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L'assedio di Asola 1516: La morte di Riccino Daina 1522
L'assedio di Asola 1516: La morte di Riccino Daina 1522
L'assedio di Asola 1516: La morte di Riccino Daina 1522
Ebook134 pages1 hour

L'assedio di Asola 1516: La morte di Riccino Daina 1522

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About this ebook

L’Autore prende lo spunto da un avvenimento storico. Nella primavera del 1516 l’imperatore Massimiliano I° d’Asburgo scende dal Tirolo verso l’Italia con un esercito di 25.000 lanzi appoggiato da forti artiglierie. Intende contrastare i francesi che occupano Milano. Superata Montichiari, si dirige su Asola, alleata di Venezia. Vuole conquistarla per non lasciarsi alle spalle un potenziale nemico. Asola, fortezza presidiata da truppe venete, resiste per tre giorni e alla vigilia di Pasqua l’imperatore rinuncia all’assedio per non perdere altro tempo e si dirige verso il suo obiettivo, Milano.
Anima guerresca della difesa è Gian Francesco Daina, detto Riccino, condottiero asolano che conduce truppe a cavallo in difesa della sua città. Anni dopo nel 1522 verrà ucciso a Ghedi da un traditore al soldo dei Gonzaga di Mantova, avversi a Venezia, che vorrebbero impadronirsi di Asola.
Sulla vicenda a volte tenebrosa si intrecciano le avventure e gli amori immaginari di due fanciulle entrambe orfane che si conoscono durante l’assedio e diventano grandi amiche. Coinvolte in episodi talora comici, talora sentimentali, oppure drammatici e sofferti, vivono la loro storia d’amore.
LanguageItaliano
Release dateNov 1, 2016
ISBN9788868671297
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    L'assedio di Asola 1516 - Augusto Bolther

    Asola

    PRIMA CANTICA

    È una figura indistinta, ondeggiante, nell’ultima luce di una giornata che si sta spegnendo. Segue, di tanto in tanto, la riva sinistra del Chiese, dall’ordinata campagna di Camporegio alle prode boscose del fiume, spesso celata dai larghi tronchi dei pioppi, degli olmi, rivelandosi a tratti, quasi nel desiderio di mostrarsi per un’ultima sfida ai bagliori rosseggianti che muoiono lontano.

    Segue il fiume, si avvicina ad Asola, ma ora non è più sola, un’altra l’accompagna, altre ancora le si accostano, sorgono dall’acqua del fiume, risalgono la riva e procedono verso il paese che non è lontano.

    Figure che sembrano incappucciate o di uomini armati, di contadini con vanghe, falci, zappe, o mercanti, gli occhi astuti, i volti sfuggenti, arrancando con ostinata intenzione.

    Difficile capire, mentre le ombre vengono dal fiume, invadono ogni spazio, che siano uomini o donne, anche se a tratti l’occhio è percosso dalla visione di braccia candide, dalla luce improvvisa di uno sguardo abbagliante, forse un sorriso, forse un lampeggiare di collera, ma non si può capire se è vero o se la sera, umida e fredda, sta giocando all’accesa fantasia uno scherzo, prima che la notte si chiuda nella sua immobilità minacciosa, silente.

    Un mormorio sale dal fiume, voce d’acqua gorgogliante, sommesso gracidare, sciabordio lungo la riva di infinite gocce che vorrebbero aggrapparsi, risalire tra l’erba umida, farsi di nuovo linfa e foglia, infine deluse cedere, abbandonandosi alla corrente, mentre un suono sembra prendere forma, sommessa consistenza di canto.

    Non una, sono tante, nell’ombra sempre più folta che ora tenace si aggrappa agli alberi, le voci si uniscono come lingue che conservano la consistenza di un fuoco, l’imprevedibile mobilità di una fiamma.

    Ora è notte fonda, ma nel buio una struggente cantilena sembra sostituirsi al tempo, segnare con il suo ritmo il trascorrere delle ore, le pause d’istanti immobili in cui tutto pare sospeso al tremolare di un’unica stella incredibilmente apparsa tra le nubi, lacrima di pianto prossima a cadere.

    Nella notte le figure perdono consistenza, nebbiose, smarrite vagano tra le fronde, si muovono verso Asola sospinte da un vento leggero e una carezza gelida pare sfiori come un brivido improvviso la nuca dell’ignaro passante.

    Vanno, conservando apparenza di moto, sciogliersi di membra irrigidite, vengono su rapide, incalzanti, hanno superato il ponte, si affollano lungo i portici, processione disordinata e confusa che avanza, ritorna sui suoi passi, raggiunge la piazza attorniando la fontana, infine, come di soppiatto, striscia sotto le porte serrate della chiesa, si introduce tra i banchi, sale alla cantoria dell’organo che sembra emettere un sospiro, è sul pulpito ora assemblea raccolta, assiepata in ogni angolo, appoggiata a quei muri, a quelle colonne che tante mani hanno sfiorato, sguardi percorso, mentre le preghiere invocavano quei santi che gli scalpelli hanno decapitato, mutilato, sostituendoli con macchie impassibili di calce, di sabbia.

    Sostano assieme le ombre, in attesa, mentre la campana recita i dodici tocchi e tutto improvvisamente sembra svanire nello spazio muto.

    INVERNO

    Si era presentato subito male quell’anno del Signore 1516, con un volto malevolo e maligno, accompagnato da gelidi venti settentrionali che battevano una campagna precocemente inaridita, già dimentica delle piogge autunnali, spaventata da un cielo perennemente arcigno, costantemente coperto da nembi forieri di sciagure, di tempeste.

