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Ebook853 pages12 hours

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About this ebook

Mi chiamo Violet Asmara, ho sedici anni e sono una Virtual
A quest'età voi andate a scuola, alle feste e pensate al futuro, mentre noi, da quando ci avete conquistati e pretendete sacrifici sempre più grandi, molte volte non ne abbiamo nessuno. Vi siete presi le Città Sorelle e molte delle loro risorse. Vi siete presi la nostra dignità, lasciandoci nella paura di un nuovo conflitto. E, soprattutto, ogni mese vi prendete il primogenito di ogni famiglia, costringendolo a passare alla sua forma digitale per entrare in uno dei dieci videogiochi che avete progettato per noi.
Per cinque anni siamo nelle vostre mani, un personaggio che guidate a piacimento in una versione crudele di una casa delle bambole. Abbiamo cinquanta Vite. Se ce le facciamo bastare, possiamo tornare a casa. Altrimenti, siamo morti per evitare una guerra.
Ho sedici anni, e ora è il mio turno. Non verrò assegnata alle Oasi per bambine, non sono il tipo adatto. Dan lo era, e LORO lo hanno ucciso. Il mio destino è l'Oasi degli Eroi, di cui nessuno ha mai sentito parlare, dove interpreto uno dei Ruoli principali. Ma non ho intenzione di restare.
Devo riprendermi Dan.
Tirare fuori due amici a cui ho fatto una promessa.
Andarmene lontano, dove non mi potrete più trovare.
Dan diceva sempre: “ Tu sei Violet Asmara, e puoi fare tutto. ”
Non mi importa se ho una Vita sola.

Una narrazione con il ritmo di un videogioco per il primo romanzo della trilogia di Violet Asmara, che vi trascinerà in due mondi violenti, dalle tinte oscure, che costringono i personaggi principali ad incontrarsi, cambiando la storia.
LanguageItaliano
Release dateAug 19, 2016
ISBN9788822833884
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    Virtual - Martina Targioni

    Martina Targioni

    Virtual

    UUID: e59dc186-649c-11e6-961e-0f7870795abd

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice

    Mi chiamo Violet Asmara

    Una Vita sola

    Violet principessa

    Buio

    Non solo un bue infuriato

    C'è ancora speranza

    La Prova

    Prigioniera di un Ruolo

    Nuova Partita

    La regina dello Skyfly

    Diana

    La fuga

    Buco nel muro

    Aiutare un nemico

    Il piano di Diana

    Il tempo non esiste

    Solo un altro Livello

    L'incubo si ripete

    L'Eroina dell'Oasi

    Parole mai dette

    L'ultimo volo

    Braccia nella nebbia

    Un vero bacio

    Il prezzo della felicità

    Via le maschere

    Il mondo non è nostro

    Non è tempo di eroi

    Fiducia

    La lista dei ragazzi cattivi

    Il momento della verità

    Sensazioni da film

    Tra le mani il passato

    Aspettando un segno

    Uniti tra luce e ombra

    Esplosioni

    I proprietari dello Skyfly

    Ultima occasione per vivere

    Robot ignoranti

    Fare patti con Erik

    Capelli castani

    Io non vengo

    Scegliere di tornare

    Di nuovo insieme

    Buoni e Cattivi

    Gigante

    Tre colpi di pistola

    Cose importanti e fondamentali

    Un colpo solo

    Strade diverse

    Ringraziamenti

    Mi chiamo Violet Asmara

    Se mi vedeste per strada, probabilmente non mi distinguereste da una di voi.

    Non siamo molto diversi, in fondo.

    Non ho quattro occhi, le antenne, o quell'assurda pelle verde che vi ostinate a disegnare. Non sono venuta sulla Terra con una navicella circolare e ho lasciato in pace il vostro grano.

    Il più delle volte parlo la vostra lingua. Conosco i vostri libri, guardo i vostri film.

    Eppure, sono un'aliena.

    Mi chiamo Violet Asmara, e sono una Virtual

    Vorrei dire piacere di conoscervi, ma non è così.

    Naturalmente, non sto a spiegarvi chi sia la mia razza. Do per scontato che lo sappiate, visto che avete passato gli ultimi cinquanta anni a cercare di sottometterci. Da quando una sorta di collegamento si è aperto nello spazio, creando un contatto tra due mondi che altrimenti sarebbero stati troppo lontani tra loro, la nostra è stata guerra aperta. Eravate poveri, le vostre risorse stavano finendo. Noi eravamo un pianeta giovane, ancora pieno di potenziale da sfruttare. Materie prime, una tecnologia quasi viva, in stretto contatto con la nostra gente.

    Ci siete balzati addosso. Abbiamo combattuto. Avete vinto. Anche questo lo sapete, ma io voglio che lo sentiate dire da me. Troppe volte la storia è stata raccontata dal vostro punto di vista. D'altronde, i libri li scrivono i vincitori.

    Avete rinunciato a stabilirvi sul nostro pianeta, ma avete preteso molto in cambio di questa specie di libertà. Una parte delle nostre risorse... e le vite del nostro popolo. Il nostro governo non voleva cedervi il potere, e ha accettato. Chi ci comandava non era tanto migliore degli Umani: ci ha lasciato sotto il vostro dominio.

    Non ci sono troppe differenze tra me e voi. A parte qualche piccolezza, siamo praticamente identici.

    Però i primogeniti Virtual a sedici anni vengono assegnati ad un'Oasi, una realtà Virtuale costruita nel collegamento tra i mondi che ci imprigiona per cinque anni in uno dei vostri videogiochi. Il passaggio alla nostra forma tecnologica ci consente di avere cinquanta Vite a disposizione, ma vi assicuro che non sono sufficienti, se ogni giorno sei costretto a ripetere i letali Livelli che voi amate tanto.

    Per cinque anni, siamo nelle vostre mani.

    Se riusciamo a sopravvivere, al termine del nostro servizio militare possiamo tornare a casa e riprenderci le nostre vite.

    Altrimenti, siamo morti per il nostro paese.

    All'inizio venivano fatte delle statue per commemorare queste persone, ma le piazze si sono rivelate troppo piccole.

    Mi chiamo Violet Asmara, e ho sedici anni.

    Sono la figlia del Presidente delle Città Sorelle, lo Stato che ha partecipato alla guerra con gli Umani, ma ciò non ha impedito che io venissi assegnata ad una delle Oasi più letali, quella degli Eroi.

    Ma fare quello che mi dicono non è mai stato il mio forte, e così eccomi qui, a raccontare la mia storia ad un branco di Umani a cui non fregherà un accidenti di niente.

    State per chiudere questo libro? Potete farlo, ma non ve lo consiglio.

    Credo che vi converrebbe sapere come è iniziata la tempesta che rischia di travolgervi.

    Rimanere in un'Oasi non è la mia strada. Io voglio arrivare al vostro mondo.

    Salvare il mio ragazzo.

    Tornare in una casa dove non siete più voi a dominare.

    Mi hanno detto che posso fare tutto.

    Spero che sia vero.

    Una Vita sola

    – Salve a tutti –cominciò mio padre, e quasi indietreggiai quando la sua voce amplificata dal microfono tuonò nella sala. Era già il suo secondo mandato come Presidente delle Città Sorelle, ma ancora non aveva imparato ad iniziare un discorso come si deve. In ogni caso, Jackson Asmara era un professionista e si seppe riprendere in fretta, complice il fatto che nessuno lo stava realmente ascoltando.

    Tutti gli ospiti erano concentratissimi ad ammirare le lussuose e sfavillanti decorazioni, e come dare loro torto? Quella era una festa in grande stile.

    A casa Asmara, quando si manda qualcuno a morire, si fa con eleganza.

    Sbuffai.

    Ero la figlia del Presidente, eppure questo non era stato sufficiente ad esentarmi dall'entrare in una delle Oasi. Si pensa che appartenere alla famiglia più importante dello Stato serva a qualcosa, e invece no.

    Avevo sedici anni. Dovevo fare il mio dovere.

    Oltre a sbuffare, cominciai a strusciare nervosamente un piede contro il lucido pavimento di marmo. Sembravo un toro prima di caricare.

    – Violet, smettila –sibilò mia madre, in piedi al mio fianco in una posa quasi imbalsamata. LEI non sembrava durare fatica a rimanere perfettamente padrona della situazione.

    Ma io non potevo, NON ERO CAPACE, di essere come lei. Quella sera si sarebbe deciso il mio destino, se sarei morta, se sarei vissuta.

