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Gli Eredi
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Gli Eredi

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La storia narrata in questo libro è stata ispirata all’autrice dall’osservazione della realtà.

I personaggi di essa inseguono ciascuno un proprio sogno d’amore o di promozione economica e sociale.

Le loro vite si sfiorano e talvolta s’intersecano, ma è alla fine il destino che dà a tutta la vicenda la sua soluzione inaspettata e definitiva.
LanguageItaliano
Release dateDec 14, 2016
ISBN9788868225025
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    Gli Eredi - Maria Pisani

    Maria Pisani

    GLI EREDI

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2016

    Isbn:978-88-6822-502-5

    Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    GLI EREDI

    Rinaldo Montoro si assicurò che le due porte della stanza fossero chiuse prima di aprire a metà il balcone e fissare gli occhi al cielo coperto e grigio. Luca, già in cucina a preparare la cena, non sarebbe certamente venuto a raccomandargli di non prendere freddo. Faceva ancora freddo, infatti, pensò don Rinaldo appena, superato il breve gradino, fu sul terrazzo. Eppure era già aprile e la luce che, per quanto scialba, permetteva di distinguere i tetti e le case sottostanti, era certo indizio di giornate ormai più lunghe. Del resto il panorama gli era tanto familiare che in un chiarore anche minore avrebbe saputo distinguere ogni palazzo e casa del quartiere: un insieme, dall’alto, di tetti sghembi, anneriti dalla pioggia e dalle intemperie. Solo poco più giù, in fondo ad uno slargo improvviso ed asimmetrico, si elevava agile il campanile della piccola chiesa delle monache. Il suono della campana, al tocco e per la funzione del vespro, arrivava straordinariamente chiaro e distinto fin nelle stanze, quando il balcone del terrazzo era aperto. E così pure i rumori della piazzetta e dei vicoli, le voci e le grida dei ragazzi, la musica delle radio e dei televisori. Il terrazzo, quasi un’altana, da quando, ormai quattro anni, egli non usciva che rare volte, era il suo filo diretto col mondo sottostante il cui modesto ritmo quotidiano non gli era estraneo per aver abitato anche lui nel vicolo in un ammezzato con due strette finestre e una stanza al pianterreno. Allora i rumori del vicolo gli davano fastidio, aspettava con ansia le ore della sera per poter studiare in santa pace nella parte più interna di una delle stanze di sopra. La prima era la camera dei genitori, la seconda, dimezzata da una tenda di cotone, aveva dovuto dividerla, per tanti anni, con sua sorella Ninuccia. Soltanto dopo la morte del babbo, Ninuccia era passata in camera a dormire con la mamma. Il doloroso avvenimento era stato seguito da un altro di cui in famiglia e fra i pochi parenti e, persino in città, si era parlato a lungo, con invidia ed ammirazione. Rinaldo era stato promosso in seconda liceo con la media migliore di tutto l’istituto; anche un giornale cittadino aveva pubblicato la notizia.

    Il fatto, che per una famiglia agiata sarebbe stato, a ragione, forse soltanto motivo di orgoglio, si rivelò d’importanza decisiva per il futuro di Rinaldo. La madre, la sorella e lui stesso, rimasti senza altri mezzi economici dopo ch’era venuto meno il lavoro di falegname del padre, avrebbero dovuto sopportare ogni sacrificio perché egli potesse conseguire la maturità classica. La media riportata lasciava sperare che egli, certamente promosso in terza con ottimi voti, potesse presentarsi agli esami di maturità nella sessione estiva dello stesso anno, fare cioè due anni in uno. Il diploma di maturità sarebbe stato indispensabile per un impiego dignitoso, senza contare che esso serviva a concludere tanti anni di scuola altrimenti perduti. Questa certamente l’unica decisione da prendere anche per tener fede alla volontà del morto, il quale aveva sempre detto e dimostrato di volere che il figlio studiasse per diventare un professionista. Per quanto modesto artigiano, il padre di Rinaldo era stato uomo d’interessi culturali superiori alla sua condizione tanto che gli stessi nomi di Rinaldo e Clorinda, poi modificata in Ninuccia, li aveva appresi dalla lettura del Tasso. Don Lucio, il prete delle monache, qualche professore e le monache stesse, presso cui Rinaldo aveva frequentato le elementari, dicevano spesso tali cose alla mamma la quale assentiva in silenzio, stringendosi ogni tanto il fazzoletto nero da vedova intorno al volto. Nell’ottobre seguente, Rinaldo era tornato al Liceo Telesio più che mai deciso a superare la classe con una votazione non inferiore all’otto in modo da potersi presentare agli esami di maturità.

