Fosca e il petalo di rose
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Book preview
Fosca e il petalo di rose - Isabella De Miro
Indice
Quarta
Copyright
Prefazione
Fosca e il petalo di rosa
La luce in fondo al tunnel
PREFAZIONE
Esprimo il mio libero pensiero, come farfalla che libra, spaziando nell’aere amica, dentro una storia vera, vissuta in controtendenza rispetto alla realtà di oggi e anche di ieri, che fa apparire come ovvietà tutto ciò che una morale ostinata come la mia, faticosamente fa collimare con la normalità.
Una cara cugina, citata in questa storia, mi diceva anni fa che ero come una mosca bianca
in un contesto storico in cui la società dettava le leggi del consumismo sfrenato, del liberismo a tutti i costi, dell’appagamento personale sia economico che di vanità dell’ego.
Il progresso ci ha portato grandi conquiste in termini di scoperte scientifiche e tecnologiche che hanno migliorato la vita delle persone. Ma è la vita interiore che non è migliorata, perché l’uomo si arroga il diritto, dato dalla sua presunzione, di essere lui stesso dio, rinnegando l’esistenza di un Dio vero.
Questa storia è dedicata a tutte le persone che mi amano, che mi hanno amato, aiutato, sostenuto e plasmato alla vita in passato; alla mia famiglia, a tutti coloro che ho amato: a tutti dico grazie di esistere, di avermi regalato tante emozioni, di aver dipinto la mia vita con innumerevoli tonalità di colore e soprattutto a te, Roby, grazie di avermi fatto conoscere l’amore, paziente, rispettoso, dolce e tenero, così come sei tu.
Fosca e il petalo di rosa
Camminavo assieme a mio marito e ai miei tre figli che erano accorsi alla mia (o forse la tua) chiamata e stavamo uscendo dall’ospedale con tanta tristezza nel cuore, dopo aver detto addio, a te mamma, che ci avevi lasciato per sempre dopo una lunga e sofferta malattia, quando il figlio del tuo compagno si girò improvvisamente dalla direzione in cui stava andando, come se qualcuno lo avesse spinto o costretto a tornare indietro, mi raggiunse di corsa e mi disse, alzando il suo dito indice verso di me:
E ricordati che, mi ha detto che tu sei stata la cosa più bella che potesse capitarle!
E poi tornò sui suoi passi.
Queste tue parole, mamma, hanno cancellato con un colpo di spugna anni di sofferenza.
Grazie, ti voglio bene, mamma!
***
Era il mese di agosto del 1946, in una clinica di Roma.
Un vagito e un frugoletto di nemmeno tre chili vede la luce.
Eccoti finalmente! Una nuova vita è qui tra le mie braccia
pensò la giovane madre.
"Piccola, tenera e dolce, ma una grande responsabilità che mi opprime.
Tuo padre non sa nemmeno che esisti, non saprei nemmeno come rintracciarlo, perciò devo decidere da sola cosa fare.
Avevo fame e lui mi ha dato ospitalità e mezzi per sopravvivere, poi l’Esercito l’ha richiamato e ora, finita la guerra, sei arrivata tu, Angelo mio!
Non ti volevo, ma non ti abbandono, anche se io devo andare perché mi chiama la vita. Ti darò il nome Fosca, come mia madre, a cui voglio bene, ma che ho dovuto lasciare, insieme ai miei fratelli, per sfuggire alle persecuzioni della guerra.
Con un sotterfugio ho convinto chi di dovere a scrivere sull’atto di nascita il cognome di tuo padre, perché tu non ti debba sentire diversa, anche se ciò che ho fatto è contro la legge e ne pagherò le conseguenze.
Ho cercato una soluzione temporanea, una persona cui affidarti fino a quando non sarò in grado di venire a prenderti.
È dolce e materna e abita con il marito e cinque figli (tre maschi e due femmine) nel Frosinate.
Sta allattando il piccolo nato da poco ed ha accettato di allevarti insieme agli altri suoi figli.
Ti darà il suo latte materno e il suo amore, ciò che io ora non sono in grado di fare.
Ciao tesoro mio, ti lascio in buone mani, spero tanto di poterti rivedere presto!"
***
Mio Dio, nella bufera della mia vita, Tu mi sei sempre accanto; mi eri accanto anche nei momenti in cui mi sembrava che Tu non ci fossi, anche quando ero disperata, sempre i Tuoi passi che seguivano i miei, oppure li precedevano, per appianarmi quel terreno che vedevo sconnesso, irto di baratri; anche quando pregavo affinché i miei piedi camminassero all’indietro, per non andare ad affrontare ciò che quotidianamente sentivo come un rifiuto alla mia persona, una negazione alla mia richiesta di affetto, una punizione che non capivo e da cui volevo fuggire.
