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Vicolo Cieco
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Vicolo Cieco

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About this ebook

Jack Cage è un agente speciale dell’FBI allo sbando, da quando uno dei criminali che avrebbe dovuto catturare gli ha sterminato la famiglia. Nel dolore si trascina in un’esistenza di eccessi, rifiutando i canoni di una società alla quale percepisce di non appartenere più e sprecando il suo incredibile talento. Tuttavia un nuovo caso scuote la città di New York, frenetica ed indifferente: un serial killer abbatte la propria furia su vittime all’apparenza incolpevoli nel giorno del loro compleanno. Il capo dipartimento Helen Soren decide di affidare il caso al detective Cage sperando di scuoterlo dal suo dramma e di porre rapidamente fine alla scia di efferati delitti. Ma quanto più Jack approfondisce, tanto più la trama si espande come una densa macchia d’olio che porterà l’investigatore a misurarsi con politici senza scrupoli, squilibrati ex agenti privati ed un serial killer sadico ed inarrestabile che recapita macabri regali ai propri ignari bersagli. Per giungere alla verità, in bilico tra redenzione e perdizione, il detective Cage dovrà affrontare i propri demoni e fare i conti con un passato da cui sta fuggendo da troppo tempo, realizzando che, per la seconda volta come già drammaticamente accaduto anni prima, si è lasciato avvicinare troppo dall’orrore che tenta di fermare e che rischia di sedurlo.
LanguageItaliano
Release dateDec 12, 2016
ISBN9788822876294
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    Book preview

    Vicolo Cieco - Umberto Simone Andreani

    A me stesso.

    Perché se non ci avessi provato

    non me lo sarei mai perdonato

    VICOLO CIECO 

    U. S. Andreani

    Prologo

    È mattina presto. L’umidità è soffocante. Una densa nebbia avvolge la giungla intricata e scoscesa. Il frinire vibrante degli insetti è assordante. Di tanto in tanto uccelli variopinti si richiamano rumorosi. Altre volte si odono versi più inquietanti. Giaguari forse. O forse no.

    I suoni giungono irriconoscibili, ignoti, come la maggior parte delle creature che popolano questo ambiente ostile e selvaggio.   

    L’unità di incursione si addentra prudente, silenziosa, vigile. Ciò che più la innervosisce è l’insidia che si nasconde nel silenzio. Che striscia, che zampetta, che attende placida e nascosta.

    La foresta è fitta e i militari si muovono lentamente. I guerriglieri del narco traffico non sono l’unico nemico da queste parti. Come un piccolo sciame la squadra si insinua tra gli alveoli di un labirintico polmone verde che cela insidie ad ogni anfratto. Gli alberi sono contorti, fitti e vicini. Come le maglie di una trappola che si stringe intorno ad un’ignara vittima. Ogni cosa qui è predatrice. Gli animali, la vegetazione, persino il terreno.

    Il drappello di incursori tuttavia non è da meno. Addestrati in questi luoghi, ne hanno assorbito la pazienza, le movenze, l’aggressività.

    La pattuglia è vicina al suo obiettivo. All’interno di un visore ad infrarossi un gruppo di capanne rivela una febbrile attività.

    Sembrerebbe un villaggio indios inghiottito dalle liane ma le sgargianti t-shirt degli abitanti muniti di fucile d’assalto Ak-47 tradiscono una diversa occupazione.

    Il sergente Gomìs con un rapido cenno dispiega i suoi uomini che reattivi come pantere si posizionano nei punti strategici dell’assalto. All’interno dei mirini dei fucili di precisione, le sentinelle ignare si guardano attorno svogliate e distratte. Una di loro si è appena accesa un sigaro quando una croce graduata la punta in mezzo alla fronte.

    Mentre i quattro tiratori scelti proteggono i propri compagni come angeli dal bronzeo piumaggio composto da proiettili incamiciati, gli incursori si avvicinano al bersaglio.

    Sono state due settimane di marcia estenuante, tra afa soffocante e punture di insetti. Una sofferenza sopportata solo per concretizzare quanto accadrà nei prossimi dieci minuti.

    Mentre gli incursori disinnescano il rudimentale ed approssimativo perimetro di difesa di quella fabbrica di droga improvvisata, l’adrenalina sale. 

    Il sudore imperla la fronte e cola sul naso tra feroci occhi puntati su prede inconsapevoli del loro triste destino. Zanzare ronzano, si posano sui dorsi delle mani e pungono fastidiose, ma i militari restano impassibili.

    La quiete prima della tempesta.

    Ad un comando nell’auricolare, gli assaltatori si innescano fulminei. Scivolando come letali serpenti alle spalle delle ronde del campo, le neutralizzano sgozzandole con precisione chirurgica e raggiungono il retro delle prime capanne adibite ad essiccatoi di foglie di coca. Dopo aver piazzato l’esplosivo, procedono sotto lo sguardo attento dei propri compagni invisibili nella foresta. I silenziatori delle pistole nascondono la loro avanzata seguita da un’inesorabile scia di corpi inermi.

    Giunti al secondo gruppo di capanne vengono rinfoderate le pistole ed imbracciati i fucili d’assalto.

    I volti striati dal mascheramento mimetico sono risoluti e tesi. Lo sguardo d’acciaio è pronto alla frenesia della carneficina imminente.

    Il comandante Gomìs pronuncia l’ordine.

    All’unisono i tiratori neutralizzano le sentinelle impreparate. Le teste delle guardie si vaporizzano in una nuvola di sangue e materia grigia. Immediatamente dopo scompaiono dalla visuale mentre gli assaltatori scattano come felini sui soldati inesperti.

    La guerra si abbatte su civili atterriti e colpevoli di ricevere il loro misero salario lavorando alla raffinazione della cocaina invece che nella produzione di canna da zucchero.

    Esplosioni squassano la quiete della giungla costringendo alla fuga stormi di volatili tra le nebbiose cime degli alberi lussureggianti. 

    Sotto la rigogliosa volta arborea, tra gli arbusti più bassi e vicino al penetrante odore della terra umida, si consuma il dramma dell’impietosa lotta al narco traffico.

    Lampi accecanti di fumo e scintille provengono dall’interno delle capanne in cui i pochi sopravvissuti si sono asserragliati nella sterile speranza di una resistenza ad oltranza. Le granate stordenti ed accecanti pongono fine a quell’ottimismo ingiustificato.

    Schegge di legno vengono proiettate in tutte le direzioni sotto il pesante calibro dei fucili d’assalto che falciano abitazioni, piante, esseri umani.

    Il sangue schizza su montagne di polvere bianca in attesa di essere ulteriormente lavorata, addensandosi in una pasta grumosa e rossastra.

    Dopo una decina di minuti di inferno, le armi tacciono.

    Frenetici comandi vengono impartiti alla squadra di militari che si muove scattante ed efficiente. L’odore di polvere da sparo è pungente.

    La benzina, elemento essenziale del secondo processo di raffinazione della cocaina, viene sparsa su tutto il villaggio. Sui tavoli carichi di materiali da laboratorio di chimica. Sulle distese di foglie lasciate al sole ad essiccare. Sui cadaveri dilaniati e mutilati. Sull’enorme quantitativo di stupefacente già prodotto.

    Il sergente Gomìs si preoccupa di recuperare ogni documento cartaceo presente nell’area, per sequestrarlo e riportarlo alla base.

    L’incursione è stata un successo. 

    Gli uomini si addensano nel punto di raccolta stabilito. Fradici di sudore si ristorano svuotandosi sul volto intere borracce d’acqua. I bersagli sono stati tutti neutralizzati. Non ci sono vittime nella squadra. 

    Un paio di militari si accendono una sigaretta. Dopo qualche  energica tirata, lanciano i mozziconi sulla benzina che permea le rovine del laboratorio clandestino.