    Infatti, quasi subito, la neve aveva cominciato a cadere da quel volto costantemente ostile, con ritmo vorticoso, tra sibili e raffiche che scuotevano tetti malfermi e imposte mal chiuse.

    Non la dolce neve di annate già lontane con suono di campane e zampogne, fanciulli lieti nell’attesa di feste foriere di piccoli doni, cene illuminate dalla morbida luce delle candele, ogni cosa ordinata e composta nelle povere case, esultante e sfarzosa nelle dimore dei ricchi.

    Era invece il gelo, l’angoscia dei condannati che vedono preclusa ogni speranza e la loro triste, infinita pazienza colpevole. La neve caduta si trasformava subito in una polvere impalpabile, inadatta ad essere compattata in forme o figure e si staccava subito dalle mani lasciandole anchilosate, esangui.

    I ragazzini andavano insieme agli adulti durante le ore del giorno a raccogliere ramaglie e sterpami affioranti da quella coltre gelida e tornavano mesti alle case con le vesti umide, i piedi intorpiditi, bisognosi di calore, di carezze.

    Si era verificato in quei giorni un avvenimento insolito, che aveva destato sorpresa e stupore, trasformati poi in paura e sgomento.

    Durante una notte di bufera era avvenuto che un asino aggiogato a un carretto cui si era rotto l’asse centrale avesse tirato quell’arnese guasto fino alle prime case fuori Asola. La povera bestia, sfinita, si era trascinata fin lì, per fermarsi infine al mulino, la cui ruota immobile stava come sospesa sulle acque ghiacciate del canale.

    Al mattino le prime ad accorgersene furono le donne che si chiamavano l’un l’altra quasi timorose di avvicinarsi a quel convoglio privo di conducente. Infine una di loro più decisa o più curiosa si era affacciata a una sponda, aveva rimosso dei sacchi sporchi di polvere nera, rappresa e sotto questi era apparso un grosso archibugio rugginoso, massiccio.

    A quella vista tutte si erano tirate indietro impaurite e subito una era corsa affannata alla rocca chiedendo del castellano. Un breve corteo di armati si era recato sollecito sul posto. Dopo breve consulto si era accertato che l’asino aveva una profonda ferita a una coscia, il carro era inservibile, l’archibugio, guasto in alcune sue parti, forse non avrebbe più potuto sparare.

    Posto il tutto sotto sequestro, la voce dell’avvenimento si era diffusa nella cittadina, valicando le solide mura e si era via via ingigantita.

    Era evidente che il carro doveva essere appartenuto a dei briganti che si proponevano qualche impresa furfantesca, l’attestavano l’archibugio e quei sacchi anneriti come le anime di coloro che avrebbero dovuto usarli per fasciare gli zoccoli dell’animale o forse indossarli per un ratto, un assassinio, chissà.

    Da dove veniva il traino, impossibile scoprirlo: la neve caduta aveva cancellato ogni traccia, né giovarono rapide inchieste presso i vicini paesi della Bassa Bresciana tutti sospettati di connivenza con i malfattori.

    Da quel momento si diffuse soprattutto tra gli abitanti fuori le mura una sensazione di pericolo incombente, di gelo e al primo calar delle ombre subito si serravano gli usci, si controllavano le finestre, ci si accertava che in casa tutti fossero rientrati e nessuno, uomini o animali. mancasse all’appello.

    Chi possedeva più consistenti beni era preda di maggior timore, ma tutti si guardavano attorno con cautela.

    Sarebbe pur finito quell’orribile inverno. Sarebbe tornata la Pasqua ad annunziare la lieta novella, a riaprire i cuori alla speranza.

    IN ATTESA DEGLI EVENTI

    Altri pensieri più gravi, più concreti e pressanti turbavano le fronti dei maggiorenti della città.

    Da pochi anni, per la seconda volta e non senza passaggi dolorosi e significativi, Asola si era decisamente liberata da ogni vincolo di sudditanza verso quelle signorie che a lei guardavano come una bella preda, una città forte, orgogliosa, ricca e nobile, difesa dalla sua rocca, da mura affacciate su ampi canali, da quelle acque della Fossa Magna fatta scavare da Barnabò Visconti perché proprio accanto alle ultime case defluissero sui ghiaieti del Chiese.

    Chi potrebbe riconoscere oggi, sciogliere in un mondo massificato, le vicende umane di tanti che combatterono in opposte fazioni, offersero vita e averi a una causa, seppero amare libertà e patria in quel mondo che conosceva soprattutto la forza dei potenti, la fortuna degli inetti, il facile ossequio servile atto a risolvere ogni problema con una sola parola Comanda ben sapendo che l’obbedienza tacita avrebbe avuto il suo compenso?

    In quella società frammentata ognuno sentiva la necessità di difendere la propria casa, i figli, gli averi e sceglieva per questo le vie più facili, i mezzi più opportuni. Società imperfetta e tuttavia governata da regole, con uomini che si affannavano a costruire e a distruggere, cercando un ordine supremo, eterna illusione, fonte di troppa ingiustizia.

    Asola voleva affrancarsi da tutto questo, memore delle antiche prepotenze dei Visconti e di quelle più recenti dei Gonzaga, voleva essere finalmente governata da chi non aveva bisogno di imprigionare o ridurre a servi i suoi figli migliori e nello spazio di un secolo aveva ripetutamente rovesciato le proprie sorti.

    Nella Serenissima già nel 1426 poi nel 1440 aveva trovato il proprio baluardo, accettando il governo di magistrati veneti e suscitando l’invidia dei vicini più deboli, ergendosi a guida e simbolo di quella Quadra comprendente una decina di Comuni a lei collegati.

    La successiva

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