***
Quella sera c’era un tramonto rosa con sfumature giallo oro all’orizzonte.
Mio padre, acquisito in quella famiglia di pastori a cui mia madre mi aveva affidata, mi teneva teneramente per mano e insieme, sulla cima di una collina che a me, piccola, pareva un’enorme montagna, scrutavamo il cielo.
Sentivo, ricordo chiaramente come una delle mie prime emozioni, quasi una struggente nostalgia di non so cosa e una sensazione d’immensità da cui mi sentivo attratta, come un invito ad adagiarmi in quella riposante dolcezza.
Percepivo come un vuoto in cui galleggiava volentieri la mia mente di bimba inconsapevole ma felice, perché mi sentivo amata da quella famiglia che per necessità mi aveva accolto e che oltre al latte materno, mi aveva dato Amore.
Ora che la mamma non aveva più latte, il cibo era scarso per tutti, ma io non ricordo la fame.
Ricordo invece con nostalgia i prati in cui giocavo libera insieme ai miei fratelli, il granoturco altissimo in cui ci si nascondeva per poi rincorrerci; le rocce sconnesse su cui camminavamo scalzi e dove una volta, inciampando, caddi e mi ferii la punta del naso, scatenando l’ilarità dei miei fratelli (di quella ferita porto ancora la cicatrice); ricordo il carnevale durante il quale venivano in casa le donne del luogo in costume ciociaro, con le maschere sul viso, che un po’ mi spaventavano; le processioni per il patrono del paese; la prima auto, peraltro rarissime, che vidi passare e per questo mi arrampicai spaventata su per la collina; ricordo quando mi fecero la vaccinazione contro il vaiolo, in cui provai il primo dolore fisico e strillai forte aggrappandomi al collo della mamma.
È anche viva in me l’immagine di quel povero maiale abbattuto per sfamare la famiglia in un anno più fortunato degli altri; furono atroci gli strilli di quella povera bestia che non voleva morire ed è questo un ricordo chiaro e doloroso che mi porto ancora dentro. Vidi il suo corpo agitarsi sempre meno e i suoi gemiti affievolirsi sempre più, fino a che rimase immobile. Sentii uno spasmo nell’anima e quasi un dolore fisico, tanto mi fece pena e pietà quel povero essere indifeso.
Un altro ricordo che con il tempo rimossi, ma che a volte riemerge, fu quel vecchio vicino a casa che mi offriva caramelle.
Mi chiedeva di sedermi sulle sue ginocchia per coccolarmi un poco e io lo facevo. I bambini innocenti non capiscono e non vedono il pericolo.
Ricordo però la sensazione di disgusto che provai una volta.
Da allora non volli più stare con lui, ma non dissi nulla alla mamma, credo per uno strano timore di non essere in grado di spiegare l’accaduto, di cui nemmeno io capivo il senso.
Veniva a trovarmi ogni tanto una signora che mi dicevano essere la mia mamma.
Mi portava dei giocattoli ed era accompagnata da un signore che, mi disse, era il mio papà.
Seppi poi che mio padre biologico non sa nemmeno che esisto. Allora non comprendevo però, perché io dovessi avere due madri e due padri.
Fra le cose che non capivo, ci fu quella che cambiò radicalmente la mia vita.
***
Cercavano in tre, la mamma adottiva e le sorelle, di infilarmi i calzini nuovi e io sgambettavo ostinata per non far entrare i miei piedi in quelle cose
.
La mamma che era venuta a prendermi, aveva fretta e così, dopo un po’ dovetti cedere e arrendermi agli eventi sconosciuti che stavano avendo il sopravvento su di me.
Era febbraio ed era molto freddo, per cui mi fecero mettere anche il cappottino, indumento ostile, che fino ad allora non avevo mai indossato.
Non sapevo e non capivo perché dovessi andare via da quella che era la mia famiglia. Seguivo quella seconda mamma
come un automa, triste e impotente perché anche la mamma adottiva non faceva nulla per impedirlo.
Avevo cinque anni e pur nella mia ingenuità, dentro me stessa mi ribellavo con tutte le forze a ciò che mi stava accadendo.
Un po’ per dimostrare la mia ribellione e un po’ perché non sapevo come dirlo alla nuova mamma, che mi scappava la pipì
, la feci per terra, ai piedi di un’elegante signora che, dopo aver protestato, mi guardò con dolcezza, quasi intuisse il disagio in cui mi trovavo. La mamma giustamente mi rimproverò e io sarei voluta scappare e tornare nel luogo da dove ero stata strappata. Leggevo però negli