    Le fiamme divampano e un angolo di giungla brucia. Dall’impenetrabile manto verde adagiato sulle impervie colline della foresta amazzonica, si levano dense colonne di fumo nero.

    Mentre la squadra si allontana un militare in coda si attarda per scattare le ultime fotografie. Distratto nel suo intento non si avvede di un’ombra che lo assale alle spalle facendolo cadere all’indietro.

    Disteso supino, il soldato si protegge reattivo, schivando e parando i fendenti di pugnale che lo minacciano, sferrati da una donna di mezza età dagli evidenti tratti sudamericani. Mentre la femmina si scaglia col coltellaccio arrugginito sul militare, le sue urla strazianti per l’evidente perdita di un congiunto colpito nell’assalto attirano i compagni dell’uomo che la afferrano energicamente strattonandola via.

    Il militare, finalmente libero, scruta la donna con disprezzo, prevedendo la presa in giro dei compagni per essere caduto vittima di un così imbarazzante agguato.  

    Tuttavia, appena incrocia gli occhi della femmina, lei sorride malefica. Sputando nella sua direzione, gli lancia con l’unica mano libera un pugno di piccoli oggetti. Sono linguette metalliche.

    Con orrore l’uomo osserva le granate stordenti appese al proprio corpetto senza sicura.

    «Merda.»

    ESTATE

    Un giorno come tanti. 

    La sveglia presto, la stessa ora ogni mattina. La colazione veloce con succo d’arancia dal colore innaturale bevuto al volo prima di uscire. 

    Le prospettive non sono delle migliori. Un’ora di traffico per arrivare in ufficio con l’afa di Giugno amplificata dall’asfalto rovente. L’aria condizionata non funziona e la macchina diventa uno strumento di tortura. La camicia che si appiccica addosso, i capelli fradici sulle tempie e sul collo, una mosca maledetta che proprio non vuole lasciarti in pace. 

    David Keaper sa che la sua mattinata non è cominciata nel modo migliore, ma la sopporta. La sopporta perché sa che in ufficio sarà anche peggio. Della sua soddisfazione iniziale per essere stato assunto alla Digital–Net, dieci anni prima, non è rimasto un gran che. La posizione professionale cristallizzata al gradino più basso, anni di straordinari non pagati, colleghi che appena possono lo sfottono senza pietà. Continuamente scavalcato da damerini palestrati in giacca e cravatta o da stangone con gonne tanto corte da assomigliare a cinture. Lo stesso lavoro ogni giorno, minuto e dannato secondo dell’anno. 

    Chi lo avrebbe detto che sarebbe finita così. 

    Ancora si ricorda il signor Keaper quell’euforia che provò il primo giorno quando il gran capo delle Human Resources gli disse: «Complimenti David, sei dei nostri.» 

    Solo sua madre riusciva a dare importanza a quello che faceva. 

    Se ne vantava con le vicine. Ne discuteva col parroco. Ne parlava per ore con la sorella al telefono. Ne parlava tanto da far dubitare che ci fosse davvero qualcuno all’altro capo del filo. 

    Ogni volta che David rientrava a casa dall’ufficio veniva tempestato dalla madre di domande alle quali avrebbe fatto volentieri a meno di rispondere, anche se poi, svogliatamente, la accontentava. Tutto quell’interesse da parte sua lo disturbava. Era stanco. Voleva solo togliersi le scarpe e mettersi davanti alla tv. Un po’ di pace dopo una lunga giornata di lavoro.

    Tuttavia le ore trascorse davanti alla televisione non sortivano l’effetto sperato. 

    David voleva solo distrarsi, non pensare a niente. Invece ogni sera, quando il silenzio della notte copriva ogni luce ed ogni voce come brina in pieno inverno, David si sentiva agitato, sotto esame. Colpevole.

    -Dovrei vedere meno televisione.- Pensava David -Quella maledetta scatola infernale.- 

    Guardarla da spenta gli faceva paura. Era come osservare un cobra raggomitolato. Inerte ma insidioso. Vulnerabile ma pericoloso. 

    Un occhio. Un occhio chiuso. Un occhio pronto con un solo tocco del telecomando a spiare, ipnotizzare, condizionare ogni uomo in ogni luogo della terra.

    In quei momenti, quando il soggiorno di casa piombava nel silenzio rotto solo da sirene lontane, la voce della madre gli mancava. Era un rumore di fondo che lo tranquillizzava. Come il brusio del frigorifero nel silenzio. Come il display della sveglia nel buio. 

    I discorsi noiosi della madre gli facevano compagnia. Gli davano conforto. Come un carillon che suona la ninna nanna ad un bimbo agitato e convinto che il sonno gli porterà via ogni cosa. 

    Non voleva ammetterlo a se stesso ma sua madre lo faceva sentire orgoglioso, fiero. Senza di lei invece, era solo con se stesso. Nudo. E a se stessi non si può mentire.

    -Forse dovrei fare un po’ di ginnastica. Forse dovrei andare a correre.- Pensava David. -Domani.- Si certo. Domani.

    Domani è diventato dopodomani. Il primo week end è diventato l’ultimo. Le primavere sono diventate inverni.

    Ora, in coda sull’autostrada diretto in ufficio, sa che sono passati dieci anni. Una vita. Le sue abitudini sbagliate sono rimaste le stesse. Le sue paure e le sue angosce sono sempre li, nascoste dal rumore di sottofondo di una città che ti soffoca. Tutti i buoni propositi sono confinati in quei dieci minuti in cui si disattiva il televisore e si va a dormire. Pronti a scomparire non appena si spegne la luce dello specchio del bagno, quando si è finito di lavarsi i denti prima di coricarsi.

    E quel poco di orgoglio che solo sua madre sapeva infondergli, adesso giace due metri sottoterra insieme a lei.

    Pensa alla sua vita David, ci pensa tutto il giorno anche se gli basterebbero dieci minuti. Dieci minuti per scoprire che è solo un grassone di 120kg, che passa la vita a lavorare, a mangiare porcherie e a guardare quanto di più idiota ci sia in televisione. 

    La giornata trascorre lenta, inesorabile, immutabile davanti allo schermo minuscolo di un computer che trasmette sempre gli stessi numeri e che necessita sempre degli stessi comandi.

    David è un impiegato modello. Non si lamenta mai e lavora come un matto. Ma la sua non è professionalità. Semplicemente evita di incontrare altre persone.

    David fa finta di niente ma si accorge benissimo delle occhiate e delle risatine alle proprie spalle. Mentre va in bagno. Mentre prende un caffè al distributore automatico. 

    Si sente trafitto da mille spilli acuminati, che non causano dolore fisico ma che contagiano  l’anima col virus dell’umiliazione. 

    Vorrebbe sparire David. Vorrebbe essere invisibile. Vorrebbe girarsi e affrontare i suoi aguzzini. Dir loro che sono stupidi e superficiali. Vorrebbe, ma non ci riesce. David sa di essere un debole. Se n’è convinto. 

    Al termine dell’orario di lavoro il signor Keaper non esce con gli altri ma si trattiene fino a tarda sera. È sempre l’ultimo a lasciare la sede della Digital-Net e solo quando è sicuro che non incontrerà nessuno.

    David osserva dal basso verso l’alto l’imponente edifico alle sue spalle. Nonostante la propria flaccida mole si sente piccolissimo. Il buio della sera è sopraggiunto e le luci della strada sono già accese mentre l’afa di Giugno gli piomba addosso come una coperta di lana.

    -Anche oggi ho accumulato ore di straordinario per giorni di ferie che non farò mai.- Pensa sconsolato il signor Keaper.

    È uscito dall’ufficio ma il suo umore non cambia. La tortura a base di noia alla Digital-Net è finita almeno per qualche ora, ma l’idea di tornare in quel tugurio che chiama casa non lo allieta neanche un po’. 