    Fu quello un anno di sacrifici eroici che gli lasciò nell’animo un segno indelebile. Fin dai primi giorni incominciò a studiare con assiduità, distribuendo bene il suo tempo in modo da iniziare subito i programmi della classe seguente. Un ragazzo di terza liceo lo aspettava ogni pomeriggio a casa per seguire con lui lo svolgimento delle lezioni, disposto a prestargli i libri e prodigo d’incoraggiamenti, fidando nell’aiuto che Rinaldo gli avrebbe reso nelle prove d’esami. Costretto a lunghe ore di apprendimento, avvilito da un’economia familiare feroce, Rinaldo in quell’anno trovò soltanto nello studio un motivo di evasione e di speranza. Col passare dei mesi, tutto gli sembrava più facile: le nozioni, i concetti, le ideologie, gli avvenimenti si legavano fra loro in modo razionale, saldo, quasi armonioso. Una specie di furore eroico gli fece sopportare la stanchezza, mentre l’orgoglio di assimilare un numero enorme di nozioni, di riuscire meglio di tutti gli altri, spesso gli dava dei momenti di gioia. Anche sua sorella Ninuccia sembrava essere uscita dall’atmosfera di dolore seguita alla morte del padre. Rinaldo aveva notato che sul vestito nero ella metteva talvolta delle cosucce d’oro, stando alla finestra dell’ammezzato e non più sulla porta di casa, quasi per non confondersi con la gente minuta del vicolo. A quel tempo Ninuccia aveva ventidue anni, molte speranze e tante illusioni. I ragazzi del quartiere, passando sotto la finestra, alzavano tutti gli occhi, attratti dal suo bel viso delicato, dai capelli biondi e lunghi che spiccavano sul vestito nero. Non molto alta, aveva una figura aggraziata e sottile, poche capacità, niente dote e una gran voglia di essere ammirata ed amata. Col fratello parlava poco, presa dai suoi sogni così come lui dalle proprie preoccupazioni. A marzo, Rinaldo non aveva più dubbi che avrebbe conseguito la media dell’otto, forse anche di più, ma il pensiero degli esami di maturità lo riempiva di timore e addirittura d’angoscia. Con il compagno di terza liceo era riuscito a seguire, e anche bene, tutt’i programmi, ma la consapevolezza della propria preparazione non gl’impediva di chiedersi con preoccupazione cosa gli esaminatori avrebbero pensato di lui. Forse essi avrebbero giudicato presunzione quel suo voler fare due anni in uno, sarebbero stati rigidi e severi. Il mese seguente alla brillante promozione per scrutinio continuò a studiare in modo forsennato, interrogando se stesso come avrebbe fatto un inquisitore. Il compagno, esausto, gli chiedeva talvolta di smettere, egli, invece, a casa continuava ad interrogarsi, a tradurre, a ripetere. Il giorno degli esami era un caldo e luminoso mattino di luglio, ma nei corridoi dove erano stati messi i banchi c’era una fresca penombra e un silenzio teso, interrotto soltanto, a tratti, dalla voce dei professori assistenti, dal brusio sommesso di qualche ragazzo che chiedeva spiegazioni al compagno più vicino.

    Rinaldo aveva scritto per quattro ore intere, senza voltarsi, senza alzare la testa. Alla fine, rileggendo quel gran numero di fogli, aveva giudicato di essere riuscito a svolgere l’argomento compiutamente, con ordine e chiarezza. Era uscito penultimo, ormai vuoto il grande atrio del liceo, le strade assolate. Nei giorni seguenti, invece, dopo aver aiutato il compagno di studi nei passi più difficili delle traduzioni latine e di quella greca, era stato il primo a consegnare i fogli. Nessun dubbio, infatti, che i testi fossero stati perfettamente interpretati, tanto i concetti erano logici, l’espressione chiara. Durante la settimana precedente le prove orali, era stato, tuttavia, ripreso dal timore degli esami: gli sembrava di non ricordare bene nessuno degli argomenti studiati, temeva di non riuscire ad esprimersi davanti ai professori che aveva visto soltanto durante le prove scritte passeggiare fra i banchi. Tremava leggermente, infatti, quando si era seduto dall’altra parte del tavolo, gli occhi fissi sugli esaminatori che vedeva finalmente da vicino. Poco dopo erano essi a guardarlo con stupore ed ammirazione, mentre egli rispondeva dapprima un po’ concitato, poi sempre più calmo e sicuro. All’uscita dell’aula, gli altri ragazzi lo avevano circondato per congratularsi: era arrivato a casa quasi portato in trionfo. Di quel giorno e degli altri ch’erano seguiti, le rare volte in cui gli capitava di pensarci, don Rinaldo Montoro aveva un dolce ricordo lontano, non del tutto sopito. Stanco dello studio di tanti mesi e orgoglioso del risultato brillantissimo degli esami, aveva finalmente assaporato il piacere della libertà, mentre la gioia della mamma e di Ninuccia, i complimenti degli amici lo avevano avvolto in un’atmosfera gaia ed affettuosa. Anche don Lucio era venuto fino a casa per congratularsi con lui, contento, la sua parte, della buonà riuscita dei consigli dati a Rinaldo. Povero parroco di una parrocchia poverissima, finora soltanto consigli aveva potuto dargli, ma adesso era ben certo di riuscire a trovargli un lavoro. Anche le monache, in verità, avevano subito pensato a Rinaldo per affidargli la gestione amministrativa dell’opera pia Divina Provvidenza dato che il ragioniere, nel prossimo settembre, sarebbe andato in pensione. Di questi, Rinaldo, sebbene avesse fatto gli studi classici, in breve tempo sarebbe stato in grado di continuare il lavoro. Occorreva soltanto il parere favorevole del notaio Fazzari, presidente onorario e benefattore del piccolo istituto.