    Tutto dipendeva da papà, e dalle sue capacità di corruzione. Solo la promessa dei suoi soldi avrebbero potuto convincere gli Smistatori ad assegnarmi ad un'Oasi facile.

    Stare tranquilla era proprio l'ultima cosa che potessi fare.

    Mi sforzai di tirar fuori almeno un sorrisetto nervoso, sebbene poco convinto.

    Vedi, mamma? Ce la sto facendo.

    Ma non era vero. Non era vero proprio per niente.

    – Carissimi invitati –aveva ripreso mio padre, il tono affabile e cordiale che usava sulle folle, di solito per farsi rinnovare il mandato per qualche anno ancora–, Grazie per essere venuti. Stasera siamo qui per festeggiare un evento molto importante, il compleanno di mia figlia Violet, che compie sedici anni. Domani farà il suo ingresso al Palazzo dello Smistamento, e da lì sarà mandata a compiere il suo dovere di cittadina, per preservare le nostre Città da un' altra invasione Umana. Sono molto fiero di lei, e ho fiducia nel fatto che porterà a termine il suo compito senza problemi, con la forza che finora ha sempre dimostrato. Stasera siamo tutti qui per salutarla e rivolgerle un augurio: che le tue cinquanta vite durino per tutto il tempo necessario, Violet! –mentre diceva quest'ultima frase si era girato nella mia direzione, ma non era a me, che quelle parole erano rivolte.

    Tutti le ripeterono diligentemente, probabilmente senza captare il senso nascosto dell'augurio. In fondo la maggior parte degli ospiti erano persone comuni, e molti di loro avevano già mandato o avrebbero mandato in futuro il loro primogenito in una delle Oasi. Quelle erano parole che, presto o tardi, tutti avevano ripetuto o avevano sentito ripetere.

    Non c'era niente di strano.

    Ma se degli Smistatori, due o anche di più, fossero stati presenti tra la folla... e lo erano... allora sarebbero stati in grado di capire ciò che mio padre non aveva potuto dire chiaramente.

    Che le tue cinquanta vite durino per tutto il tempo necessario.

    Significava che voleva che io fossi assegnata ad un'Oasi sicura, dove sarei riuscita a sopravvivere... ed era disposto a pagare perchè ciò avvenisse.

    LORO avrebbero capito.

    Ciò che mi chiedevo era se lo avrebbero ascoltato.

    Sorrisi alla folla con finta nonchalance, apparentemente grata della loro altrettanto finta partecipazione. Detestavo trovarmi là. Perché diamine mi era venuto in mente di accettare? Quella era la mia ultima sera, e mi sarebbe toccato passarla con un branco di persone che non conoscevo e alle quali non importava niente di me. Erano lì solo per godersi la bella festa, o per conoscere la gente dell'alta società della Capitale.

    Cosa sarebbe cambiato, a quelle persone, se l'indomani fossi morta?

    Niente, assolutamente niente. Avevano già i loro figli a cui pensare. Non potevano certo preoccuparsi anche per me.

    Riluttante, strascicando i piedi in maniera impercettibile ( sotto il lungo vestito che mia madre mi aveva costretto ad indossare, erano comunque nascosti ), affiancai papà accanto al microfono. Mentre lo staccavo dalla base e lo prendevo in mano, notai l'improvvisa durezza del suo sguardo. Attenta, sembravano dirmi i suoi occhi. Ricordati che devi dare l'impressione di essere una brava ragazza, una damigella ingenua e vulnerabile che di certo non sarebbe in grado di sopravvivere nelle Oasi più dure. Una sola mossa sbagliata, e gli Smistatori scopriranno ogni cosa.

    Sospirai mentalmente. Non aveva bisogno di ricordarmi ancora quanto fosse cruciale quel momento. Lo sapevo già da sola.

    – Salve –salutai gli ospiti, come poco prima aveva fatto anche lui–. Grazie per essere venuti alla mia festa. Come ha già detto mio padre, domani parto per le Oasi... e ho paura, certamente, come tutti, del resto... ma sono anche orgogliosa di fare il mio dovere per proteggere il nostro paese dai governi stranieri –lasciai che la mia voce tremasse appena, mentre pronunciavo le ultime parole. LORO dovevano vedere quanta paura avessi. Dovevano vedere quanto fossi fragile–. Ma non è a questo che voglio pensare stasera. Questi sono i miei ultimi momenti qui nella Capitale, e voglio passarli divertendomi. Perciò, buona festa a tutti! –l'ultima esclamazione, invece, era più simile ad un gridolino nervoso. Sarebbe stato sufficiente? Mi girai verso mio padre, e ottenni un sorriso compiaciuto.

    Non era andata tanto male, pensai sollevata. Forse qualche Smistatore l'avevamo convinto.

    A testa bassa scesi dal piccolo palco allestito per l'occasione, barcollando sui tacchi altissimi che la mamma mi aveva messo in mano quando mi aveva dato il vestito. Lì per lì avevo accettato di indossarli, non rendendomi conto della loro natura di macchine mortali... ma si sa, è molto più facile essere aperti all'idea di una scarpa col tacco quando si ha in mano e non ai piedi.

    Accidenti a me!

    Un'altra questione importante era come avrei passato la serata. Non conoscevo quasi nessuno, erano tutti invitati dei miei genitori. Di certo non erano le persone di cui avrei voluto circondarmi in quel momento, ma... cosa potevo farci? Quella era una festa alla Casa del Presidente, e le persone, al pari degli oggetti, facevano parte dell'immagine che volevamo creare.

    Ancora una volta, il mio divertimento veniva sacrificato per fare buona impressione sugli Smistatori.

    Avevo voglia di piangere, ma mi costrinsi a sorridere e salutare e sorridere di nuovo, facendomi trascinare in una rumorosa girandola di luci e colori e vestiti e commenti gentili... un inferno coperto di vestiti di seta.

    A mezzanotte, ne ebbi abbastanza.

    Lasciai lì come un pesce lesso una delle mie cugine di non so quale grado, che mi stava chiedendo dove avessi preso quel meraviglioso vestito ( ma diceva sul serio? ), e mi avviai a grandi passi verso il porticato sul retro, l'unica parte della casa che mi piacesse sul serio.

    Per prima cosa, era diverso dal resto della villa, che sembrava opera di un architetto pazzo, convinto di poter riempire un corridoio lungo mezzo chilometro con un semplice cassettone, ma non era questa la ragione per cui ci passavo tanto tempo. No. La ragione era che, sul retro del giardino, le luci erano minime, e questo mi permetteva di ammirare il cielo senza interferenze. Non che fossi un'appassionata di stelle, non ne sapevo niente di cose simili, ma... il cielo si apriva sullo spazio, e nello spazio si trovava il pianeta degli Umani, e quello sì, che mi interessava.

    Non l'avevo mai confidato a nessuno, ma pensavo a quel luogo più che a qualunque altro. Ne ero quasi ossessionata. In notti come quella, buie e senza quasi la luce delle stelle, guardavo verso il cielo apparentemente vuoto e cercavo di immaginarmi come fossero gli Umani, come vivessero, come passassero il tempo... mi sarebbe piaciuto trovarmi, anche solo per un giorno, tra quelli che decidevano il nostro destino.

    Com'erano davvero? Il loro aspetto era veramente quello che ci mostravano i film e i fumetti che mettevano in commercio nelle nostre città, o truccavano i prodotti con effetti speciali prima di spedirceli? A volte non riuscivo a credere all'immagine che ci fornivano, perché, a parte per qualche piccolo particolare, sembravano identici a noi. Vivevamo su pianeti diversi, irraggiungibili tra loro se non attraverso un collegamento che un giorno inspiegabilmente si era aperto nello spazio. Com'era possibile che ci somigliassimo tanto?

    Forse era tutta una finzione, pensai, come aveva affermato con decisione Dan alle elementari. Lui era convinto che gli Umani in realtà assomigliassero a bestie feroci, con zanne ricurve lunghe fino a terra. Quando, tutto serio, me l'aveva confidato, io avevo riso e prendendolo in giro gli avevo risposto che non era possibile, altrimenti come avrebbero fatto a camminare, con quelle scomode zanne che sfregavano sul pavimento?

    Ma la verità era che che a volte ci pensavo ancora.

    Volevo capire come fosse fatta la persona che mi avrebbe ucciso.

    All'improvviso sentii un fruscio tra i cespugli, debolissimo. Se nel giardino ci fosse stato anche il chiacchiericcio di una sola persona, non avrei udito niente, e persino nel silenzio in cui era avvolto il porticato molti non sarebbero riusciti ad individuare quella piccola increspatura della quiete. Io, però, ero diversa da loro. Avevo solo sedici anni, ma ero addestrata a fare cose che altri non sarebbero stati in grado di fare.