    La povera madre gli ha lasciato solo un mare di debiti. Si sa, la sanità non è a buon mercato e un malato di tumore ai polmoni ha il suo costo. Costo che per un impiegato di settimo livello del terzo settore della sezione controllo spedizioni come David Keaper è a dir poco proibitivo. 

    Ed è così che se n’è andata la casa della madre, appartenente alla sua famiglia da cinque generazioni. È così che sono spariti il negozio di alimentari e il camioncino delle consegne a domicilio. Pignorati dalle banche e sotto una montagna di cambiali e fatture insolute.

    Vorrebbe essere diverso David. Vorrebbe vivere in un appartamento di classe in centro con vista sulla Downtown. Vorrebbe avere una bella macchina, un bel fisico, una bella donna. Anzi, tante belle donne. 

    Vorrebbe tanto tornare a casa la sera e salutare il portiere che gli porge la posta colma di lettere di amici e persone importanti invece che raccogliere il mucchio di pubblicità tutte uguali sul suo zerbino sudicio da quattro soldi. Vorrebbe avere una vita diversa. Una vita come quella dell’uomo che sta incrociando davanti a casa propria. Come lui vorrebbe essere bello, con occhiali neri e vestiti firmati, con telefono cellulare ultimo modello e con un sorriso che sembra informare ogni donna della terra che è lui l’ultimo dei principi azzurri. 

    Il riflesso nello specchietto retrovisore ricorda a David che sta solo fantasticando ad occhi aperti. La distanza tra la cruda realtà e la vita che sogna è siderale. Le differenze tra lui e l’uomo appena incrociato fuori casa non si riducono solo a 40 kg di peso. Nello specchietto retrovisore David osserva i suoi occhi inumidirsi di lacrime. 

    Svogliatamente spegne il motore dell’auto, scende, chiude la portiera e si dirige verso casa seguito dal lampeggiare dell’allarme inserito. Anche la sua macchina sembra parlargli alle spalle, irriverente.

    David sa. 

    Sa che nella semioscurità del suo minuscolo ingresso, non appena accenderà la luce e chiuderà la porta, la realtà gli piomberà addosso con la solita, crudele, instancabile precisione, facendolo tornare l’omuncolo che è diventato.

    -Ma vale davvero la pena vivere cosi? Che senso ha trascinarsi tutti i giorni in una vita ripetitiva, triste e inutile come la mia?- Pensa David.

    Potrebbe lasciarsi tutto alle spalle, volare via per mete lontane e ricominciare da capo. Ma è troppo vigliacco per farlo. 

    -Quarant’anni domani e nessuno con cui festeggiare.- 

    Non riceverà auguri, David, né messaggi, lettere o regali. Anni buttati via e la terribile e orrenda sensazione che i prossimi quaranta saranno forse peggio degli altri.

    -Perché continuare? Perché?-

    David è nell’ingresso di casa. Immobile. La porta è socchiusa e la luce ancora spenta. Lo sguardo è rivolto al pavimento e le lacrime che gli solcano il volto sono più salate del solito. La valigetta 24 ore è ancora nella sua mano e davanti agli occhi c’è l’enorme pancia a nascondere i piedi, come fosse un ostacolo invalicabile.

    Poi un brivido alla schiena. Una nuova forza. Ha aspettato anche troppo, David.

    -Adesso basta. Da domani si cambia e questa volta sul serio.-

    -Sveglia alle cinque, jogging, palestra, dieta. Basta mangiare porcherie. Basta abbassare la testa. Basta vestiti da sfigato. Basta stare tutte le sere davanti a quella stupida televisione. Basta, basta, basta cazzo!- 

    -Da ora nasce un nuovo David. Ho buttato via quarant’anni, non butterò più via un solo minuto!-

    Alza la testa David, con una forza mai avuta prima, conscio e sicuro che la sua vita stia per cambiare. 

    Nello specchio opaco posto all’ingresso questa volta c’è un immagine diversa. C’è un uomo nuovo. Più forte. Migliore. Quello che prima era il riflesso della sua crudele ed inutile vita, adesso è una finestra sul suo futuro. 

    Ma solo ora David si accorge di non essere solo nel proprio futuro. C’è qualcuno dietro di lui. 

    Una figura incappucciata senza volto, robusta ed occultata nella penombra di casa propria. 

    Il signor Keaper è paralizzato dalla paura. Con sguardo fisso allo specchio percepisce coraggio e forza sparire in un istante.

    Una voce roca ma appena sussurrata rompe il silenzio facendolo trasalire. «Troppo tardi, David. Sei pronto?»

    Gli basta un secondo per capire. Un secondo che sembra un’eternità fatta di sogni irrealizzati, di debolezza e tanta paura. David è consapevole che quella è l’ultima occasione che ha per riscattare una vita sprecata. L’ultima possibilità di dimostrare che ha un orgoglio anche lui. 

    «Sì.» Risponde mesto.

    Chiude gli occhi, David, e una fitta lancinante lo raggiunge alla schiena. Un dolore mai sentito, insopportabile. Qualcosa lo sta lacerando, trapassando, facendolo contorcere dal dolore. Un caldo ed umido tepore si diffonde sul suo ventre. Vorrebbe urlare ma il dolore è troppo forte e dalla sua bocca non esce neanche un fiato. Poi più nulla. 

    Il corpo si intorpidisce. Le forze  lo abbandonano facendolo cadere in ginocchio.  

    Come un lampo, un riflesso taglia la penombra e un colpo violentissimo lo raggiunge al collo. Gli occhiali da vista cadono sul pavimento mentre la mole dell’uomo si affloscia a terra con un tonfo sordo.

    È morto, David, con la triste consapevolezza che non lo piangerà nessuno. La voce roca rompe il silenzio innaturale piombato in casa Keaper. 

    È passata mezzanotte da un minuto. 

    «Buon compleanno. David.» 

    2

    Driin. Driin. 

    -Maledetto telefono!- 

    Driin. Driin.

    In uno squallido letto una mano sbuca da sotto le lenzuola ed alza la cornetta di un telefono portatile. Una voce tremolante, impastata ed assonnata risponde. «Pronto?». 

    «Jack, sono Helen.» 

    «Che diavolo vuoi, Helen? Sono le sei e mezza, maledizione!». 

    L’uomo vorrebbe aggiungere un insulto ma il mal di testa e i conati di vomito lo interrompono.

    «Lo so che ore sono, Jack. Ce l’ho anche io un orologio e pensa un po’ so anche come leggerlo.» Gracchia la voce al telefono.

    «Tira giù il culo da quel letto, mettiti qualcosa di decente ed esci da quella topaia che chiami casa. C’è un lavoro fatto apposta per te.»

    L’uomo vorrebbe lanciare il telefono fuori dalla finestra, ma l’impulso di insultare la propria superiore ha il sopravvento. «Helen, con tutti i bravi poliziotti, detective e agenti che hai nel tuo distretto devi rompere le palle proprio a me?». 

    «Pensavo di starti poco simpatico e che volessi cacciarmi dalla tua squadra.» Incalza l’uomo. «Com’è che adesso ti disturbi tanto da chiamarmi a notte fonda?»

    La voce femminile all’altro capo del telefono risponde con sarcasmo ed irritazione. «A parte il fatto che le sei e mezza sono notte fonda solo per i falliti come te, ti sbagli Jack, non mi stai antipatico, ti odio soltanto con tutte le mie forze.»

    La voce metallica al telefono prosegue. «L’idea di aver bisogno di te mi irrita parecchio, anche se svegliarti a quest’ora mi dà almeno la soddisfazione di rovinarti la giornata. Purtroppo questa volta mi servi, e mi servi davvero.» 

    La voce al telefono si fa più seria. «La polizia di New York ha trovato due cadaveri e il modo in cui sono conciati non mi piace neanche un po’.»

    La donna prosegue. «Per quanto mi dia fastidio ammetterlo, questo caso non posso darlo a nessun altro. Anche se sei un ubriacone allo sbando, quando si parla di delitti seriali resti il migliore.»