    Rinaldo Montoro ricordava di averlo visto la prima volta proprio in quell’ampio soggiorno pranzo di cui, rientrando dal terrazzo, chiuse il balcone, continuando a guardare da dietro i vetri il cielo chiuso e grigio, in attesa della cena.

    * * *

    Ai rintocchi della pendola del soggiorno, don Rinaldo guardò il proprio orologio da polso: sì, erano proprio le diciotto, ancora due ore buone per la cena. Poteva indugiare sul terrazzo, l’aria in quel pomeriggio di maggio era tiepida, a tratti profumata, una gran luce dal cielo terso e azzurro. Con un pezzetto di canna, don Rinaldo incominciò a frugare fra le piccole crepe del parapetto le formiche sfuggite alla sua caccia quotidiana. Nella bella stagione gli piaceva aver cura delle numerose piante che, riparate dal muro di cemento, godevano della luce e dell’aria senza subire troppo l’offesa del vento. Luca gli portava gl’innaffiatoi, pensava poi lui a distribuire l’acqua in ogni vaso, a zappettare la terra con un piccolo arnese di ferro. Talvolta doveva appoggiarsi al muro, interrompere il lavoro per il dolore alle gambe, ma tanto aveva tempo, tutto il tempo. Lo irritava soltanto vedere fra le crepe del muro certe grosse formiche che si accaniva a distruggere, certo tuttavia che l’indomani la sottile riga nera sarebbe ricomparsa. Pensava allora di dover chiamare un muratore per incamiciare il muro, ma desisteva dal proposito per il piacere cattivo che gli dava la sua lotta contro le formiche e per il timore del fastidio di avere in casa anche un solo operaio. Tanti ne sarebbero occorsi per rimettere in sesto il vasto appartamento dai muri sbiaditi, le carte da parato consunte, i mobili opachi. Tutto era vecchio lì, a incominciare da lui con i suoi ottant’anni. Anche il pendolo, di cui poco prima aveva udito i rintocchi, aveva qualche numero incompleto, nascoste in chissà quale cassetto le assicelle di legno. Sì, tutto era vecchio, triste, consunto.