    Ci misi un attimo a entrare in azione.

    Il mio corpo scattò come una molla, senza che avessi bisogno di riflettere. Un secondo, ed ero saltata giù dalla balconata, atterrando con grazia tra i cespugli.

    Un altro secondo, e le mie mani erano strette intorno ad un collo.

    Cominciai a stringere.

    – Vi... –rantolò la mia vittima, facendomi quasi perdere la presa per lo stupore–. Ti pre...go... sono io!

    Lo lasciai andare immediatamente, guardando in faccia il mio assalitore per la prima volta da quando gli ero balzata alle spalle. Un imbarazzante rossore minacciò di espandersi sul mio viso.

    Non era un ladro, né tanto meno un terrorista pronto ad assassinare la figlia del Presidente. Era...

    – Dan! –sbottai, allo stesso tempo furiosa e colpevole–. Come ti è saltato in mente di nasconderti tra i cespugli come una spia? Non è così che si entra a casa nostra, dopo tutti questi anni dovresti saperlo. Pensavo che fossi...

    – Non stavo STRISCIANDO –si difese lui, interrompendomi–. Darmi della spia mi sembra un tantino esagerato.

    Parlava continuando a massaggiarsi il collo, dove stavano cominciando ad apparire delle macchie violacee. Evidentemente, dovevo esserci andata giù pesante.

    – Certo che no –ribattei comunque in tono sarcastico, decisa a tutti i costi ad avere ragione–. Infatti non eri tutto acquattato dietro ad un arbusto. Ti costava tanto passare dalla porta?

    – Be', se la metti così, a te costava tanto GUARDARE, prima di iniziare a strangolarmi?

    Mi guardò con evidente disappunto, piantando i suoi occhi verde scuro nei miei, altrettanto scuri ma marroni.

    Restammo a fissarci per qualche istante, poi io non potei resistere e scoppiai a ridere, rompendo definitivamente il silenzio del giardino. Ero davvero contenta di vederlo, brusca accoglienza a parte.

    Dan e io eravamo amici dalle elementari, più precisamente dal momento in cui, durante la ricreazione, mi aveva lanciato un verme sperando di spaventarmi. Per tutta risposta, io avevo cercato di farglielo mangiare. Sembrerà strano, ma da quel momento non ci eravamo più divisi, e avevamo affrontato insieme gli anni che ci separavano dallo Smistamento, trovando l'uno nell'altra tutto ciò che non potevamo avere dal resto del mondo.

    Da sempre gli altri mi avevano evitato, perché ero la figlia del Presidente, perché non sapevano bene come trattarmi, perché con gli allenamenti che ero costretta a fare non avevo tempo da dedicare alle amicizie e perché... be', ad essere onesti, anche perché non avevo un carattere proprio facile. Non era semplice starmi accanto.

    Eppure Dan ci riusciva, e sembrava anche che la cosa gli piacesse.

    Non c'era un'altra persona che avrei voluto avere al mio fianco, quella sera.

    Se non avessi avuto solo un'altra settimana di vita, avrei voluto diventare adulta per sposarlo.

    Intanto, lui non aveva smesso di blaterare:– Non potevo entrare nel salone, c' era una guardia che continuava a ripetere che senza invito non si poteva passare. E il bello è che si trattava di Stefano, mi conosce tipo da sette anni Così ho dovuto trovare una via alternativa –mi sorrise, ma io cominciavo a sentirmi veramente in colpa.

    – Scusami, Dan- mormorai–. Avrei dovuto avvertire mio padre di inserirti nella lista degli ospiti, solo che pensavo saresti rimasto dalla tua famiglia tutta la sera. Siamo nati nello stesso mese, domani è il giorno dello Smistamento anche per te. Magari volevi salutarli...

    Dan era il primo di cinque fratelli, e avrebbe dovuto fare il suo dovere di figlio maggiore. Il pensiero delle manine della piccola Alice che lo abbracciavano e gli tiravano i vestiti, implorandolo di non andare, mi provocò una fitta allo stomaco. Avrebbe dovuto essere a casa, a consolare la sua numerosa famiglia. E invece era lì... per me.

    La mia sensazione di colpevolezza si stava alzando oltre la soglia del pericolo.

    – Ho cercato di fare in fretta –mi spiegò–. In fondo tutto quello che avevamo da dirci ce l'eravamo già detto in passato. Non è certo una sorpresa il fatto che debba andarmene, e, che l'abbiano accettato o meno, i miei l'hanno sempre saputo. E poi –aggiunse, tirando fuori il suo irritante ottimismo–. Non è detto che il nostro sia un addio. Se mi assegnano all'Oasi della Città o a quella della Principessa è più che probabile che io torni a casa senza aver sprecato neanche una vita.

    – Sarebbe bello, eh? –convenni.

    – Stupendo. Così ho deciso di non lasciarmi abbattere e di non privarmi dell'occasione di venirti a salutare. E' il tuo compleanno, in fondo, e visto che sei qui fuori e non là dentro ho immaginato ti stessi annoiando a morte.

    Ripensai alle mie cugine e alle loro assurde chiacchiere:– Puoi dirlo forte –confermai–. Strozzarti è stata probabilmente la parte più interessante della serata –colta da un'illuminazione improvvisa, lanciai un'occhiata titubante ai suoi lividi–. Ti fanno male? –gli chiesi, stupidamente. Che cosa credevo? Bene non gli facevano di certo–. Se vuoi possiamo andare al piano di sopra, nella stanza di mia madre c'è sicuramente qualcosa da...

    – Lascia stare –mi interruppe, con il solito sorriso e un gesto sbrigativo della mano–. Non è niente di cui preoccuparsi. E poi l'ho sempre saputo, che sei una donna pericolosa.

    Ridemmo entrambi, e con un movimento più o meno fluido ( nel senso che il mio lo fu, il suo non tanto ) ci issammo a sedere sulla balconata, le gambe che ciondolavano oltre il bordo. Il mio vestito ormai era in condizioni disastrose, con l'orlo tutto sfilacciato e sporco di terriccio, ma tanto sapete che non ci ero particolarmente affezionata. Le scarpe, poi, le avevo scalciate via nell'erba quando avevo mollato il collo di Dan.

    Rimanemmo in silenzio per un po'.

    Era strano, soprattutto per noi che non riuscivamo a stare zitti per più di trenta secondi, ma la verità è che all'improvviso non sapevamo più cosa dirci. Sembrava che ci fossimo resi conto per la prima volta che quella era la nostra ultima sera insieme, e che mancavano poche ore al momento in cui avremmo dovuto separarci, forse per sempre.

    Io e Dan, separati.

    Una tragedia che avevo sempre saputo che sarebbe avvenuta, ma senza crederci fino in fondo. Avevo aspettato, per tutti questi anni, sperando intimamente in un miracolo: immaginavo che quando sarebbe venuto il nostro momento le cose sarebbero state diverse, che a noi non sarebbe toccata la stessa sorte dei nostri predecessori.

    E invece... il momento era arrivato, e noi eravamo li.

    Nessun miracolo avrebbe potuto aiutarci.

    Non gli dissi nessuna di queste cose. Le frasi non dette aleggiavano tra noi, inespresse.

    Riuscivo quasi a sentirle, lievi sussurri nella notte, ed ero sicura che anche per lui fosse lo stesso.

    Lo osservai di sottecchi, cercando di non farmi notare. Mi impegnai ad imprimermi nella memoria ogni singolo tratto del suo viso, per essere sicura di non dimenticare neanche il più piccolo dettaglio. Cinque anni erano davvero tanti, e in quel momento più che mai avevo paura che avrei potuto non ricordare i lineamenti della persona che era stata un fratello... un amico... e molto di più.

    Sì, lo so cosa state pensando. State scuotendo la testa con sufficienza, e allo stesso tempo vi state ripetendo:– E' proprio una pessimista questa qua. Non pensa che potrebbero non separarsi affatto, che potrebbero essere assegnati alla solita Oasi?

    Ecco, se voi aveste visto Dan in quel momento, come lo vedevo io... non vi sareste mai fatti una domanda così cretina.

    Le persone vengono mandate in Oasi diverse dopo aver sostenuto un colloquio, e nella decisione che viene presa contano molte cose, tra cui il comportamento e l'aspetto fisico. Bastava guardarci uno a fianco all'altra per capire che non saremmo mai stati inviati nel solito posto: Dan era alto, biondo e magro come un grissino, l'espressione aperta e amichevole onnipresente nello sguardo, anche quando la bocca non sorrideva. Come avrebbero fatto ad assegnarlo a un'Oasi d'azione? Non aveva affatto l'aspetto del guerriero, al contrario di me, nonostante cercassi di nasconderlo con trucco e strati di seta.