    L’uomo non vedeva l’ora di poter ricambiare stoccate con altrettanto sarcasmo. «Helen, mi lusinghi, ci manca solo che mi inviti fuori a cena, ma sappi che non sei proprio il mio tipo.»

    La donna risponde irritata. «Piantala di fare lo stronzo Jack e vieni in condizioni presentabili, la stampa è già sul posto.»

    Un sorrisetto irriverente spunta sulle labbra dell’uomo sotto le coperte. «Eh già, brutte bestie i giornalisti, vero Helen? Ma sono sicuro che hai un completo firmato, pronto e stirato anche per questa occasione. Magari che si intona ai vestiti dei cadaveri».

    L’uomo ormai ci ha preso gusto ed insiste. «Ah! Già che ci sei Helen, puoi dire ai tuoi amici giornalisti che due morti non sono sufficienti a presumere che l’assassino sia un serial killer? Sempre che si tratti di omicidio.»

    La donna perde la pazienza. Il siparietto comico è durato anche troppo. «Ti diverti, eh Jack? Ma quanto sei simpatico.» 

    «Ad ogni modo, campione, vieni a dare un’occhiata di persona e poi dimmi tu stesso se a stroncarli è stato un infarto.» 

    «Ah, Jack,  dimenticavo. Vedi di essere qui entro mezzora, o ti rendo la vita peggiore di quello schifo che è già!»

    Click.

    3

    Jack Cage. Quarantotto anni. 

    Agente speciale dell’FBI, sezione omicidi. Specializzato in killer seriali. 

    Brillante carriera. Praticamente il migliore. 

    Questo fino a cinque anni fa, quando Ivan Gerz, sospettato numero uno per una serie di dodici omicidi, gli ha sterminato la famiglia. Inseguirlo, scovarlo, intrappolarlo e ucciderlo non è bastato. La vendetta non aiuta a lenire il dolore. Non aiuta l’alcool, non aiuta lasciarsi andare, non aiuta rovinare una brillante carriera. Non aiuta l’autodistruzione. Nulla aiuta.

    Jack vuole solo morire, ma non vuole farlo da solo. Per rispetto di sua moglie e di sua figlia, che se avessero ancora una vita da vivere, non se la toglierebbero mai. Cage sa che con il lavoro che fa, prima o poi ci penserà qualcun altro ad accontentarlo. Lo spera. 

    Forse Helen ha ragione. Forse è il caso giusto per lui. Forse ha trovato colui che finalmente gli darà ciò che cerca da cinque lunghi anni trascorsi a trascinare un fardello insopportabile da sostenere. Ma alle sei e mezza di mattina, dopo aver bevuto da solo al pub sotto casa fino qualche ora prima, il trillo del telefono è come un trapano che ti trapassa il cervello. La squillante voce di Helen è anche peggio, come un richiamo per cani a due centimetri dall’orecchio. 

    -Quanto non sopporto quella stronza!-

    Si tira su Jack e un senso di nausea lo colpisce come un pugno alla bocca dello stomaco. Si sdraia di nuovo sul letto ma è troppo tardi. Ormai tutto il mondo gira come la peggiore delle montagne russe. Scatta in bagno raggiungendo giusto in tempo il water a cui si abbraccia come il peggiore degli amanti. Vomita. 

    Appoggiandosi di schiena alla fresca parete del bagno, si guarda dritto allo specchio. Senza sapere perché, scoppia a ridere come un cretino.

    -Beh, se il buon giorno si vede dal mattino. Qui ci vuole una bella doccia gelata.-

    Anche se sono passati quarantotto anni, Jack Cage resta un bell’uomo. Alto, fisico atletico e asciutto, carnagione scura, occhi piccoli e verdi dal sapore vagamente asiatico. Sul volto magro e sottile cresce una barba incolta di qualche giorno. I capelli neri come la pece sono corti e spettinati. L’aspetto è randagio, trasandato e strafottente. 

    Il classico bello, maledetto e impossibile. Solo che lui, almeno in teoria, sta dalla parte dei buoni.

    -Helen ha detto che devo vestirmi decentemente, non vorrei mai che rimanesse delusa.-

    Jeans, dr. Marteens ai piedi, maglietta di cotone nera e occhiali da sole. Praticamente un divo del cinema, con l’unica differenza che il distintivo attaccato alla cintura è vero.

    In mezz’ora è fuori casa ma piuttosto che passare da Helen preferirebbe camminare sui carboni ardenti. Jack decide di recarsi direttamente sulla scena del crimine. 

    In strada non c’è anima viva. -Sarò anche un fallito convinto che le sei e mezza siano ancora notte fonda, Helen.- Pensa Jack. -Ma l’unico stronzo in giro a quest’ora a quanto pare sono io.-

    Jack si incammina verso la sua macchina. Il sole è già spuntato tra i grattacieli della metropoli ma nonostante l’ora presta emana già quel caldo che fa presagire una giornata torrida. Cage monta sulla sua Chevrolet Chevelle Coupè nera. Prima di girare la chiave si accende una sigaretta.

    -Il fumo nuoce gravemente anche alla salute di chi ti sta intorno.- Legge Jack sul pacchetto morbido di Marlboro. -Ah si? Beh, cazzi suoi! Non dovrebbe frequentarmi.- Cage estrae dalla tasca  il cellulare mentre respira fumo a pieni polmoni. Nelle chiamate recenti c’è quasi sempre lo stesso nome. Con un gomito appoggiato fuori dal finestrino, tocca con il pollice il display del telefono e una faccia un po’ grassoccia appare sul piccolo schermo.

    «Warbarsky. Warbarsky sono Cage, ragguagliami.»

    Dopo qualche secondo. «Ciao Jack, come va? Qui è un maledetto casino. Siamo sulla Lincoln avenue, all’incrocio con la tredicesima strada. Duplice omicidio.»

    Jack inarca le sopracciglia. «Sicuro che sia omicidio?»

    Warbarsky risponde con un sospiro. «Non c’è nessun dubbio, Jack. Nessuno potrebbe conciarsi in quel modo per caso, men che meno da solo.»

    L’investigatore dell’FBI è sempre più scettico. «Spiegami un po’.»

    Warbarsky replica con il tono sconsolato tipico di una giornata iniziata troppo presto. «Difficile a dirsi, Jack, anche perché non ho resistito dentro un gran che. Fai prima a vederlo da solo e, dammi retta, non fare colazione.» Jack aziona la chiave e fa rombare la sua Chevelle. «Capisco. Sto arrivando.»

    Normalmente la guida di Jack è un vero e proprio tentativo di suicidio. Niente sirena, incroci presi solo con il semaforo rosso, interi tratti di strada percorsi contromano. Ma questa volta no. Questa volta va piano, con calma. Il detective Cage è curioso. Sente che forse ha trovato davvero il suo degno avversario. 

    Dall’autoradio Adele intona Cold Shoulder a tutto volume. Il frizzante sound britannico ritma le movenze di Jack alla guida come fosse un videoclip musicale. 

    In poco meno di mezzora è sul posto e trovare l’indirizzo risulta semplicissimo. È l’unica casa con un centinaio di persone davanti l’ingresso. Polizia, giornalisti, cameramen e semplici curiosi. C’è chiunque, forse anche l’assassino. Anzi, Jack ne è sicuro.

    Parcheggiare lontano è sempre la mossa giusta. In questo modo Cage può farsi un’idea più chiara, ampia e precisa della scena del delitto. Ha tempo di fissare le prime impressioni senza che decine di persone gli si accalchino intorno intuendo che è del mestiere, tempestandolo di domande e rompendogli le palle. Arriva con comodo, quasi come se ci si capitasse per caso. Nei venti metri che lo separano dall’ennesimo cadavere, il detective si concentra e diventa cacciatore. Per assorbire più informazioni possibili, per cogliere ogni minimo dettaglio, per trovare l’errore che ha commesso la sua preda.