    Eppure quella stanza gli era apparsa sontuosa e scintillante la prima volta che vi era entrato con don Lucio. Una lunga tavola, da cui scendevano frange ricamate, illuminata dal grande lampadario al centro del soffitto, era piena di piatti e vassoi colmi di diverse pietanze, mentre il tavolino più piccolo e rotondo sul quale egli, da tanti anni, consumava i pasti quotidianamente, era tutto un brillio di coppe e bicchieri di cristallo. Il notaio Fazzari, quella sera, aveva invitato anche don Lucio a fermarsi per il ricevimento, firmando, senza neanche leggere, la lettera con cui Rinaldo veniva assunto come ragioniere all’istituto della Divina Provvidenza. Si fidava completamente – aveva detto – della scelta fatta da don Lucio e dalle monache; il ragazzo avrebbe avuto modo di conoscerlo quanto prima: in quel momento c’erano già degli ospiti nello studio. Altri ospiti don Lucio e Rinaldo avevano incontrato scendendo rapidamente le scale; don Lucio, soddisfatto della fiducia del notaio, Rinaldo, felice di quella sistemazione modesta quanto sicura. Il lavoro gli era parso subito facile, ma monotono: tenere la contabilità, riscuotere i fitti di alcuni immobili che erano proprietà dell’istituto, scrivere lettere di cortesia e di ringraziamento a vecchi e nuovi benefattori. Spesso doveva recarsi dal notaio per fargli firmare l’autorizzazione di alcune note di spesa. Aspettando che questi lo ricevesse, restava senza impazienza nella sala d’attesa con gli altri clienti dalle cui frasi cercava di capire l’entità dell’acquisto o della vendita: esse gli rivelavano qualche aspetto di un mondo per lui nuovo ed interessante, in cui entravano la legge e l’economia. Il notaio, dopo un po’ di tempo, lo faceva chiamare, dava una breve occhiata alle carte da firmare, lo congedava con un cenno del capo. Una mattina, improvvisamente, gli chiese se potesse tornare in studio il pomeriggio dell’indomani perché voleva parlargli. Durante le ore che avevano preceduto il colloquio, Rinaldo si era domandato con inquietudine cosa il notaio gli avrebbe detto. Non gli sembrava davvero di aver mancato a nessuno dei doveri inerenti il suo modesto impiego: il notaio non poteva essere scontento. Quando, all’ora stabilita, entrò nello studio, non gli sembrò infatti di vedere ombra di rimprovero sul volto di lui. A quel tempo, il dottor Fazzari aveva appena quarantatré anni, ma a lui, non ancora ventenne, sembrava un uomo grave e anziano, la fronte ampia, gli occhi un po’ appannati dietro le grosse lenti da miope, le mani grandi e molli nel loro pacato gestire. Non gli riusciva, insomma, né sgradito, né gradevole; col tempo, tuttavia, avrebbe imparato a stimarlo molto, ma a volergli bene cominciò quasi da quel momento in cui il notaio gli chiese se voleva lavorare per lui nello studio ogni pomeriggio.

    – Da qualche tempo – disse – il lavoro qui in studio è molto cresciuto e, grazie ai tuoi precedenti scolastici, ho pensato subito a te. Scrivere in buona forma italiana è indispensabile in uno studio notarile e io ormai non posso tener dietro a tutti gli atti che vengono copiati dagli altri due impiegati. Oltre lo stipendio, realizzerai qualcosa in occasione di contratti importanti, di grossi acquisiti, almeno da parte di chi compra: una consuetudine rispettata da tutt’i clienti, se non per generosità, certo per buon augurio. Allora accetti?

    Per quanto lietamente sorpreso e confuso, Rinaldo stava per rispondere di essere prontissimo ad accettare un secondo lavoro, quando donna Isabella entrò nella stanza. La sua prima sensazione fu olfattiva: la giovane signora aveva diffuso nella stanza un profumo sottile, forse di mughetto, la seconda fu di muta ammirazione. Ella vestiva di scuro, scura anche la veletta che permetteva d’intravedere la sommità del viso, lasciando scoperto il naso leggermente volto all’insù, le labbra piene e rosse.

    – Ancora qui, Antonio? Eppure, oggi, giovedì, saresti dovuto esser libero.

    La voce, pur pacata, tradiva una nota di disappunto.

    – Ho quasi finito. Ma tu va’ pure con Giuseppina al concerto. Passerò a prendervi dal teatro e vedrai che dai Maiorano saremo per la cena, puntualmente.

    Soltanto quando donna Isabella fu uscita, Rinaldo si era seduto nuovamente, senza tuttavia riuscire a dare la risposta che pochi minuti prima aveva sulle labbra.

    Fu il notaio a riprendere l’argomento.

    – Si diceva di te, ragazzo mio. Sono sicuro che sarai capace di cavartela bene, qui in studio. La puntualità, ecco ciò che ti raccomando. Dalle sedici alle diciannove tutt’i giorni, tranne il giovedì. Allora accetti?

    La risposta, ormai meditata, era stata concisamente affermativa, ma, appena uscito, Rinaldo aveva percorso velocemente la breve strada fino a casa in una eccitazione felice. A casa, la notizia del nuovo lavoro era stata accolta con gioia dalla mamma e da Ninuccia e oggetto di molti propositi. Si poteva infatti presumibilmente sperare che lo stipendio del dottor Fazzari, stimato da tutti un uomo generoso, avrebbe consentito di fare qualche riattamento alla casa, almeno alla stanza di sotto, e l’acquisto di quelle poche ultime cose mancanti al corredo di Ninuccia. Era stato un lungo e sereno discorrere. Prima di addormentarsi, però, Rinaldo aveva ricordato con rammarico di non essere riuscito a vedere gli occhi della signora Isabella.

    * * *

    Rinaldo si presentò nello studio del notaio il lunedì seguente. Quel pomeriggio, un ventoso e freddo giorno di marzo, non pensava certamente che anche lui, divenuto notaio, avrebbe conservato l’abitudine di

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