    Io ero pericolosa, e Dan... Be', Dan no.

    Ed era carino. E simpatico. In effetti, aveva tutte le caratteristiche per essere scelto per l'Oasi della Città. Per quella Realtà Virtuale si cercavano le persone più alla mano, più flessibili, capaci di adattarsi ad impersonare i vari Ruoli che il gioco doveva coprire: per creare una città servivano bambini, adulti, anziani... gente che faceva ogni tipo di mestiere... lo psicopatico di turno... Non tutti i Virtual erano capaci di accantonare loro stessi per fare spazio a cinque anni di una vita fittizia, controllata da un computer. Dan aveva l'aria di uno dei pochi che poteva farcela.

    Comunque, l'Oasi della Città non era una delle opzioni peggiori, anzi, era uno dei posti migliori dove si potesse capitare. L'assenza di libertà faceva schifo, ma era sempre preferibile a perdere tutte e cinquanta le Vite in una sola settimana. Era lì che mio padre aveva tentato disperatamente di mandarmi.

    Non avrebbe funzionato.

    Lo capii in quel momento, mentre osservavo Dan, che sembrava il ritratto della simpatia e della vulnerabilità.

    Gli Smistatori non sarebbero mai caduti nella mia trappola. Sapevano com'era chi stavano cercando.

    Era gente come Dan. Non come me.

    Non mi ero resa conto che lo stavo ancora fissando.

    – So a cosa stai pensando, Vi –disse tutt'a un tratto lui, senza neanche girarsi a guardarmi–. Pensi che verrò scelto per la Città.

    Non provai neanche a negare.

    – Lo dici come se fosse una brutta cosa –mi appoggiai a lui, senza riuscire a evitare di pensare che forse sarebbe stata l'ultima volta.

    – Ma lo è! –sbottò lui–. Io non ci voglio andare, in quel posto! Mi faranno mettere con una cretina scelta dal Giocatore, una che non conosco e che non mi piace nemmeno... dovrò farci dei FIGLI!

    – Prima c'è il ballo di fine anno –gli ricordai, serissima.

    Si fermò per un momento, interdetto, poi scoppiammo entrambi a ridere.

    La nostra voce, però, aveva il suono stridulo della disperazione.

    – Dico sul serio, Vi –continuò lui, non appena ci fummo un po' calmati–. Preferisco morire che andare lì.

    – Non diresti così se sapessi come sono le altre Oasi.

    – C'è l'Oasi della Regina, Bonnie Principessa .

    – A parte Bonnie Principessa .

    – D'accordo, hai ragione. Probabilmente la Città non è la peggior alternativa possibile. Ma non metterti a fare la donna vissuta. Neanche tu sai niente delle Oasi, è contro il regolamento parlarne con qualcuno che c'è stato. Senza contare che sarebbe abbastanza inutile, i Livelli cambiano tutti gli anni.

    Mi guardò interrogativo, ma io non risposi subito.

    Presi un profondo respiro. Sapete, non vi ho detto una cosa. In realtà non l'ho mai detto a nessuno, nemmeno a Dan. E' una specie di segreto di famiglia, uno dei tanti scheletri nel lussuoso armadio degli Asmara.

    – Io so quanto siano pericolose le Oasi, Dan. In particolare una di esse –mormorai velocemente, prima di poterci ripensare.

    Gli occhi di Dan si spalancarono improvvisamente.

    – Non sono la primogenita –continuai, lo sguardo basso per impedire ai miei occhi di incontrare i suoi. Sì, proprio così. Ero la SECONDA figlia del Presidente, non la prima, quindi, tecnicamente, avrei dovuto essere salva. Ma le cose non erano andate così, e mi ero ritrovata fregata. Era una storia complicata e molto, molto dura da tirare fuori. Soprattutto dopo tutti quegli anni di segreti.

    – Violet, ma cosa dici? Tu non sei... –lo stupore e la confusione gli impedirono di continuare.

    – No. Non lo sono –tenevo lo sguardo abbassato, non volevo che lui vedesse che i miei occhi erano diventati lucidi. Mi succedeva sempre, quando ripensavo alla storia che aveva cambiato il corso della mia vita. So che cosa pensate. La mia sembra il tipico retroscena strappalacrime da romanzo. Scrivo tutto questo per voi, e mi chiedo se non stiate per caso ridendo. Ma vi assicuro che io non ridevo, in quel momento. Non credo che riuscirò mai a ridere, ripensando a LUI.

    – Avevo un fratello, di due anni più grande di me. Si chiamava Mark. Era... –annaspai per trovare le parole. Se solo mi avesse interrotto, penso che non sarei più riuscita a parlare. Ma Dan sapeva quando fosse il caso rimanere in silenzio: era una delle tante cose che mi piacevano di lui- Era destinato ad essere assegnato ad una delle Oasi quando avesse compiuto sedici anni, come tutti.

    Mi presi un'altra pausa. Lui continuava a non intervenire.

    – I miei non gli volevano bene. O meglio, si erano come RIFIUTATI di volergliene. Quando aveva sei anni lo mandarono in un collegio fuori dalla Capitale, e tornava solo d'estate, o al massimo durane le vacanze invernali. In questi momenti, loro... sembravano evitarlo, e quando stavano con lui assumevano quello sguardo... quello con cui si osserva un malato terminale o un condannato a morte. Non che lo trattassero male, o cose del genere. Non lo tenevano escluso dalla famiglia. Se avesse voluto tornare... se un giorno ci avesse detto che non voleva più stare in collegio... penso che i miei lo avrebbero accolto a braccia aperte. Solo che Mark non ci chiese mai una cosa simile. Lui non voleva tornare: l'aria del collegio era molto migliore di quella che si respirava a casa nostra.

    Mi interruppi bruscamente, premendomi gli occhi contro la mano stretta a pugno per impedirmi di piangere. Sentii Dan che gentilmente mi circondava la vita, traendomi a sè, ma quasi non ci feci caso. Il mio corpo poteva anche essere lì, accanto a lui, ma la mia mente si trovava nel passato... e le mie orecchie erano piene della voce di Mark.

    – Quando tornava a casa, passava con me quasi tutto il suo tempo. Era simpatico, sai? Ti assomigliava un po', solo che era più sbruffone. A me, poi, sembrava fantastico: viveva in collegio, senza i genitori, e questo mi sembrava quasi come essere adulti. Quando eravamo insieme mi raccontava dei suoi amici, della vita che faceva lì, e quando ripartiva, a volte avrei voluto correre per saltare sulla Navetta con lui. Volevo vedere, anche solo per una volta, le cose che mi aveva descritto.

    – Quello che non mi è chiaro, Violet, è perchè non l'ho mai incontrato. Voglio dire, abbiamo vissuto appiccicati per tutto questo tempo...

    – I miei non mi facevano invitare gente a casa, se c'era lui. Era Mark che non voleva. Diceva che... non voleva conoscere nessuno... non voleva affezionarsi... altrimenti forse non sarebbe più voluto andare... e lui proprio non se la sentiva, di rimanere qua. Sai, non ho mai capito questa faccenda fino in fondo. Mark era complicato, e penso che, sotto tutta la sfrontataggine che mostrava al mondo, anche lui soffrisse enormemente. Non voleva mai restare, però penso che gli sarebbe piaciuto se noi almeno avessimo fatto degli sforzi per convincerlo. I miei, quando glielo chiedevano, sembravano sempre così riluttanti... –mi sfuggì un gemito.

    Le sue braccia si fecero più presenti intorno al mio corpo.

    – Non devi continuare, se non vuoi –sussurrò lui, rassicurante, anche se sapevo che moriva dalla voglia di sentire il resto.

    Ma io DOVEVO continuare. E' anche il motivo per il quale ho cominciato a scrivere questa storia.

    Perché Dan doveva sapere.

    Perché dovete sapere voi.

    Quindi, anche se era - è - difficile, andai - vado - avanti.

    Ricominciamo.

    – No, è tutto a posto –bugia–. Voglio continuare –altra bugia. Lui, però, fece finta di non accorgersi della poca convinzione presente nella mia voce.

    Comunque.