    «Cage! Cage!»

    -Pace finita.-

    «Cage. Vieni da questa parte.»

    «Dimmi tutto Warbarsky.» Risponde Jack quasi svogliato.

    Il sergente di polizia Ethan Warbarsky ha il fiatone. La leggera corsetta per andare incontro all’ispettore lo ha affaticato. Jack osserva gli aloni di sudore comparirgli sul petto e sotto le ascelle della divisa.

    «Stanotte alle cinque la vicina di una delle due vittime, uscendo di casa, ha notato che la porta era aperta e un uomo era riverso sul pavimento. Insospettita ha chiamato la polizia.»

    «Ma che meraviglioso senso civico.» Replica Jack accendendosi un’altra sigaretta.

    «Dai Jack, non fare il sarcastico. Una delle vittime si chiama David Keaper. La casa è sua. Credo fosse il vero bersaglio dell’assassino. L’altra vittima invece non è ancora stata identificata ed è nell’ingresso.»

    Jack si cala sempre di più nella parte. «Come sai che la seconda vittima è un bersaglio casuale o fortuito?»

    Warbarsky risponde scrollando le spalle. «Perché è intera.»

    Jack inarca le sopracciglia, sorpreso.

    «Comunque adesso potrai renderti conto da solo. Noi siamo arrivati da poco. Non abbiamo toccato niente e permesso a nessuno di farlo.»

    Cage lancia un’occhiata all’ambulanza dei paramedici parcheggiata a cavallo del piccolo marciapiede prospiciente l’abitazione. «La scientifica invece sta arrivando.» Prosegue Warbarsky.

    Il l’ispettore di polizia si arresta pensieroso sul posto. «Piuttosto, tu che ci fai qui? Come hai fatto a sapere di questo casino? E perché l’FBI si interessa al caso?»

    Jack espira una nuvola di fumo biancastro. «Il capo dipartimento, Soren. Mi ha avvisato lei. E stai tranquillo, sono qui solo in veste di cortesia. In via ufficiosa, diciamo.»

    Il poliziotto sovrappeso sgrana gli occhi. «Helen Soren ti ha chiamato? Dev’essere davvero grave si ti ha contattato lei di persona. E proprio te!»

    Jack coglie la palla al balzo per il più facile degli sfottò. «Si, sai come sono le donne. Mi ha detto che non può vivere senza di me, che mi ama alla follia, che vuole darmi un figlio.»

    «Si, come no. Stai attento Jack. Quella vuole la tua testa.» Gli fa eco Warbarsky come si farebbe ad un figlio.

    «Ma non mi dire. Va bene, dai. Fammi vedere cos’è successo qui. Se sono fortunato è banale lite domestica e tolgo il disturbo.» Risponde Jack lanciando via il mozzicone ed incamminandosi verso una squallida villetta circondata da un nugolo di poliziotti ed una ragnatela di nastri gialli.

    4

    La classica casetta da quattro soldi. Assolutamente anonima. Come ce ne sono milioni. 

    Una di quelle villette monofamiliari a schiera, intrappolata tra altre identiche, come celle in un carcere. 

    Piano interrato, piano terra e primo piano. Senza portico, senza balconi, con un cortiletto minuscolo sul retro e con i suoi tre gradini davanti alla porta di ingresso che tentano di dare signorilità senza riuscirci. 

    Sulla facciata si incastonano, come lineamenti sul volto di un vecchio, una semplice porta e due finestre, ciascuna su un lato dell’uscio, dalle quali Jack intravede delle tende viola a motivi floreali.

    -Che tende orribili.- Pensa l’agente speciale con una smorfia.

    Ai piedi della villetta si stende moribonda una striscia d’erba che divide il marciapiede dall’abitazione. È talmente piccola che verrebbe da pensare sia cresciuta spontanea sul cemento. 

    Le piante sembrano non aver mai visto un goccio d’acqua.

    -Se non altro sappiamo che la vittima non faceva il giardiniere.- Pensa Jack con sarcasmo.

    Ancora prima di mettere i piedi sul primo gradino, si rende conto del perché la vicina di casa ha chiamato la cavalleria. Un uomo giace in posizione prona sul pavimento con i piedi che sporgono dall’ingresso e che impediscono alla porta di chiudersi.

    Cage sa che aprendo l’anta vedrà un cadavere. Ancora si ricorda il primo che vide. 

    Aveva solo dodici anni quando suo padre fu assassinato da un povero diavolo poco dopo aver prelevato trenta dollari ad uno sportello bancomat. Era uscito di casa col padre perché voleva un gelato a tutti i costi. Vi era rientrato con la voglia di diventare un agente dell’FBI. Dopo trentasei anni dal giorno della morte del padre ed una ventina a fare lo sbirro, i cadaveri non gli fanno più tanto effetto. 

    In tutta onestà adesso avverte un po’ di disagio, come una goccia di sudore che scivola lungo la schiena provocando brividi fuori stagione. Ha sensazioni diverse. Non è il solito caso di omicidio. 

    La morte richiede rispetto. Sempre. 

    Tuttavia quando gli eventi criminosi si riducono ad aggressioni di amanti gelosi, rapine per pochi dollari, vendette di consorti impazziti o raptus di ubriaconi con manie di persecuzione, è inevitabile vivere la vista di un cadavere con distacco. La violenza diventa abitudine. L’omicidio diventa routine. I cadaveri diventano il tuo lavoro e la scena del crimine si trasforma in un ufficio.

    Ma adesso c’è qualcosa che non va. Jack lo sente. Lo sa. Per la routine di tutti i giorni  forse è un bene. Finalmente una botta di vita. Tuttavia Jack sa che una sfida interessante per lui significa inevitabilmente un grande problema per tutti gli altri. Da quel punto di vista, sarebbe molto meglio se lui morisse di noia tutto il giorno.

    La porta si apre con facilità e ciò che vede è meglio di quanto  si aspettasse. Un uomo abbastanza alto, vestito sportivamente ma di marca, giace con il volto rivolto di lato, in posizione ordinata, composta. Il piccolo ingresso è un lago di sangue. Uno spettacolo impressionante per un profano. Assolutamente nella norma per lui. 

    Il cervello di Jack comincia a lavorare. -Il bastardo che lo ha ammazzato ce l’ha messo lui così. La porta doveva rimanere aperta. Voleva che trovassimo i cadaveri il prima possibile.-

    «Beh, Warbarsky, che cosa abbiamo qui? Chi è il fortunato?» Chiede Jack senza distogliere lo sguardo dal cadavere che giace ai suoi piedi.

    «Non lo sappiamo ancora, Jack. Non ha con sé documenti.» Risponde il poliziotto.

    «Maschio bianco adulto. Probabilmente facoltoso visti i suoi vestiti firmati. Un metro e ottantacinque circa. Più o meno novanta chili di peso. Capelli castani. Cazzo, Jack, i suoi occhiali costano più del mio stipendio.»

    «Già. Te l’ho sempre detto che il poliziotto è un mestiere di merda, Ethan.» Commenta ironico Jack. «Occhi? Togligli gli occhiali da sole. Mi piace vedere la gente in faccia, anche se cadavere.»

    «Certo.» Warbarsky si china per rimuovere gli occhiali dal volto della vittima con la mano guantata di lattice. «Cristo Santo!»

    Gli occhi non ci sono. 

    «Jack, m.. ma.. Ma gli han cavato gli occhi!» Sussurra sbigottito l’agente dal colorito eccessivamente pallido.

    «Già. L’ho notato. Probabilmente l’ha ammazzato prima. L’ha steso per terra e, a giudicare dal sangue che c’è qui, gli ha fatto il simpatico scherzetto proprio in questo punto.» Ipotizza il detective dell’FBI.

