa c’erano molte persone: turisti, tantissimi locali, ragazzini mal vestiti, donne, ragazze truccate a punto per l’occasione e i Masai. Tanti Masai che ballavano con i loro movimenti tipici adattati alla musica moderna. Le casse diffondevano musica reggae a tutto volume, qualche canzone locale e un po’ di hip‐hop. Ballavano tutti e ballammo anche noi, in cerchio, circondate dai Masai e da qualche beach boys, ragazzi del posto che si guadagnano da vivere vendendo escursioni pirata in spiaggia, per questo si definiscono loro stessi beach boys
. Ballammo a piedi nudi, sulla sabbia, con il mare come sfondo