    – Mark non era come me, sai. Lui non avrebbe saputo da che parte cominciare, se avesse dovuto prendere a pugni un'altra persona. I miei non se ne erano eccessivamente preoccupati. Davano tutti per scontato che sarebbe finito nella Città, sembrava proprio il tipo giusto per un'Oasi del genere –nel sentire queste ultime parole, Dan non riuscì a trattenere una smorfia–. Purtroppo, però, successe un disastro. Per non so quale sbaglio di non so quale computer, Mark fu chiamato per lo Smistamento quando aveva solo dodici anni.

    – No! –esclamò Dan, sconvolto. Come tutti, aveva sentito parlare di errori simili, ma sicuramente doveva aver bollato quelle storie come leggende metropolitane. Io, invece, avevo scoperto sulla mia pelle quanto fossero vere.

    – Ma avete provato a rifiutarvi? –chiese il mio amico, evidentemente troppo scioccato per rendersi conto della stupidità della sua domanda–. Dire che c' era stato un errore, che Mark era solo un ragazzino...

    – Certo che ci hanno provato –risposi, squadrandolo con sufficienza–. I miei non sono i genitori migliori del mondo, ma quella volta si batterono come leoni per cercare di salvare il loro primogenito. Non servì. Gli Smistatori prendono ordini direttamente dagli Umani, neanche il Presidente ha molta autorità su di loro. Dissero che avevano già mandato i nomi e le liste dei nuovi personaggi alla Virtual Rapporti Controllati Umana, che era troppo tardi, che nuovi Ruoli erano già stati creati. Sarebbe stato troppo complicato rimettersi d' accordo con gli Umani, e quei bastardi non amavano le cose complicate. Dovette presentarsi allo Smistamento. Non ci fu nient' altro da fare.-

    – E poi? Che cosa successe?

    – Fu assegnata all'Oasi della Guerra, Guerra Eterna . Non era uno di personaggi principali, ma era comunque uno dei guerrieri, e questo fu sufficiente. Ci mise solo un mese a perdere tutte le sue Vite, anche se ne aveva cinquanta. Un po' di tempo dopo, come favore speciale gli Smistatori ci portarono il video del suo ultimo Livello. Io avevo solo dieci anni, ma mi misi a strillare perché volevo vederlo anch'io, volevo vedere quanto era stato coraggioso il mio fratellone. Ma non era stato coraggioso. Era solo una vittima. Vidi la battaglia, il sangue, ragazzi di sedici anni che si colpivano come se fossero nemici per davvero e quello non fosse solo uno stupido Ruolo...Vidi mio fratello cadere, trafitto da uno spadone, ma non lo vidi rialzarsi. Dopo un po', divenne completamente immobile. Era morto –raccontavo la mia storia con uno strano tono di voce atono. Pensavo che, se fossi riuscita ad estraniarmi da ciò che stavo dicendo, parlare della morte di mio fratello non sarebbe stato poi così difficile. Ovviamente, mi sbagliavo. Era difficile lo stesso.

    – E c'è di più. Visto che mio fratello era stato mandato prima dell'età stabilita, dai dati risultava che la mia famiglia doveva ancora fornire un Personaggio sedicenne. Tutto era stato programmato dai computer, e nessuno Smistatore fece niente per cambiare quei risultati, per quanto li supplicassimo e rivendicassimo i nostri diritti. Mia madre sarebbe stata pronta a fare una rivoluzione pubblica, ma alla fine mio padre la convinse a rimanere al proprio posto. Un'insubordinazione del Presidente avrebbe potuto essere presa come un'atto di guerra, e non ci potevamo permettere un altro attacco degli Umani. Io... non valevo così tanto.

    – Non è giusto, Vi! –sbottò Dan, lasciandomi di scatto. Nei suoi occhi ardeva un'ira che non gli avevo mai visto, e che non riconoscevo.

    Sospirai:– Lo so che non è giusto, ma non abbiamo potuto farci niente. E' da quando abbiamo scoperto quella notizia che mio padre mi ha costretto ad imparare a combattere, a diventare una guerriera, scegliendo per me i migliori istruttori che fosse riuscito a trovare. Non voleva perdere un'altra figlia. Ma c'è una cosa che mio padre non sa, Dan. Non la sa nessuno a parte te –lo guardai dritto negli occhi mentre mi liberavo del peso che da anni mi gravava sul cuore–. Io non posso sopravvivere alle Oasi. Non è un atteggiamento pessimista, è la realtà dura e cruda. Quando mio fratello è stato mandato a Guerra Eterna , sono andata al Negozio Aiuti e ho dato quarantanove Vite al suo corpo virtuale. In pratica, tutte tranne una. Speravo che servisse a fargli guadagnare del tempo, in cui avrebbe imparato a non farsi ammazzare, e poi a me non sarebbero servite, non dovevo andare nelle Oasi. E invece lui è morto lo stesso, è riuscito a sprecare sue Vite e le mie. So che è brutto, ma a volte ci ripenso e mi sembra quasi di odiarlo. E' che non lo sapevo, capisci? Pensavo che fossero inutili! Ora però devo andare lì... e sono rimasta senza –feci una breve pausa–. Morirò Dan, lo capisci? Non importa che io conosca tre arti marziali e sappia usare molti tipi di arma. Non importa se so come battermi, come giocare sporco. Ho solo una Vita. Nessuno sopravvive per cinque anni con una Vita sola.

    Senza poterlo impedire, sentii scendermi delle lacrime ghiacciate sulle guance. Io non piangevo mai. Era una cosa così poco da me che mi fece piangere ancora di più. Mi sembrava di non avere più il controllo di me stessa, ma non potevo farci niente, ero completamente in balia dei sentimenti.

    Non volevo morire, soprattutto non in un modo orribile e doloroso come quello in cui era morto Mark. Se avessi avuto tutte le Vite, ero certa che sarei sopravvissuta. E che cavolo, sarei sopravvissuta anche se ne avessi avute cinque.

    La gente non giocava mica tutti i giorni, e io ero forte.

    Ma con una? Non avevo possibilità.

    Mi resi conto che Dan mi aveva stretto di nuovo a sé, senza parlare. Mi appoggiai contro il suo petto, trovandolo più... non so... più LARGO, forte, di come mi ero immaginata che fosse. Mi aggrappai a lui come se potesse portarmi via e salvarmi da quell'incubo. Ma Dan non poteva aiutarmi. Nessuno poteva farlo.

    – Potremmo scappare, Vi –sussurrò lui, accarezzandomi i capelli. Quasi scoppiai a ridere. Sembrava così strana quella frase detta da lui, che aveva vissuto tutta la sua vita nelle comodità della Capitale, con la colazione pronta e l'acqua calda nella doccia. Io ero la figlia del Presidente, ma per allenarmi avevo passato settimane nella natura, cacciando e raccogliendo robaccia da terra e facendo un mucchio di cose schifose. Se fossimo fuggiti, io avrei potuto sopravvivere, ma lui? Quanto ci avrebbe messo per rimpiangere la sua scelta?

    – Già –dissi comunque–. Io potrei insegnarti a uccidere gli animali e tu creeresti documenti falsi per quando riusciremo ad arrivare in un' altra Città. Faremmo finta di avere ventun anni, così saremmo liberi. E poi....- tirai fuori un'idea dopo l'altra, sentendomi meglio ad ogni parola pronunciata.

    Era come se potessi vedere veramente le cose di cui parlavo, come se fossero possibili. Anzi, probabili.

    Ma la realtà ci riportò con i piedi per terra.

    – Non lo faremo mai, vero? –chiese Dan, e nella sua domanda era già contenuta la risposta.

    Scossi la testa:– No.

    Nonostante tutto, non avevamo il coraggio di fuggire. Forse con un po' più di preparazione, di studio, di bagagli sarebbe stata un'altra cosa, ma con i se si poteva arrivare ovunque.

    La verità era ben diversa.

    – Non voglio che sia mattina –sussurrai–. Voglio che sia stanotte per sempre.

    Mi guardò. Mi piacevano i suoi occhi, verdi come le piante del mio giardino. Quella sera avevano dei piccoli riflessi gialli, simili alla luce delle lucciole.

    – Tu non vuoi morire, Vi –dichiarò all'improvviso.

    – Certo che no –risposi, irritata–. Tu sì?

    – E allora puoi stare certa che non morirai, perché quando tu ti metti in testa una cosa riesci sempre a raggiungere il tuo scopo.

    Scossi di nuovo la testa. Mi sarebbe piaciuto crederlo, ma non era affatto vero.

    – Non sono riuscita a salvare mio fratello, e neanche ad evitare lo Smistamento. E non sono mai andata sulla Terra, anche se lo vorrei con tutte le mie forze.