    «Resta solo da capire che ne ha fatto degli occhi. Se li è portati via o sono ancora qui?» Jack comincia a guardarsi intorno.

    «Ha voluto con sé un trofeo di caccia o preferisce mandarci un messaggio?» Chiede Jack retorico all’ispettore Warbarsky.

    «Bene Ethan, avvisa i tuoi. Un milione di dollari a chi trova gli occhi di questo povero Cristo.»

    5

    Jack decide che è il momento per un’altra sigaretta. L’accendino con serigrafia mimetica non vuole funzionare. -Devo ricordarmi di ricaricarlo.- Quando finalmente lo Zippo si accende, un tonfo dalle scale lo fa sobbalzare. Un poliziotto, anzi, un ragazzino di vent’anni che gioca a fare il poliziotto, sta vomitando sull’interpiano delle scale.

    -Mi sa che è ora di farsi un giro al piano di sopra.- Pensa Jack.

    Il detective brucia il tabacco pressato ed aspira una boccata di gusto. Il fumo caldo al sapore di nicotina gli penetra nei polmoni.

    «Warbarsky, fammi strada. Andiamo a vedere il pezzo forte.» Esorta Jack indicando il piano superiore.

    «Mi spiace ragazzo, non sono neanche le sette e ho già vomitato tre volte stamattina. Mi sono bastate.» Replica il sergente di polizia portandosi una mano allo stomaco.

    «Comunque è facile. Segui il sangue e trovi il tuo uomo. O almeno ciò che ne resta.» Jack aggrotta la fronte osservando divertito il grassoccio poliziotto.

    Ethan Warbarsky. Un bravo sbirro, di quelli sempre disponibili. Ligio al regolamento. Comportamento impeccabile. Divisa pulita. Distintivo che luccica. Voti eccellenti all’accademia. Il classico uomo che vive con passione il proprio lavoro. Passione seconda solo a quella per gli hamburger e per le ciambelle. Il primo a giungere in ufficio. Il primo ad arrivare sulla scena del crimine. Il primo ad offrirsi volontario. Uno di quegli uomini che gode nel fare l’eroe. Insomma, quel genere di poliziotto che è il primo a morire.

    «Va bene, Warbarsky. Vedi di capire chi è il tizio all’ingresso, io vado su.» Lo tranquillizza Jack con un paio di pacche sulle possenti spalle.

    L’ingresso è piccolo, con uno specchio macchiato sulla sinistra e un orrendo portaombrelli d’ottone. Poco più avanti, sempre sulla sinistra, una cucina microscopica. Di fronte ad essa, sulla destra, un piccolo salotto. 

    La tappezzeria beige con motivi floreali che riveste il corridoio sembra di un secolo fa e il sangue è praticamente dappertutto. 

    Il salotto invece è quasi immacolato. -Qui dentro non è neanche entrato.- 

    Con lo sguardo il detective segue intermittenti macchie di sangue che conducono in cucina -Di qua invece ha trovato gli attrezzi che gli servivano.- Pensa Jack. 

    Timide di fronte all’ingresso ci sono le strette scale che portano al primo piano e all’interrato. Jack imbocca senza fretta la rampa in salita. Dopo aver dispensato banali frasi di incoraggiamento al poliziotto mortificato all’interpiano, il detective svolta sulla rampa di scale e si prepara al peggio. 

    Il piano superiore è la copia del piano terra. Corridoio, bagno sulla destra, camera sulla sinistra. Al contrario del piano inferiore, è immerso nella penombra. 

    La scia di sangue che parte dall’ingresso e prosegue sulle scale, conduce direttamente in camera da letto.

    -Un bel respiro, via!-

    Il tempo sembra fermarsi. L’odore stantio di chiuso mescolatosi a quello del sangue colpisce Jack con la potenza di un maglio. Complice la temperatura anomala di un Giugno torrido, la putrefazione si è già innescata. Impossibile non voltarsi e non coprirsi il naso col braccio.

    -L’odore della morte. Non mi ci abituerò mai.- Pensa Jack strizzando gli occhi e tossendo leggermente.

    La stanza è nella semioscurità. Le tapparelle quasi del tutto abbassate lasciano filtrare solo sottili aghi di luce. Jack prova ad azionare l’interruttore ma la lampadina in camera è stata divelta con tutto il lampadario.

    Il locale è grande, quadrato ed ordinato. All’angolo sinistro della camera c’è un letto matrimoniale le cui lenzuola bianche con motivi geometrici sono immacolate. Adiacente l’ingresso alla stanza c’è un divanetto di pelle marrone, probabilmente sintetica, e di fronte ad esso un mobiletto piuttosto malconcio sul quale poggia una vecchia televisione a tubo catodico. Una sedia con la seduta in vimini è riversa a terra. 

    Il corpo grasso e cereo di David Keaper è sul divano. Seduto composto, come un’inquietante vecchia bambola di ceramica. Le mani sono giunte all’altezza dell’addome. Indossa solo mutande biancastre lorde di sangue. 

    La vittima è decapitata e completamente squarciata dal collo alla cinta. Il taglio è netto e ben divaricato. A distanza di qualche metro, Jack è in grado di distinguerne gli organi interni. Le viscere sono scivolate per gravità all’esterno della salma straziata e si sono riversate tra le mani senza vita del povero Keaper, come se quel corpo inerme non volesse lasciarle andare via.

    A Cage ricorda un orrendo fiore sbocciato con troppa foga.

    La testa del cadavere è posizionata sul televisore al lato opposto della stanza, rivolta verso la vittima. I capelli sono intrisi  di sangue raggrumato. Gli occhi sono spalancati, quasi provassero ancora orrore per la scena grottesca che si para loro davanti. 

    Come il corpo mutilato al quale era attaccata, è invasa da uno sciame di mosche. La scena è stomachevole e il ronzare degli insetti sembra insinuarsi nelle orecchie dolorosamente.

    -Che bel banchetto.-

    Jack deve sforzarsi. Sa che le prove sono lì, nascoste dall’orrore. Deve solo concentrarsi e cominciare a cercare.

    6

    Non ci sono prove macroscopiche. Niente armi, niente indumenti, niente impronte, niente oggetti. Nulla che sia riconducibile all’assassino. Senza la scientifica non si può azzardare nulla.

    -Ma dove cazzo sono quei topi da laboratorio?-

    Poi un dettaglio, un particolare. In camera, su una mensola dietro al divano c’è un pacco regalo, con nastro d’argento e un biglietto d’auguri. Jack si avvicina estraendo il coltello a serramanico che tiene sempre con sé dai tempi del corso d’addestramento dell’FBI. Calza i guanti in lattice bianchi e con la lama del coltello apre il biglietto allegato al pacchetto regalo. Dentro vi legge la data corrente e gli auguri di buon compleanno stampati. I caratteri sono quelli incerti di una vecchia macchina da scrivere.

    «Ethan!» Urla Jack affacciandosi fuori dalla camera da letto con il pacchetto in mano. 

    «Dimmi Jack!» Risponde Warbarsky dal piano sottostante. 

    «Come hai detto che si chiama questo ciccione?» Gli domanda il detective urlando ancora più forte.

    La voce dell’agente giunge anch’essa più alta. «David Keaper!». 

    «Scommetto cento dollari che oggi è il suo compleanno!» Lo sfida Jack.

    Alcuni secondi di silenzio. «Cazzo! Sì hai ragione Jack. Quarant’anni precisi!» Replica Warbarsky.

    -Beh, vediamo che ti hanno regalato, David.- Pensa Jack scartando il pacchetto. 

    L’effetto sorpresa è notevole. Il detective lo sospettava sperando di sbagliarsi.

    «Ethan!». Nessuna risposta. «Warbarsky!» Urla Jack.

    «Dimmi tutto!»

    Jack ridiscende le scale lavorando velocemente con la mente. Raggiunge l’ingresso dove lo attende l’amico e collega.

    «Ho vinto un milione di dollari.» 

    «Cosa?» Risponde Warbarsky già dimentico della scommessa lanciata dal detective poco prima.

    «Ho trovato gli occhi di questo tizio a terra.» Confessa Jack aprendo il pacchetto rinvenuto al piano superiore. «Adesso mi devi un milione e cento dollari».

    «Per la miseria. Jack, ma che cavolo è successo qui?» Commenta  inorridito il poliziotto.

    «Le ipotesi sono tante, anzi troppe. Per abbozzare un storia che abbia senso dobbiamo aspettare il rapporto della scientifica.» 

    Jack osserva l’uomo prono nell’ingresso. Si avvicina alla vittima e gli si accuccia in ginocchio vicino al capo.

    «Una cosa è sicura Ethan, questo poveraccio non doveva morire. È capitato qui per caso.» Dicendolo afferra con la mano destra il volto straziato della vittima.

    Ma c’è qualcosa che non va. Un dettaglio che non riesce a carpire, a percepire. Sa che c’è qualcosa fuori posto ma non capisce cosa. Poi una folgorazione. Il suo orologio si è girato. E’ all’interno del polso ed è rivolto verso il naso dell’uomo. 

    È appannato.

    -Ma porc..-

    «Cazzo!» Urla Jack.

    «Cage.. che cos..»

    «Chiama i paramedici Warbarsky, subito!»

    «Ma, ma..»

    «Muoviti!» Jack sta urlando sempre più forte. «Quest’uomo è ancora vivo!»

    7

    Sono passati quattro giorni. Tanti per un detective in cerca di risposte. Troppi per Helen Soren, capo divisione dell’FBI, che non fa altro che tempestarlo di telefonate.

    -Quanto odio quella stronza.- L’intercalare preferito di Jack.

    Quante ipotesi, quanti possibili scenari. Troppi. 

    L’agente Cage è di fronte alla porta della stanza numero ventitré del Mount Sinai Hospital. Terapia intensiva. Jack è conscio che dovrà interloquire con un uomo al quale pochi giorni fa sono stati strappati via gli occhi. Dovrà essere cortese. Dovrà approcciarsi in modo delicato, gentile. Si sprecherà in complimenti di rito e lo adulerà per quanto è stato bravo, forte, deciso, resistente. 

    Insomma dovrà dirgli quale grande ed incredibile eroe dei giorni nostri è diventato, anche se sa benissimo che non è nulla di tutto questo. -Ha avuto un culo pazzesco. A quest’ora dovrebbe essere morto.-

    Cage sa che le variabili sono ancora troppe. È indubbiamente di fronte ad un killer seriale, altrimenti il coinvolgimento dell’FBI non si giustificherebbe. Ma oltre alle solite definizioni e catalogazioni di rito non c’è nulla di interessante.

    -Basta, è inutile. Tra un’oretta mi chiamerà la scientifica e forse entro sera riuscirò a parlare con il cieco. Dopo ci penserò sopra. Adesso ci vuole una bella sigaretta.-

    Jack ce l’ha già in bocca ed è con l’accendino in mano quando incrocia lo sguardo di un’infermiera a pochi passi da lui. È davvero carina. Minuta, con le lentiggini, capelli neri raccolti e occhiali sul naso. Una targhetta con scritto Annie è appuntata sul grembiule. 

    «Non ci provare nemmeno.» Esordisce l’infermiera. 

    -Autoritaria la ragazza.- Ammette Cage.

    «Siamo in un ospedale. Un detective dovrebbe sapere meglio degli altri come ci si comporta qui.»

    -No, non autoritaria. Rompipalle!-

    I loro sguardi si incrociano, si sfidano. Jack non fa in tempo a controbattere quando il suo cellulare comincia a squillare.

    «E non si potrebbe neanche tenere il telefono acceso!» Incalza l’infermiera.

    «Sì, mamma.» Sussurra Jack, alzandosi ed uscendo dal reparto.

    «Cage.» Risponde Jack sbuffando.

    «Ciao Jack, sono Warbarsky.»

    «Dammi solo buone notizie, Ethan.» Risponde il detective stirandosi il collo.

    «Beh, io ti do un nome, se è una buona notizia decidilo tu. Guillaume Lacroix.»

    «Guillaume Lacroix?» Ripete Jack, non capendo.

    «Si. Il tuo uomo senza occhi si chiama così.» Precisa Warbarsky.

    «E’ francese ma vive nella nostra amata città da cinque anni circa. Abita in centro, su Lexington avenue. Si guadagna da vivere facendo l’artista, lo scultore per la precisione. E direi che visto dove vive e il conto in banca, dev’essere anche molto bravo.»

    «Da quando ti intendi di scultura Warbarsky?» Domanda sarcastico Jack.

    «Non me ne intendo proprio per niente. Per me quella roba è tutta uguale. Convincendomi però che è bravo, riesco a digerire meglio l’assurdo che quello che io guadagno in un mese lui lo vede in neanche un giorno.» Risponde rassegnato il poliziotto.

    «Beh, non credo che lo vedrà più.» Risponde Jack sorridendo tristemente.

    «Già. Ad ogni modo è stata dura trovare informazioni su questo tizio. I suoi dati generali li abbiamo recuperati dai nostri database con l’aiuto dei suoi documenti ma per il resto sembra non abbia legami. Non lo conosce nessuno, non ha una compagna, né parenti. Anche nel suo condominio sembra che nessuno lo abbia mai visto.»

    «E come la vende la sua roba?» Chiede Jack.

    «Come la metà del mondo fa nel ventunesimo secolo, su internet.» Replica Warbarsky.

    «Va bene, chi se ne frega. Tanto a me interessa solo quello che ha da dirmi del suo aggressore.» Sbotta Cage.

    «Jack, fai il bravo con lui. Dopo quello che gli è successo, ha perso tutto.» Gli rimprovera Warbarsky come si farebbe con un bambino colpevole di aver preso in giro un compagno di scuola.

    «Sì, capo scout Warbarsky. Farò il bravo.» Ammette Jack. -Il mio nemico è un altro.-

    «Ancora una cosa Jack. Il rapporto della scientifica è praticamente pronto. Te ne ho fatta lasciare una copia su quel porcile della  tua scrivania in dipartimento.» Lo punzecchia il poliziotto.

    «Warbarsky, non  ti ci mettere anche tu.» Controbatte Jack rivivendo le lavate di capo di Helen Soren.

    «Jack, è mio dovere dirti che un tutore della legge dovrebb..»

    Click.

    -Ops, è caduta la linea. Che palle, tutte le volte la stessa storia.-

    Jack sta pensando al da farsi quando un uomo in camice bianco gli si fa incontro. «Detective Cage?»

    «Sì.» Risponde Jack.

    «Piacere sono il dottor Kramer. Mi ascolti. Mi ascolti con molta attenzione.» Lo incalza il dottore puntandogli il dito contro.

    -Ma che vuole questo secchione adesso?- Pensa Jack irriverente.

    «Ovviamente sono contrario ad un suo colloquio con quel poveretto. In questo momento ha bisogno solo di riposo assoluto. Dato però che so perfettamente che non mi darà retta, la prego almeno di non stressarlo troppo. Dovrà parlare lentamente e a bassa voce e per non più di un quarto d’ora. Mi ha capito bene?»

    Lo sguardo del dottore da dietro gli occhiali calati sulla punta del naso è severo. A Jack ricorda il suo professore di matematica.

    -Quello stronzo in cinque anni non mi ha mai dato una sufficienza.- Pensa Jack rivivendo i tempi del liceo.

    «Si, dottore, sarò più delicato della fata turchina.» Risponde Cage alzando le sopracciglia.

    «Lo spero bene.» Risponde il medico socchiudendo gli occhi con aria minacciosa.