    – Un giorno, ci andrai. Anzi, ci andremo insieme. Sopravviverò a cinque anni d' inferno e poi tornerò da te, pronto a tentare l'impresa che nessun Virtual è riuscito a compiere. Verrò qui ad aspettarti, proprio come ho fatto stasera. Tu ci sarai. Promettimelo.

    – Non posso, Dan, lo sai che non posso.

    – Tu puoi fare tutto, Vi. E' per questo che ti amo.

    Ti amo.

    Quelle parole mi colpirono ancora di più della sua improvvisa saggezza. Non me l'aveva mai detto ad alta voce, anche se l'avevo sempre sospettato. Per forza, mica ci voleva un genio. Dan aveva sempre tutto scritto in faccia.

    Ma non era questo il punto. Il punto è che mi amava. Credeva in me.

    Credeva che sarei tornata, quando non ci credevo neanche io.

    Non mi ero mai sentita forte come in quel momento.

    Perché capii che avrei fatto qualunque cosa per tornare da Dan.

    – Tornerò –dichiarai, finalmente in tono sicuro. Non sapevo come avrei fatto, ma ci sarei riuscita–. E quando tornerò avrò ventun anni... e voglio sposarti.

    Non c'erano discussioni da fare, era così punto e basta. Non fui molto romantica, lo so. Ma io ero così, e , in realtà, lo sono ancora.

    In ogni caso, lui capì.

    – Non dovrei chiedertelo io, questo?

    – Io non te l'ho chiesto.

    – L'hai ordinato.

    – La risposta è sì?

    – Sì.

    Ci baciammo. Non so esattamente come successe, cose del genere con lui erano mai accadute. In quel momento, però, capii che era quello giusto, e che non avrei voluto passare quel momento con nessun altro, perché Dan era Dan e io ero io e queste erano costanti, non potevano cambiare se veramente volevamo essere felici.

    Fu infantile, impacciato, ma, a modo suo... fu stupendo.

    E non voglio entrare nei particolari, ma durò anche un sacco di tempo.

    Poi guardai l'orologio. Le due e mezzo.

    – Devo andare –a malincuore, mi staccai da lui–. Ci vediamo domattina.

    – D'accordo... a domattina –il suo sguardo sembrava capace di perforarmi.

    Mi voltai e cominciai a camminare verso la porta finestra, senza il coraggio di girarmi a guardarlo.

    Se solo i miei occhi avessero incontrato i suoi un'altra volta, giuro che sarei scappata con lui davvero.

    – Violet! –mi chiamò.

    Mi fermai.

    – Sì?

    – Fatti assegnare a Bonnie Principessa .

    – Farò del mio meglio.

    Considerato quant'era il mio meglio, dubitavo che sarebbe stato abbastanza.

    Violet principessa

    – Amore, sei pronta? – sentii gridare dalle scale. Ancora intontita dal sonno, non riuscii a riconoscere il proprietario della voce e, stupidamente, pensai che fosse Dan.

    Che assurdità. Dan, in casa mia, alle otto del mattino. Era assolutamente improbabile.

    Eppure, sorrisi lo stesso.

    – Arrivo –mormorai languidamente, gli occhi ancora chiusi.

    – Che ti prende? –chiese una voce, troppo roca per essere quella del mio ragazzo. Saltai ( letteralmente ) a sedere, sconvolta dalla visione che mi si parava davanti agli occhi.

    Mia madre era ai piedi del letto, e mi stava osservando con aria confusa.

    Arrossii violentemente. Non avrei mai voluto che mi avesse sentito parlare con quel tono. Era decisamente imbarazzante.

    – Mamma! –sbottai–. Che ci fai qui? Avevo messo la sveglia- Anche se, ora che mi faceva venire il dubbio, non ero sicura proprio al CENTO PER CENTO di aver premuto il pulsante d'avvio...

    – Evidentemente non ha suonato –ribatté lei, sbrigativa. Troppo assonnata per fermarla, la vidi cominciare ad impilare vestiti sui miei piedi coperti dal lenzuolo, costringendomi a tirarli indietro–. Violet, sono le otto!

    – Be', non è una questione di stato –protestai–. Lo Smistamento inizia alle nove.

    – Sì, d' accordo, ma devi arrivarci, e soprattutto mica avrai pensato di metterti le prime cose che ti capitano in mano! Certo, se tu ti fossi svegliata alle sette e mezzo avrei potuto farti anche i capelli...

    – I capelli?! – non ci capivo più nulla–. Ma... perché?

    – Come, perché? Devi sembrare una ragazza fragile e carina, te lo sei dimenticato? Come farai ad essere assegnata a Bonnie Principessa , se assomigli ad una teppista? Tu, però, non hai neanche pensato a svegliarti un po' prima... e accidenti a chi dice che per l'agitazione i ragazzi non chiudono occhio! Dormono, invece, eccome se dormono!

    – Ero stanca... –mi giustificai, scivolando giù dal letto con un grugnito.

    – Sì, perché ieri sera hai fatto le ore piccole con Dan! Proprio prima dello Smistamento! A volte mi chiedo cosa ti dica il cervello, o se ti dica effettivamente qualcosa... sarai la prima principessa con le occhiaie in tutta la storia delle fiabe!

    – Non ho le occhiaie –sibilai, prima di guardarmi allo specchio. In effetti, di occhiaie non ce n'era neanche l'ombra, ma non ero lo stesso un bello spettacolo. Quando ero andata a dormire mi ero dimenticata di struccarmi, e con le lacrime il trucco mi era calato lungo le guance in sottili strisciate nere.

    Sospirai:– Non ti preoccupare, mamma. In cinque minuti sarò pronta.

    – Lo spero bene –esclamò lei, prima di addolcirsi all'improvviso–. Devi essere perfetta, Vi, non possiamo correre nessun rischio. Voglio immaginarti per cinque anni ad infornare torte, non a... combattere... –l'ultima parola si interruppe con un verso strozzato. Mia madre cercava di controllarsi, ma si capiva che doveva essere prossima alle lacrime.

    Per un attimo mi sentii molto vicina a lei, e feci quasi per avvicinarmi ed abbracciarla... almeno finché non vidi i vestiti che mi aveva preparato.

    Rovinarono tutto.

    – Mamma! –esclamai, prendendo in mano quelli in cima alla pila. Erano meno elaborati di quelli della sera precedente, ma altrettanto rosa. Tanto per farvi capire: si trattava di una canottiera color cipria e, orrore profondo, un paio di pantaloncini verde evidenziatore. Non credevo neanche che fosse POSSIBILE l'esistenza di una tinta così brutta.

    E non era tutto: a coronare quello splendido abbinamento, c'erano un paio di ballerine fucsia con un fiocco sopra. Un fiocco molto grosso.

    – Disgustoso –commentai, indecisa se rifiutarmi di indossarli e ricacciarli nei più profondi abissi del mio armadio ( chissà quando l'avevo comprata, quella robaccia ). Poi però decisi di non fare l'infantile e accettai di metterli, seppur a malincuore: erano per uno scopo più grande, in fondo, e chissà, forse sarebbero stati proprio quei vestiti a salvarmi dal finire in un'Oasi d'azione.

    Nonostante ciò, respinsi con forza ogni proposta che riguardasse un'acconciatura: i capelli erano una parte di me a cui tenevo molto, e non mi piaceva che qualcuno ci mettesse le mani: dovevano restare così com'erano, lunghi, liscissimi e viola scuro. Non avrei tollerato nessuna alternativa.

    La mamma, intanto, mi stava osservando con aria di approvazione:– Stai benissimo, amore. Sai, quando torni, dovresti cominciarti a vestirti in questo modo anche per andare in giro –la guardai per vedere se stesse scherzando.

    Non lo faceva.

    – Non ci sono parole per esprimere il mio disgusto per quello che hai appena detto –mugugnai. Lei mi lanciò un'occhiata di rimprovero.

    – Sei Bonnie Principessa, ricordi? A lei questo stile piacerebbe.

    – Ma non avevamo deciso di puntare sulla Città?

    – E' quello che ha detto tuo padre. Io, però, penso che possiamo ambire a mete più alte. Pensaci, Vi, a Bonnie Principessa le cose sono ancora più facili. Cinque anni lì sarebbero una passeggiata. Per questo devi comportarti come farebbe la protagonista di quell'Oasi, è fondamentale che tu entri nella parte. Ridimmelo da capo: come sono i tuoi vestiti?

    – Non ci sono Smistatori in casa nostra, mamma.

    – E' qui che sbagli. Devi far finta che siano sempre con te, ovunque tu vada. Come sono i tuoi vestiti?