    -Inutile che mi guardi così.- Pensa Jack tra sé e sé. -Non faresti paura nemmeno all’orso Yogi con quella faccia.- 

    Jack si incammina verso il reparto sorridendo. -Quasi quasi dopo ti arresto senza motivo. Voglio proprio vedere se mentre ti ammanetto fai ancora le espressioni alla Rambo.- 

    Cage entra nella stanza numero ventitré e trova Guillaume Lacroix sotto una tenda ad ossigeno. L’aria è intrisa dell’odore di alcool, soluzioni fisiologiche e acqua ossigenata che permea ogni struttura ospedaliera del mondo. Quell’odore che ti coccola quando sei malato e che ti inorridisce scaramanticamente quando scoppi di salute. 

    Il malcapitato è davvero conciato male. Con tutte quelle bende in testa sembra una mummia appena uscita da un film degli anni sessanta. L’investigatore FBI estrae dalla tasca un registratore portatile. Lo accende.

    Scrutando l’oscurità Guillaume Lacroix rompe il silenzio con voce appena percettibile. «E’ lei detective?»

    «Sì, signor Lacroix.» Risponde Jack.

    «Beh, se non altro ci conosciamo già, detective Cage.» Mormora il  paziente con un filo di voce. 

    Jack osserva quell’uomo sdraiato sul letto. La postura è quella di un moribondo in procinto di abbandonarsi per sempre alle ingiustizie della vita. Tuttavia l’espressione in volto è serena. Libera da smorfie di dolore o rimorso.

    -Che forza immensa ha quest’uomo. Deve soffrire dolori atroci.- Pensa il detective. 

    Jack fa qualche passo verso il paziente, il quale volta la testa lentamente verso di lui guidato dal rumore dei suoi passi.

    -O forse di immenso c’è solo la dose di morfina.- Pensa Jack azzardando un’ipotesi più probabile per l’innaturale tranquillità del signor Lacroix.

    «Vorrei farle qualche domanda Guillaume.  Posso chiamarla Guillaume?» Rompe il ghiaccio Jack.

    «Certo che può. Anzi, deve. So che il dottore le ha chiesto di non stressarmi. È una cosa che in passato ho già visto fare. Beh, non gli dia retta. Mi faccia tutte le domande che vuole e per quanto tempo lo riterrà necessario. Voglio darle tutte le informazioni possibili per prendere quel figlio di puttana che mi ha conciato così. Fosse anche l’ultima cosa che faccio.»

    La voce di Guillaume Lacroix è lieve. Come un soffio d’aria che muove a malapena le foglie degli alberi. Lieve ma sicura. Convinta di quello che dice.

    «Bene Guillaume. Molto bene. Cominci allora. Se la sente di raccontarmi tutto ciò che ricorda?» Gli domanda Jack accomodandosi su una sedia a lato del letto.

    «Allora mi sa che faremo molto presto.» Replica Guillaume Lacroix. «Stavo rientrando a casa. Ero reduce dall’inaugurazione della nuova esposizione del Museum of Moving Images, il museo multimediale. Conosce?»

    «No, non ho il piacere.» Risponde Jack appoggiando il registratore sul comodino d’ospedale.

    «Purtroppo sono in tanti a non conoscerlo e io, diciamo così, non ho tanti amici. E anche se li avessi, non mi avrebbero accompagnato lo stesso.» Continua Guillaume con un accenno di sorriso.

    «Beh, se fossero veri amici sarebbero venuti comunque.» Puntualizza Jack.

    «Ne è sicuro? La mostra espone le opere di un artista sud coreano consistenti in frenetici susseguirsi di immagini sincronizzate a ritmo di jazz, detective.» Precisa Guillaume.

    «Ah. Ha ragione allora. Sarebbe andato da solo comunque.» Si arrende Jack.

    «Già. Ad ogni modo la temperatura era gradevole e ho pensato di fare due passi prima di rientrare a casa e casualmente sono passato davanti all’abitazione di quell’uomo.» Prosegue il signor Lacroix.

    «David Keaper?» Domanda Jack.

    «Non saprei. So solo che era grassissimo. Ad ogni modo aveva un’aria triste, sofferente. È uscito dalla macchina a fatica. Si trascinava sui piedi. Mi ha guardato e poi è entrato in casa.» Risponde Guillaume gesticolando leggermente con la mano come ad allontanare qualcosa.

    «E poi cos’è successo?» Incalza Jack.

    «Ho notato qualcosa di strano. Non ha chiuso la porta di casa. Ho fatto un bel po’ di metri ma ha continuato a lasciare la porta semiaperta.» Guillaume si interrompe, come a voler fare mente locale per non tralasciare nulla.

    «Ho pensato ad un malore. Ho pensato di aiutarlo. Forse si era semplicemente dimenticato di chiudere la porta e visto la gente che c’è in giro, mi sono sentito in dovere di avvisarlo.»

    Jack ascolta e sente la voce di Guillaume tremare. 

    -Non saresti dovuto tornare indietro signor Lacroix, non avresti potuto salvarlo. L’assassino l’aveva scelto, era il suo predestinato. Era già morto, solo che ancora non lo sapeva. Ma tu, tu ti potevi salvare.- Pensa Jack osservando il suo interlocutore disteso.

    «Ricordo che mi sono avvicinato, che ho salito le scale di ingresso e ho aperto la porta.» Prosegue Guillaume.

    «E nient’altro?» Lo interroga Jack.

    «Era buio, molto buio. C’era una sagoma a terra e credo che fosse l’uomo grasso. E non vorrei dirle una stupidaggine, ma credo fosse senza testa. Non ho fatto neanche in tempo a stupirmene, ad assimilare ciò che vedevo che ho sentito un dolore tremendo alla nuca. Da quel punto in poi, non ricordo più niente.»

    Il fisico provato di Guillaume Lacroix si rilassa. La mano non gesticola più e la testa si abbandona sprofondando nel cuscino. 

    -Poveraccio. Deve costargli parecchio sforzo parlare. O forse è il ricordo di quello che è accaduto.- 

    «Lei ha visto bene, Guillaume. David Keaper è stato trovato decapitato. È un miracolo che lei sia ancora vivo». Dichiara Jack appoggiandogli la mano sull’avambraccio per fargli coraggio.

    «Detective Cage, credevo che i miracoli migliorassero lo stato delle cose. Mi guardi bene, le sembro un miracolato?»

    Guillaume tace. Gli tremano le labbra e le mani. Jack sa che se avesse ancora gli occhi, adesso starebbe piangendo.

    Quasi supplicando e con la voce rotta dalla disperazione Guillaume Lacroix si rivolge a Jack. «Se esiste una giustizia detective allora chi mi ha fatto questo deve pagare. Lo trovi Cage, lo trovi.»

    «Lo troverò Guillaume, abbia fiducia.» Lo conforta Jack serrando energicamente la mano intorno al polso dell’uomo.

    «Lo so.» Afferma il signor Lacroix con tono deciso. «Ne sono sicuro.»

    8

    La chiacchierata con il signor Lacroix ha lasciato il segno.

    Jack era convinto che si sarebbe confrontato con un uomo disperato, piagnucolante, moralmente e psicologicamente distrutto. Una vittima. 

    Invece Guillaume Lacroix lo aveva stupito con la sua forza e la sua tenacia. Un uomo con un suo onore che non era disposto ad arrendersi ma piuttosto a vendicarsi.

    Jack sa che braccare un omicida seriale è un continuo e frenetico inseguimento. Avere Guillaume Lacroix dalla propria parte riduce di molto lo svantaggio. Il detective avrebbe fatto fruttare quell’inatteso regalo e avrebbe garantito vendetta alle vittime. Purtroppo una sola di loro avrebbe potuto apprezzarla.

    -Dovrò tornare a trovarlo presto. La pista di Lacroix ha ancora tante storie da raccontare e tanti dettagli da svelare.- 

    Jack è consapevole che, quando si

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