    Non sembrava intenzionata a lasciarmi stare.

    – Splendidi, mamma –mormorai, cercando di stamparmi un falso sorriso da principessa su delle labbra che non avevano nessuna intenzione di curvarsi all'insù.

    Il risultato fu tutt'altro che ottimo, ma mia madre parve soddisfatta:– Perfetto, Vi. Vedrai che ti sceglieranno subito.

    Il suo tono era sicuro e anche la sua espressione sembrava ostentare una fiducia assoluta... ma, mentre ci incamminavamo verso la porta d'entrata, vidi che le sue mani tremavano leggermente e si torcevano l'una con l'altra. Non sembrava totalmente convinta che il tentativo di corruzione di papà fosse andato in porto.

    Per un attimo ebbi voglia di chiederle quanto lui avesse offerto, ma richiusi subito la bocca. Ripensandoci, non avevo voglia di sapere il mio prezzo.

    Nemmeno lei disse nulla. Facemmo il resto del breve tragitto in silenzio, entrambe imbarazzate da una situazione che non sapevamo gestire. Ogni parola rischiava di suonare vuota, superflua, e per questo non riuscivamo a parlare. Quando si decise a riaprire bocca, eravamo già sulla porta di casa.

    – Buona fortuna –mormorò, guardandomi in faccia per la prima volta da quando avevamo lasciato la mia camera. La nostra non era mai stata una relazione stretta, i miei genitori erano sempre stati troppo impegnati per badare a me più dello stretto necessario, e in quel momento la distanza che c'era tra noi cominciò a farsi sentire, impedendoci di dire le parole che, per una volta, avrebbero potuto riavvicinarci.

    – Grazie –risposi formalmente, anche se avevo voglia di prendermi a pugni. Era mia madre quella che stavo per lasciare, eppure non mi veniva neanche da piangere. Feci per compiere un passo in direzione della scalinata, ma per qualche assurda ragione i piedi rimasero saldamente attaccati al pavimento di marmo, impedendomi di andarmene.

    – Io... – sussurrò ancora la mamma, decisa a tirarsi fuori parole che non era abituata a pronunciare–. Io ho fiducia in te, Vi, l'ho sempre avuta. So che se ti impegni puoi riuscire a fare qualunque cosa.

    Rimasi come fulminata. Erano quasi le stesse, identiche parole che aveva usato Dan quella notte.

    – So che sei preoccupata, ma io sono certa che la farai. Noi... tra cinque anni ci rivedremo. Ne sono sicura.

    Mi abbracciò. Era tanto, tanto tempo che non lo faceva.

    Forse, per una volta, potevamo fare a meno delle parole.

    Dopo qualche secondo mi divincolai gentilmente dalla sua stretta, le rivolsi un sorriso che doveva sembrare fiducioso e uscii dalla porta per avviarmi verso il cancello, sotto gli occhi delle guardie che mi fissavano tristemente.

    – Arrivederci, signorina.

    Annuii, ma non risposi a nessuna di loro. Ero troppo impegnata ad ascoltare i rumori che mia madre si stava sforzando di non emettere. A sua discolpa, dico che aspettò un po' prima di scoppiare a piangere, ma riuscii lo stesso a sentirla vagamente mentre mormorava, la voce spezzata:– Mi portano via un altro figlio...

    Evidentemente, la sua fiducia erano solo parole.

    Feci da sola qualche via, poi arrivai alla casa di Dan e suonai il campanello. Sperai che mi avesse aspettato. Non credevo che sarebbe stato capace di andare allo Smistamento senza prima venire a chiamarmi, ma avevo paura lo stesso. Con la disperazione che sentivo salire nel cuore, non sarei riuscita a farmi da sola quei pochi chilometri. Avevo bisogno di lui per rimanere lucida e calma.

    E per ricordarmi che non tutte le speranze erano perdute.

    Fortunatamente, fu lui ad aprire la porta. Non avrei sopportato di ricevere gli sguardi affranti dei suoi genitori.

    – Ehi –lo salutai, rivolgendogli un minuscolo sorriso. Il pensiero di cosa era successo tra di noi la sera prima rischiò di farmi arrossire, ma cercai di dissimulare l'imbarazzo. Tra di noi muri del genere non dovevano esistere.

    Dan, al contrario, sembrava tranquillissimo. Mi rivolse uno splendido sorriso aperto, apparentemente ignaro di quanto poco tempo ancora avessimo a disposizione. Era vestito come sempre, un pezzo di brioche ancora in mano: non aveva bisogno di un costume per apparire innocuo.

    – Ciao, Vi! –mi salutò, raggiungendomi. Quando mi affiancò, vidi che mi stava porgendo un sacchetto. Curiosa, lo aprii e ci infilai subito le dita.

    – Cos'è? –chiesi, preoccupata di ricevere un altro inaspettato gesto romantico che accompagnasse la sua dichiarazione. Per quanto dolci, cose del genere mi mettevano un po' a disagio–. Un anello?

    Si mise a ridere:– Ma no, Violet, sono brioches. Alla crema. Sono buonissime, le ha fatte mia madre stamattina.

    Mi misi a ridere anch'io, leggermente sollevata. Di cosa mi ero preoccupata? Dan mi conosceva meglio di chiunque altro. Non avrebbe mai fatto qualcosa che mi mettesse in imbarazzo. Decisamente, lo Smistamento mi stava dando alla testa.

    Con un gesto deciso tirai fuori la pasta, addentandola quasi con foga mentre ci avviavamo verso la nostra destinazione. Il nervosismo mi aveva impedito di fare colazione a casa, ma, in compagnia dell'unica persona che volevo avere al mio fianco, lo stomaco si stava riaprendo.

    – Grazie –borbottai, la bocca piena di crema. Lui rise.

    – Era l'unico regalo che avresti veramente apprezzato.

    – Puoi dirlo forte –mandai giù il boccone prima di tornare seria–. Dan... come vanno le cose a casa tua? Voglio dire... stamani è stato tanto brutto?

    Sospirò, abbassando lentamente gli occhi. Sembrava che si fosse spento come una lampadina.

    – Sì... direi di sì. Ieri sera erano calmi, quasi rassegnati, ma oggi erano tutti in isteria totale. Persino mio padre non riusciva più a controllare la situazione. E Alice... mi si era aggrappata addosso, ho dovuto togliere a forza le sue dita dai miei pantaloni. Te lo giuro, Vi, avrei dato qualsiasi cosa per poter dire loro che sarei rimasto, ma non potevo, e allora perlopiù sono stato zitto. Da te, invece?

    Alzai le spalle in una posa noncurante alla quale non avrebbe creduto nessuno.

    – Be', papà non l'ho incontrato, penso che fosse impegnato con il lavoro e comunque credo abbia preferito evitarmi, e la mamma è convinta che sarò la seconda dei suoi figli a morire.

    – Incoraggiante.

    – Già.

    Facemmo qualche metro in silenzio, poi lui:–Non ti sei fatta spaventare, vero? Io sono ancora convinto di quello che ti ho detto ieri sera.

    Mi guardava come se avesse intenzione di trovare nei miei occhi la risposta.

    – E io sono ancora intenzionata a tornare. Del resto, guarda come sono conciata e dimmi se non sembro la Principessa perfetta. Se tutto va secondo i piani, non correrò alcun rischio.

    Lui mi squadrò da capo a piedi, con attenzione.

    – Hai ragione, l'abbigliamento non è male, ma non devi fare quella faccia.

    Alzai gli occhi al cielo:– Quale faccia?

    – Quella che stai facendo ora.

    – Questa è la mia faccia –la quale, mentre discutevamo, si stava facendo sempre più irritata.

    – E allora non fare la tua faccia, Violet! –si ritrovò quasi ad urlare, esasperato–. Sembra che tu sia talmente arrabbiata da essere pronta ad uccidere tutti gli Smistatori che incontrerai, fare allo spiedo i loro corpi e mangiarteli per cena! Non ti puoi presentare alla cerimonia con quest'espressione.

    Continuavo a non capire come avrei potuto migliorare la situazione:– Mi spieghi come la cambio, la mia faccia?

    – Non lo so, impegnati –La conversazione stava diventando surreale.

    Sospirai:– E' che... non ci riesco, Dan. Non riesco a fare come fai tu, che metti una maschera e sorridi e fingi che vada tutto bene. NON va tutto bene. E non si possono certo aspettare che io entri là dentro esultando come se avessi vinto la lotteria. Prigionieri, d' accordo. Ma non possono pretendere che io sia felice.

    – Non devi sembrare felice, Vi. Gli Smistatori sanno benissimo che nessuno è contento di essere mandato nelle Oasi. Devi solo sembrare gentile e vulnerabile, come Bonnie Principessa o un qualsiasi abitante del suo villaggio.

    – Dan...

    – Per favore, almeno provaci. Non so cosa darei per capitare a Bonnie Principessa con te, e passare il tempo a cucinare torte e ridipingere il castello –il suo tono, improvvisamente serissimo, mi fece venire un groppo in gola.

    Mi avvicinai di più a lui, sfiorandogli delicatamente la spalla con le dita:– Farò del mio meglio, Dan –promisi–. Fidati di me. Basterà non guardarli negli occhi e non si accorgeranno che non sono la fragile fanciulla che devo fingere di essere. Non sospetteranno niente; tutt'al più penseranno che sono timida.

    Lui annuì, di nuovo fiducioso. Be', non si poteva negare che fosse un tipo ottimista.

    D'istinto gli presi la mano, in quel tipico gesto da fidanzati che avevo sempre guardato con sufficienza. Qualunque fosse stato il mio futuro, volevo che tutti vedessero il mio presente... che comprendeva Dan.

    Che aveva BISOGNO di Dan.

    Senza di lui, non aveva alcun senso.

    Lui sembrò sorpreso ( ero davvero così poco affettuosa? ), ma decise di non commentare e godersi il momento.

    Che durò poco.

    Troppo presto arrivammo al Palazzo dello Smistamento, l'edificio in cui, ogni mese, entravano sedicenni da tutte le Città per essere assegnati alle Oasi. L'avevo visto almeno un milione di volte nella mia vita, perché era situato proprio di fronte alle scuole. Fermatevi un attimo a riflettere su questo fatto. Immaginatevi uno studente che esce a fine mattinata dal liceo, tutto sorridente, e poi immaginate il suo sorriso che sbiadisce ogni volta, mentre vede l'edificio in cui sarà mandato a morire prima ancora di essersi diplomato.

    Era più che sadico, era... non sapevo neanche con che aggettivo definirlo.

    Quel che sapevo è che era troppo per un bambino delle elementari.

    Era troppo anche per me.

    Comunque fosse, non mi era mai sembrato così duro e freddo come quel giorno, imponente e crudele in tutta la sua tecnologia spaziale. Al pensiero di entrarvi, strinsi forte la mano di Dan.

    Lui mi guardò.

    – E' solo un palazzo –disse.

    Ma non ci credeva neanche lui.

    Senza rendercene conto, ci eravamo bloccati di fronte al portone principale, interamente fatto da lastre di vetro infrangibile alte almeno quattro metri.

    Un piccolo gruppo di ragazzi ci superò, spintonandoci. Meditai se afferrarne uno per la maglietta e sbatterlo contro la parete del Palazzo dello Smistamento per scoprire se erano davvero infrangibili come dicevano, ma decisi di evitare. Vedete? Non sono del tutto incapace di essere civile.

    – Mi sa che dobbiamo entrare, Dan, qui diamo fastidio e basta.

    Annuì, anche se i suoi occhi corsero al cielo per l'ultima volta. Il suo sguardo era pieno di una nostalgia così struggente che pensai si sarebbe messo a correre per fuggire da quel posto, consapevole che sarebbe stato preso ma bisognoso di ancora qualche ora di libertà. Questa fu l'impressione che mi diede, però ovviamente non si mosse.

    Daniel Barnes non fuggì, e io neppure.

    Entrammo.

    Un girone dell'inferno, uno dei più profondi, doveva essere uguale alla scena che ci si parò davanti. Il corridoio, sebbene lunghissimo, era veramente stretto, e i ragazzi vi erano ammassati in un modo che mi fece dubitare ci entrassimo anche noi. Alcuni chiacchieravano, altri stavano seduti in silenzio, lo sguardo perso nel vuoto. Una ragazza bionda che sembrava avere circa quattordici anni era andata in crisi isterica e piangeva rumorosamente, singhiozzando con la faccia premuta contro le mani.

    Un ragazzo grande e grosso, invece ( lo conoscevo, mi sembrava si chiamasse Warren ), a intervalli regolari tirava pugni al muro, la faccia contratta in un ghigno rabbioso.

    Trascinai Dan dal lato opposto del corridoio, per paura che potesse decidere di cambiare bersaglio e scegliere noi.

    – Che roba –commentò il mio ragazzo ( potevo definirlo così, no? ), guardandosi intorno stralunato.

    – Già –commentai laconica –Quanto credi che ci vorrà?

    Esaminò con occhio critico la massa di adolescenti:– Non lo so. Un secolo?

    – Troviamoci un posto a sedere, allora –proposi, mentre mi cominciavo a sentirmi soffocare. Era come trovarsi in una discoteca strapiena, solo molto peggio.

    Le sedie erano già tutte occupate ( molte persone avevano l'aria di essere arrivate all'alba ), così ci sistemammo per terra, la schiena appoggiata contro il muro.

    Aspettammo un'ora.

    Io mi guardavo intorno, inquieta, ma mi sembrava non avessero chiamato ancora nessuno.

    Cominciai a guardare l'orologio ogni due minuti, quasi come in preda ad un tic nervoso. Mi sentivo sul punto di sclerare. Ero impaziente, agitata, atterrita e un mucchio di altre cose che non riesco a descrivere. Dan mi parlava ma io non riuscivo a concentrarmi. La sua bocca formava parole che io non sentivo.

    L'unica cosa a cui riuscissi a pensare era: possibile che, alla fine, fossimo davvero lì?

    Per tutta la vita, lo Smistamento era sempre sembrata una cosa terribile, ma lontana e quasi astratta. Era facile autoconvincersi che mancava ancora tanto tempo quando si era a casa propria e si conduceva una vita normale ( o, nel mio caso, quasi normale ). In quel momento, però, sentivo che la catastrofe era proprio lì, vicinissima, e pensare a qualcos'altro...parlare di argomenti di tutti i giorni... mi sembrava impossibile. Non ci riuscivo proprio.

    Per una volta, Dan mi parve molto più tosto di me.

    Passarono due ore, e finalmente cominciarono a chiamare.

    I nomi dei ragazzi interessati venivano letti ad alta voce da una Smistatrice in tailleur nero, che li accompagnava nella sala in gruppi di cinque o sei per volta. Nel tempo che seguì molti degli adolescenti seduti vicino a noi furono chiamati, ma i nostri nomi non volevano saperne di saltare fuori. Fui colta dallo sconforto.

    Avrei preferito essere chiamata in fretta, e non era solo per una questione di ansia.

    Più tempo passava, più Ruoli venivano assegnati, meno ne restavano per noi. Un secondo dopo l'altro, le nostre speranze diminuivano.

    Ovviamente non c'era un solo Bonnie Principessa , come non c'era un solo l'Oasi della Città. Anche se ogni Oasi doveva costare un mucchio si soldi, erano tanti, tantissimi gli Umani che usufruivano del nostro servizio.

    Ma nessuna Oasi aveva copie infinite.

    Nessuna.

    – Per caso hai un fazzoletto? –mi chiese all'improvviso la ragazza bionda, facendomi sussultare. Persa nei miei cupi pensieri non mi ero accorta che si era avvicinata a noi, seppure un po' titubante.

    Scossi la testa. Se avessi potuto portare qualcosa con me avrei portato un' arma, non un pezzo di carta, ma non persi tempo a spiegarle la mia filosofia. Sinceramente, avevo paura che si rimettesse a singhiozzare.

    Lei annuì e si asciugò gli occhi con la manica. Erano gonfi e arrossati, ma il colore azzurro li rendeva ugualmente i più belli che avessi mai visto. Per il Ruolo di principessa, credevo di aver appena trovato una rivale. Più che una Virtual, sembrava la Principessa Peach di uno di quei vecchi giochi degli Umani dell'epoca in cui non utilizzavano persone vere.

    Senza contare che era vestita completamente di rosa.

    Rosa confetto.

    La odiai.

    – Siete fidanzati? –chiese, sedendoci a gambe incrociate di fronte a noi come se qualcuno l'avesse invitata. Stava guardando le nostre mani intrecciate.

    Repressi l'impulso di scacciarla in malo modo e lanciai un'occhiata a Dan, che mi stava osservando in modo interrogativo. Moriva dalla voglia di rispondere di sì, ma non voleva mettermi in imbarazzo con smancerie non desiderate. Da una parte la sua accortezza mi faceva piacere, dall'altra questo atteggiamento servile mi dava un po' sui nervi.

    – Sì –risposi, sorridendo al mio ragazzo, che mi

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